Pope Francis received this morning the Superior Council of the Magistracy (CSM) of the Italian Republic. The Pope gave them a speech in which he invited them to reform themselves.

Questa mattina, nello Stato della Città del Vaticano, il Sommo Pontefice ha accolto il Consiglio Superiore della Magistratura della Repubblica Italiana. Nella sua veste di Vice presidente del CSM, David Ermini ha rivolto al Santo Padre un saluto. Poi il discorso di Francesco.

Sono suonate come una potente frecciatina, oltre che un invito, le parole del Papa che ha detto, citando Caterina da Siena, patrona d'Italia:  "Nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza "per chi", "come" e "perché" fare giustizia. È una decisione della propria coscienza. Così insegnava Santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi."

Le parole del Sommo Pontefice arrivano a magistrati che non vogliono assolutamente essere toccati da alcuna riforma. In questi giorni la riforma Cartabia, che peraltro è un leggero compromesso di un cambiamento che doveva (e deve) essere più radicale, sembra essersi arrestata violentemente. Da diversi anni la Repubblica Italiana versa in uno stato di degrado assoluto con un potere smisurato dei pubblici ministeri che decidono anche al posto dei giudici. Frequentare le aule di giustizia della Repubblica è diventato un incubo, si assiste a udienze in cui il PM (pubblico ministero) formula le sue richieste al GIP (Giudice per le indagini preliminari) e questo le accoglie  de planoIn sostanza ha perso di valore quel filtro a cui era chiamato, o meglio è chiamato, a fare il GIP. Questo, come denunciano da anni i Radicali, è favorito da una amicizia e da una condivisione del percorso formativo dei magistrati. Uno Stato che non risponde alle esigenze di giustizia dei cittadini e lascia impuniti molteplici reati. Per non parlare della mancanza di organico nelle cancellerie e negli stessi uffici di procura dove i magistrati sono costretti a scegliere quali reati perseguire e quali no, quando il dettato costituzionale è invece molto chiaro in merito: il PM ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.

Inutile parlare anche dei tempi idilliaci per ottenere giustizia e la completa perdita di fiducia da parte dei cittadini. Proprio pochi giorni fa la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato la Repubblica Italiana ( sentenza) ancora una volta per non aver saputo affrontae in modo adeguato una vicenda di violenza domestica.

Nel più grande sconforto di chi ogni giorno si alza per andare a perorare questa giustizia, ci sono poi i giochi di potere e il desiderio di denaro. Il trattamento speciale per alcuni soggetti e gli scandali. Basti pensare al noto caso Palamara o alla vicenda David Rossi . Sulla seconda basti dire che in pochi mesi la Commissione Parlamentare d'Inchiesta ha fatto più di anni ed anni di indagine da parte di Pubblici Ministeri e carabinieri che non hanno neppure chiare le basi di C.S.I.

Quando poi qualche giorno fa la ministra Cartabia ha ammesso le proposte del deputato  Enrico Costa, che ha chiesto una semplice regola di buon senso: avere una fotografia chiara dell'operato di ogni singolo magistrato per valutarne l'operato, i membri della magistratura hanno detto no. Guai a voi! A parlare è sempre l'associazione nazionale magistrati, la quale in realtà dovrebbe tacere più degli altri visto che lo scandalo Palamara sorge proprio da lì. Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia ha subito detto: "È irragionevole. Porterà a un magistrato che per prima cosa pensa alla sua carriera e non alla giustizia. Non serve a combattere il carrierismo, ma peggiora la situazione". In realtà ciò che chiede una parte di politica è che il PM venga valutato e bisogna, dicono, "prevedere l'istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell'attività svolta sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell'adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all'esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio".

Del resto, non è ciò che avviene per qualunque dipendente? Perchè non prevederlo per coloro che decidono sulla vita degli altri? Ed ecco che le parole di Francesco suonano quindi come una stoccata, molto chiara ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Un invito a riformarsi per riaquistare credibilità.

F.P.

Silere non possum 

IL DISCORSO DEL SOMMO PONTEFICE 

Illustri Signore e Signori! Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, al vostro Presidente, il Signor Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, al Vice-Presidente David Ermini, al primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, ai membri togati e ai membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. Siete stati chiamati a una missione nobile e delicata: rappresentate l'organo di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza dei magistrati ordinari e avete il compito di amministrare la giurisdizione. La Costituzione italiana vi affida una vocazione particolare, che è un dono e un compito perché «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (Art. 101). Il popolo chiede giustizia e la giustizia ha bisogno di verità, di fiducia, di lealtà e di purezza di intenti. Nel Vangelo di Luca, al capitolo 18, si racconta che una povera vedova si recava ogni giorno dal giudice della sua città e lo pregava dicendo: «Fammi giustizia» (v. 3).

Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: "C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi".  E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che dice il giudice disonesto.  E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".
Vangelo secondo Luca, 18 1-8

Ascoltare ancora oggi il grido di chi non ha voce e subisce un'ingiustizia vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall'Ordinamento in servizio a favore della dignità della persona umana e del bene comune.

Nella tradizione la giustizia si definisce come la volontà di rendere a ciascuno secondo ciò che gli è dovuto. Tuttavia, nel corso della storia sono diversi i modi in cui l'amministrazione della giustizia ha stabilito "ciò che è dovuto": secondo il merito, secondo i bisogni, secondo le capacità, secondo la sua utilità.  Per la tradizione biblica il dovuto è riconoscere la dignità umana come sacra e inviolabile.

L'arte classica ha rappresentato la giustizia come una donna bendata che regge una bilancia con i piatti in equilibrio, volendo così esprimere allegoricamente l'uguaglianza, la giusta proporzione, l'imparzialità richieste nell'esercizio della giustizia. Secondo la Bibbia occorre anche, in più, amministrare con misericordia. Ma nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza "per chi", "come" e "perché" fare giustizia. È una decisione della propria coscienza.  Così insegnava Santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi.

La domanda sul  per chi amministrare la giustizia illumina sempre una relazione con quel "tu", quel "volto", a cui si deve una risposta: la persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l'operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare. Per questo, la cultura della giustizia riparativa è l'unico e vero antidoto alla vendetta e all'oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello (Enciclica Fratelli Tutti, 252). Questa è la strada che, sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ho voluto indicare nell'Enciclica Fratelli tutti, come condizione per la fraternità e l'amicizia sociale.

L'atto violento e ingiusto di Caino, infatti, non colpisce il nemico o lo straniero: è compiuto contro chi ha lo stesso sangue. Caino non può sopportare l'amore di Dio Padre verso Abele, il fratello con cui condivide la sua stessa vita. Come non pensare alla nostra epoca storica di globalizzazione diffusa, in cui l'umanità si trova a essere sempre più interconnessa eppure sempre più frammentata in una miriade di solitudini esistenziali? Questo rapporto che sembra contraddittorio tra la interconnessione e la frammentazione: ambedue insieme. Come mai? È la nostra realtà: interconnessi e frammentati. La proposta della visione biblica è, al cuore del suo messaggio, l'immagine di un'identità fraterna dell'intera umanità, intesa come "famiglia umana": una famiglia in cui riconoscersi fratelli è un'opera a cui lavorare insieme e incessantemente, sapendo che è sulla giustizia che si fonda la pace.

Quando le tensioni e le divergenze crescono, per farsi nutrire dalle radici spirituali e antropologiche della giustizia occorre fare un passo indietro. E poi, insieme agli altri, farne due in avanti.

Così, la domanda storica sul "come" si amministra la giustizia passa sempre dalle riforme. Il Vangelo di Giovanni, al cap. 15, ci insegna a potare i rami secchi senza però amputare l'albero della giustizia, per contrastare così le lotte di potere, i clientelismi, le varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita. Questa problematica, queste situazioni brutte voi le conoscete bene, e tante volte dovete lottare fortemente perché non crescano.

Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.  Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.
Vangelo secondo Vangelo secondo Giovanni, 15  1-7

Il " perché" amministrare ci rimanda invece al significato della virtù della giustizia, che per voi diventa un abito interiore: non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare, ma il senso stesso della vostra identità personale e sociale.

Quando Dio chiede al re Salomone:  "Cosa vuoi che io faccia per te?", il figlio di Davide gli risponde: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3,9). Bella preghiera! Per la Bibbia "saper rendere giustizia" è il fine di chi vuole governare con sapienza, mentre il discernimento è la condizione per distinguere il bene dal male.

La tradizione filosofica ha indicato la giustizia come virtù cardinale per eccellenza, alla cui realizzazione concorrono la prudenza, quando i principi generali si devono applicare alle situazioni concrete, insieme alla fortezza e alla temperanza, che ne perfezionano il conseguimento.  Dal racconto biblico non emerge un'idea astratta di giustizia, ma un'esperienza concreta di uomo "giusto". Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: "Ma che cosa ha fatto di male costui?", poi però se ne lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti.

Sono la credibilità della testimonianza, l'amore per la giustizia, l'autorevolezza, l'indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà.  Governare la Magistratura secondo virtù significa ritornare a essere presidio e sintesi alta dell'esercizio al quale siete stati chiamati.

Il  Beato Rosario Livatino, il primo magistrato Beato nella storia della Chiesa, vi sia di aiuto e di conforto. Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall'altro, Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella Magistratura pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all'interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia. «Quando moriremo – sono le parole di Livatino –, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Livatino è stato assassinato a soli trentotto anni, lasciandoci la forza della sua testimonianza credibile, ma anche la chiarezza di un'idea di Magistratura a cui tendere.

La giustizia deve sempre accompagnare la ricerca della pace, la quale presuppone verità e libertà. Non si spenga in voi, illustri Signore e Signori, il senso di giustizia nutrito dalla solidarietà nei confronti di coloro che sono le vittime dell'ingiustizia, e nutrito dal desiderio di vedere realizzarsi un regno di giustizia e di pace.

Il Signore benedica tutti voi, il vostro lavoro e le vostre famiglie. Grazie.