Pope Francis spent his second day in the Democratic Republic of Congo

Mercoledì 01 febbraio 2023, il Santo Padre Francesco ha presieduta la Santa Messa per la pace e la giustizia all'Aeroporto di N'dolo. Il Pontefice ha detto: "Possiamo chiederci, come custodire e coltivare la pace di Gesù? Egli stesso ci indica tre sorgenti di pace, tre fonti per continuare ad alimentarla. Sono il perdono, la comunità e la missione". 

Francesco ha offerto una riflessione molto profonda: "Gesù dice ai suoi: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati». Ma prima di dare agli apostoli il potere di perdonare, li perdona; non a parole, ma con un gesto, il primo che il Risorto compie davanti a loro. Egli, dice il Vangelo, «mostrò loro le mani e il fianco». Mostra cioè le piaghe, le offre loro, perché il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d'odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace. Non si tratta di lasciarsi tutto alle spalle come se niente fosse, ma di aprire agli altri il proprio cuore con amore. Così fa Gesù: davanti alla miseria di chi lo ha rinnegato e abbandonato, mostra le ferite e apre la fonte della misericordia. Non usa tante parole, ma spalanca il suo cuore ferito, per dirci che Lui è sempre ferito d'amore per noi". 

Al termine della Santa Messa, l'Arcivescovo Metropolita di Kinshasa, S.E.R. il Sig. Card. Fridolin Ambongo Besungu, O.F.M. Cap. ha rivolto al Santo Padre un saluto. Il Pontefice ha poi fatto rientro nella Nunziatura Apostolica e ha pranzato privatamente.

Alle ore 16.30 il Pontefice ha ricevuto, presso la Nunziatura Apostolica dove alloggia, le vittime dell'est del Paese. "Mentre i violenti vi trattano come oggetti, il Padre che è nei cieli vede la vostra dignità e dice a ciascuno di voi: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti amo», ha detto Francesco. Il Papa parla dopo aver ascoltato, in silenzio, le testimonianze commoventi e crude dei sopravvissuti alla malvagità e alla "brutalità animale" dei gruppi armati per l'accaparramento delle terre dal 2005 a oggi. Ladislas Kambale Kombi ha deposto un machete ai piedi del crocefisso. Proprio con un machete, il giovane ha visto squartare e fare a pezzi suo padre da gruppi armati nell'Est del Paese. Tutti provengono dalle provincie del nord e sud Kivu nell'est del Congo. Rivolgo un vibrante appello - il Papa ha sottolineato - a tutte le persone, a tutte le entità, interne ed esterne, che tirano i fili della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, depredandola, flagellandola e destabilizzandola. Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti. Ascoltate il grido del loro sangue (cfr Gen 4,10), prestate orecchio alla voce di Dio, che vi chiama alla conversione, e a quella della vostra coscienza: fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!" Subito dopo, in Nunziatura, è stato animato un momento di preghiera e di testimonianze con i rappresentanti di alcune opere caritative.

Fra le testimonianze, quella di Suor Maria Celeste, una monaca trappista "molto felice della sua vocazione", ha colpito Francesco e i presenti. La religiosa ha detto: "Abbiamo fame di senso e d'amore", "sono sicura che è Lui che ha messo nel mio cuore, un desiderio d'offrire la mia esistenza per una missione grande come il mondo". "Nonostante la nostra piccolezza, il Signore crocifisso desidera averci al suo fianco per sostenere il dramma del mondo", ha sottolineato la suora.

Il Pontefice ha detto: "È bello darvi voce qui in Nunziatura, perché le Rappresentanze Pontificie, le "case del Papa" sparse nel mondo, sono amplificatori di promozione umana, snodi di carità, in prima linea nella diplomazia della misericordia, nel favorire aiuti concreti e nel promuovere reti di cooperazione. Ciò già avviene, senza clamore, in tante parti del mondo e qui da molto tempo; questa casa è da decenni una presenza vicina: inaugurata novant'anni fa come Delegazione apostolica, celebrerà tra pochi giorni il sessantesimo anniversario dell'elevazione a Nunziatura". 

Poi ha sottolineato: "quanto fate è meraviglioso, ma non è per nulla facile. Viene da piangere nel sentire storie come quelle che mi avete raccontato, di persone sofferenti consegnate dall'indifferenza generale a una vita randagia, che le porta a vivere per strada, esponendole al rischio di violenze fisiche e di abusi sessuali, e pure all'accusa di stregoneria, mentre sono solo bisognose di amore e di cure". E ancora: "A causare la povertà non è tanto l'assenza di beni e di opportunità, ma la loro iniqua distribuzione. Chi è benestante, in particolare se cristiano, è interpellato a condividere quanto possiede con chi è privo del necessario, tanto più se appartiene allo stesso popolo. Non è questione di bontà, ma di giustizia. Non è filantropia, è fede; perché, come dice la Scrittura, «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26)". 

Francesco ha poi cenato in privato. Il 40° Viaggio Apostolico del Papa continuerà domani, 02 febbraio 2023. Al mattino, Bergoglio incontrerà i giovani e i catechisti presso lo "Stadio dei Martiri". Nel pomeriggio, poi, l'incontro di preghiera con i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale "Notre Dame du Congo"a cui seguirà il consueto incontro privato con i Membri della Compagnia di Gesù.

S.I.

Silere non possum

Omelia di Sua Santità Francesco durante la Santa Messa a Kinshasa

Bondeko [Fraternità]  R/ Esengo [Gioia]

Esengo, gioia: la gioia di vedervi e incontrarvi è grande: ho tanto desiderato questo momento – ci ha fatto aspettare un anno! –, grazie per essere qui!

Il Vangelo ci ha appena detto che anche la gioia dei discepoli era grande la sera di Pasqua, e che questa gioia scaturì «al vedere il Signore» ( Gv 20,20). In quel clima di gioia e di stupore, il Risorto parla ai suoi. E che cosa dice loro? Anzitutto tre parole: «Pace a voi!» (v. 19). È un saluto, ma è più che un saluto: è una consegna. Perché la pace, quella pace annunciata dagli angeli nella notte di Betlemme (cfr Lc 2,14), quella pace che Gesù ha promesso di lasciare ai suoi (cfr Gv 14,27), ora, per la prima volta, viene consegnata solennemente ai discepoli. La pace di Gesù, che viene consegnata anche a noi in ogni Messa, è pasquale: arriva con la risurrezione, perché prima il Signore doveva sconfiggere i nostri nemici, il peccato e la morte, e riconciliare il mondo al Padre; doveva provare la nostra solitudine e il nostro abbandono, i nostri inferi, abbracciare e colmare le distanze che ci separavano dalla vita e dalla speranza. Ora, azzerate le distanze tra Cielo e terra, tra Dio e uomo, la pace di Gesù viene data ai discepoli.

Mettiamoci dunque dalla loro parte. Quel giorno erano completamente tramortiti dallo scandalo della croce, feriti dentro per aver abbandonato Gesù dandosi alla fuga, delusi per l'epilogo della sua vicenda, timorosi di fare la sua stessa fine. In loro c'erano sensi di colpa, frustrazione, tristezza, paura… Ebbene, Gesù proclama la pace mentre nel cuore dei discepoli ci sono le macerie, annuncia la vita mentre loro sentono dentro la morte. In altre parole, la pace di Gesù arriva nel momento in cui tutto per loro sembrava finito, nel momento più inatteso e insperato, quando non c'erano spiragli di pace. Così fa il Signore: ci stupisce, ci tende la mano quando stiamo per sprofondare, ci rialza quando tocchiamo il fondo. Fratelli, sorelle, con Gesù il male non ha mai la meglio, non ha mai l'ultima parola. «Egli infatti è la nostra pace» ( Ef 2,14) e la sua pace vince sempre. Allora, noi che siamo di Gesù non possiamo lasciare che in noi prevalga la tristezza, non possiamo permettere che serpeggino rassegnazione e fatalismo. Se intorno a noi si respira questo clima, così non sia per noi: in un mondo scoraggiato per la violenza e la guerra, i cristiani fanno come Gesù. Lui, quasi insistendo, ha ripetuto ai discepoli: Pace, pace a voi! (cfr Gv 20,19.21); e noi siamo chiamati a fare nostro e dire al mondo questo annuncio insperato e profetico del Signore, annuncio di pace.

Ma, possiamo chiederci, come custodire e coltivare la pace di Gesù? Egli stesso ci indica tre  sorgenti di pace, tre fonti per continuare ad alimentarla. Sono il perdono, la comunità e la missione.

Vediamo la prima sorgente:  il perdono. Gesù dice ai suoi: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (v. 23). Ma prima di dare agli apostoli il potere di perdonare, li perdona; non a parole, ma con un gesto, il primo che il Risorto compie davanti a loro. Egli, dice il Vangelo, «mostrò loro le mani e il fianco» (v. 20). Mostra cioè le piaghe, le offre loro, perché il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d'odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace. Non si tratta di lasciarsi tutto alle spalle come se niente fosse, ma di aprire agli altri il proprio cuore con amore. Così fa Gesù: davanti alla miseria di chi lo ha rinnegato e abbandonato, mostra le ferite e apre la fonte della misericordia. Non usa tante parole, ma spalanca il suo cuore ferito, per dirci che Lui è sempre ferito d'amore per noi.

Fratelli, sorelle, quando la colpa e la tristezza ci opprimono, quando le cose non vanno, sappiamo dove guardare: alle piaghe di Gesù, pronto a perdonarci con il suo amore ferito e infinito. Lui conosce le tue ferite, conosce le ferite del tuo Paese, del tuo popolo, della tua terra! Sono ferite che bruciano, continuamente infettate dall'odio e dalla violenza, mentre la medicina della giustizia e il balsamo della speranza sembrano non arrivare mai. Fratello, sorella, Gesù soffre con te, vede le ferite che porti dentro e desidera consolarti e guarirti, porgendoti il suo Cuore ferito. Al tuo cuore Dio ripete le parole che ha detto oggi per mezzo del profeta Isaia: «Voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni» ( Is 57,18).

Insieme oggi crediamo che con Gesù c'è sempre la possibilità di essere perdonati e ricominciare, e pure la forza di perdonare sé stessi, gli altri e la storia! Cristo questo desidera: ungerci con il suo perdono per darci la pace e il coraggio di perdonare a nostra volta, il coraggio di compiere una grande  amnistia del cuore. Quanto bene ci fa ripulire il cuore dalla rabbia, dai rimorsi, da ogni rancore e livore! Carissimi, sia oggi il momento di grazia per accogliere e vivere il perdono di Gesù! Sia il momento giusto per te, che porti un fardello pesante sul cuore e hai bisogno che sia tolto per tornare a respirare. E sia il momento propizio per te, che in questo Paese ti dici cristiano ma commetti violenze; a te il Signore dice: "Deponi le armi, abbraccia la misericordia". E a tutti i feriti e gli oppressi di questo popolo dice: "Non temete di mettere le vostre ferite nelle mie, le vostre piaghe nelle mie piaghe". Facciamolo, fratelli e sorelle; non abbiate paura di togliere il Crocifisso dal collo e dalle tasche, di prenderlo tra le mani e di portarlo vicino al cuore per condividere le vostre ferite con quelle di Gesù. Tornati a casa, prendete pure il Crocifisso che avete e abbracciatelo. Diamo a Cristo la possibilità di risanarci il cuore, gettiamo in Lui il passato, ogni paura e affanno. Che bello aprire le porte del cuore e quelle di casa alla sua pace! E perché non scrivere nelle vostre stanze, sui vostri abiti, fuori dalle vostre case, le sue parole: Pace a voi? Mostratele, saranno una profezia per il Paese, la benedizione del Signore su chi incontrate. Pace a voi: lasciamoci perdonare da Dio e perdoniamoci tra di noi!

Guardiamo ora alla seconda sorgente della pace:  la comunità. Gesù risorto non si rivolge ai singoli discepoli, ma li incontra insieme: parla loro al plurale e alla prima comunità consegna la sua pace. Non c'è cristianesimo senza comunità, come non c'è pace senza fraternità. Ma come comunità, verso dove camminare, dove andare per trovare la pace? Guardiamo ancora ai discepoli. Prima di Pasqua andavano dietro a Gesù, ma ragionavano ancora in modo troppo umano: speravano in un Messia conquistatore che avrebbe cacciato i nemici, compiuto prodigi e miracoli, aumentato il loro prestigio e il loro successo. Ma questi desideri mondani li hanno lasciati a mani vuote, anzi hanno tolto pace alla comunità, generando discussioni e opposizioni (cfr Lc 9,46; 22,24). Anche per noi c'è questo rischio: stare insieme ma andare avanti da soli, ricercando nella società, ma anche nella Chiesa, il potere, la carriera, le ambizioni... Così, però, si segue il proprio io anziché il vero Dio e si finisce come quei discepoli: chiusi in casa, vuoti di speranza e pieni di paura e delusione. Ma ecco che a Pasqua ritrovano la via della pace grazie a Gesù, che soffia su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Grazie allo Spirito Santo non guarderanno più a ciò che li divide, ma a ciò che li unisce; andranno nel mondo non più per sé stessi, ma per gli altri; non per avere visibilità, ma per dare speranza; non a guadagnare consensi, ma a spendere la vita con gioia per il Signore e per gli altri.

Fratelli, sorelle, il nostro pericolo è seguire lo spirito del mondo anziché quello di Cristo. E qual è la via per non cadere nei trabocchetti del potere e del denaro, per non cedere alle divisioni, alle lusinghe del carrierismo che corrodono la comunità, alle false illusioni del piacere e della stregoneria che rinchiudono in sé stessi? Ce lo suggerisce il Signore ancora attraverso il profeta Isaia, dicendo: «Sono con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi» ( Is 57,15). La via è condividere con i poveri: ecco l'antidoto migliore contro la tentazione di dividerci e mondanizzarci. Avere il coraggio di guardare i poveri e ascoltarli, perché sono membri della nostra comunità e non estranei da cancellare dalla vista e dalla coscienza. Aprire il cuore agli altri, invece di chiuderlo sui propri problemi o sulle proprie vanità. Ripartiamo dai poveri e scopriremo che tutti condividiamo la povertà interiore; che tutti abbiamo bisogno dello Spirito di Dio per liberarci dallo spirito del mondo; che l'umiltà è la grandezza del cristiano e la fraternità la sua vera ricchezza. Crediamo nella comunità e, con l'aiuto di Dio, edifichiamo una Chiesa vuota di spirito mondano e piena di Spirito Santo, libera da ricchezze per sé stessi e colma di amore fraterno!

Arriviamo infine alla terza sorgente della pace:  la missione. Gesù dice ai discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Ci manda come il Padre ha mandato Lui. E come il Padre lo ha mandato nel mondo? Lo ha inviato a servire e a dare la vita per l'umanità (cfr Mc 10,45), a manifestare la sua misericordia per ciascuno (cfr Lc 15), a cercare i lontani (cfr Mt 9,13). In una parola, lo ha inviato per tutti: non solo per i giusti, ma per tutti. Risuonano ancora, in questo senso, le parole di Isaia: «Pace, pace ai lontani e ai vicini – dice il Signore» (Is 57,19). Ai lontani, anzitutto, e ai vicini: non solo ai "nostri", ma a tutti.

Fratelli, sorelle, siamo chiamati a essere missionari di pace, e questo ci darà pace. È una scelta: è fare posto a tutti nel cuore, è credere che le differenze etniche, regionali, sociali, religiose e culturali vengono dopo e non sono ostacoli; che gli altri sono fratelli e sorelle, membri della stessa comunità umana; che ognuno è destinatario della pace portata nel mondo da Gesù. È credere che noi cristiani siamo chiamati a collaborare con tutti, a spezzare il circolo della violenza, a smontare le trame dell'odio. Sì, i cristiani, mandati da Cristo, sono chiamati per definizione a essere  coscienza di pace del mondo: non solo coscienze critiche, ma soprattutto testimoni di amore; non pretendenti dei propri diritti, ma di quelli del Vangelo, che sono la fraternità, l'amore e il perdono; non ricercatori dei propri interessi, ma missionari del folle amore che Dio ha per ciascun essere umano.

Pace a voi, dice Gesù oggi a ogni famiglia, comunità, etnia, quartiere e città di questo grande Paese. Pace a voi: lasciamo che risuonino nel cuore, in silenzio, queste parole del nostro Signore. Sentiamole rivolte a noi e scegliamo di essere testimoni di perdono, protagonisti nella comunità, gente in missione di pace nel mondo.

Moto azalí na matoi ma koyoka [Chi ha orecchi per intendere] R/Ayoka  [Intenda]

Moto azalí na motema mwa kondima[Chi ha cuore per acconsentire]

R/Andima [Acconsenta]

Incontro con le vittime della violenza nell'Est del Paese presso la Nunziatura Apostolica di Kinshasa

Cari fratelli e sorelle!
Grazie. Grazie per queste testimonianze. Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati. E non ci sono parole; c’è solo da piangere, rimanendo in silenzio. Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Bukavu, Uvira, luoghi che i media internazionali non menzionano quasi mai: qui e altrove tanti fratelli e sorelle nostri, figli della stessa umanità, vengono presi in ostaggio dall’arbitrarietà del più forte, da chi tiene in mano le armi più potenti, armi che continuano a circolare. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese, che non avrà pace finché essa non sarà raggiunta lì, nella sua parte orientale.
A voi, cari abitanti dell’Est, voglio dire: vi sono vicino. Le vostre lacrime sono le mie lacrime, il vostro dolore è il mio dolore. A ogni famiglia in lutto o sfollata a causa di villaggi bruciati e altri crimini di guerra, ai sopravvissuti alle violenze sessuali, a ogni bambino e adulto ferito, dico: sono con voi, vorrei portarvi la carezza di Dio. Il suo sguardo tenero e compassionevole si posa su di voi.
Mentre i violenti vi trattano come oggetti, il Padre che è nei cieli vede la vostra dignità e dice a ciascuno di voi: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti amo» (Is 43,4).
Fratelli e sorelle, la Chiesa è e sarà sempre dalla vostra parte. Dio vi ama e non si è scordato di voi, ma pure gli uomini si ricordino di voi!
È in nome suo che, insieme alle vittime e a chi s’impegna per la pace, la giustizia e la fraternità, condanno le violenze armate, i massacri, gli stupri, la distruzione e l’occupazione di villaggi, il saccheggio di campi e di bestiame che continuano a essere perpetrati nella Repubblica Democratica del Congo. E pure il sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese, così come i tentativi di frammentarlo per poterlo gestire. Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi. Mi rivolgo al Padre che è nei cieli, il quale ci vuole tutti fratelli e sorelle in terra: umilmente abbasso il capo e, con il dolore nel cuore, gli chiedo perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo. Padre, abbi pietà di noi. Consola le vittime e coloro che soffrono. Converti i cuori di chi compie crudeli atrocità, che gettano infamia sull’umanità intera! E apri gli occhi a coloro che li chiudono o si girano dall’altra parte davanti a questi abomini.
Si tratta di conflitti che costringono milioni di persone a lasciare le proprie case, provocano gravissime violazioni dei diritti umani, disintegrano il tessuto socio-economico, causano ferite difficili da rimarginare. Sono lotte di parte in cui si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!
Rivolgo un vibrante appello a tutte le persone, a tutte le entità, interne ed esterne, che tirano i fili della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, depredandola, flagellandola e destabilizzandola. Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti. Ascoltate il grido del loro sangue (cfr Gen 4,10), prestate orecchio alla voce di Dio, che vi chiama alla conversione, e a quella della vostra coscienza: fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!
Cari fratelli e sorelle, e noi che cosa possiamo fare? Da dove cominciare? Come agire per promuovere la pace? Oggi vorrei proporvi di ripartire da due “no” e da due “sì”.
Anzitutto no alla violenza, sempre e comunque, senza “se” e senza “ma”. Amare la propria gente non significa nutrire odio nei riguardi degli altri. Anzi, voler bene al proprio Paese significa rifiutare di lasciarsi coinvolgere da quanti incitano a ricorrere alla forza. È un tragico inganno: l’odio e la violenza non sono mai accettabili, mai giustificabili, mai tollerabili, a maggior ragione per chi è cristiano. L’odio genera solo altro odio e la violenza altra violenza. Un “no” chiaro e forte va poi detto a chi li propaga in nome di Dio. Cari Congolesi, non lasciatevi sedurre da persone o gruppi che incitano alla violenza in suo nome. Dio è Dio della pace e non della guerra. Predicare l’odio è una bestemmia, e l’odio sempre corrode il cuore dell’uomo. Infatti, chi vive di violenza non vive mai bene: pensa di salvarsi la vita e invece viene inghiottito in un gorgo di male che, portandolo a combattere i fratelli e le sorelle con cui è cresciuto e ha vissuto per anni, lo uccide dentro.
Ma per dire davvero “no” alla violenza non basta evitare atti violenti; occorre estirpare le radici della violenza: penso all’avidità, all’invidia e, soprattutto, al rancore. Mentre mi inchino con rispetto davanti alla sofferenza patita da tanti, vorrei chiedere a tutti di comportarsi come ci avete suggerito voi, testimoni coraggiosi, che avete il coraggio di disarmare il cuore. Lo chiedo a tutti in nome di Gesù, che ha perdonato chi gli ha trafitto i polsi e i piedi con i chiodi, attaccandolo a una croce: vi prego di disarmare il cuore. Ciò non vuol dire smettere di indignarsi di fronte al male e non denunciarlo, questo è doveroso! Nemmeno significa impunità e condono delle atrocità, andando avanti come se nulla fosse. Quello che ci è chiesto, in nome della pace, in nome del Dio della pace, è smilitarizzare il cuore: togliere il veleno, rigettare l’astio, disinnescare l’avidità, cancellare il risentimento; dire “no” a tutto ciò sembra rendere deboli, ma in realtà rende liberi, perché dà pace.
Sì, la pace nasce dai cuori, da cuori liberi dal rancore.
C’è poi un secondo “no” da dire: no alla rassegnazione. La pace chiede di combattere lo scoraggiamento, lo sconforto e la sfiducia che portano a credere che sia meglio diffidare di tutti, vivere separati e distanti piuttosto che tendersi la mano e camminare insieme. Ancora, in nome di Dio, rinnovo l’invito perché quanti vivono nella Repubblica Democratica del Congo non si lascino cadere le braccia, ma si impegnino per costruire un futuro migliore. Un avvenire di pace non pioverà dal cielo, ma potrà arrivare se si sgombreranno dai cuori il fatalismo rassegnato e la paura di mettersi in gioco con gli altri. Un futuro diverso verrà se sarà di tutti e non di qualcuno, se sarà per tutti e non contro qualcuno. Un avvenire nuovo verrà se l’altro, tutsi o hutu che sia, non sarà più un avversario o un nemico, ma un fratello e una sorella nel cui cuore bisogna credere che c’è, pur nascosto, lo stesso desiderio di pace. Anche nell’Est la pace è possibile! Crediamoci! E lavoriamoci, senza delegare il cambiamento!
Non si può costruire l’avvenire restando chiusi nei propri interessi particolari, ripiegati nei propri gruppi, nelle proprie etnie e nei propri clan. Un adagio swahili insegna: «jirani ni ndugu» [ilvicino è un fratello]; quindi, fratello, sorella, tutti i tuoi vicini sono tuoi fratelli, siano essi burundesi, ugandesi o ruandesi. Siamo tutti fratelli, perché figli dello stesso Padre: così ci insegna la fede cristiana, professata da gran parte della popolazione. Allora, si alzi lo sguardo al Cielo e non si rimanga prigionieri del timore: il male che ciascuno ha sofferto ha bisogno di essere convertito in bene per tutti; lo sconforto che paralizza ceda il passo a un rinnovato ardore, a una lotta indomita per la pace, a coraggiosi propositi di fraternità, alla bellezza di gridare insieme mai più: mai più violenza, mai più rancore, mai più rassegnazione!
Ed eccoci finalmente ai due “sì” per la pace. Anzitutto, sì alla riconciliazione. Amici, è meraviglioso quanto state per fare. Volete impegnarvi a perdonarvi a vicenda e a ripudiare le guerre e i conflitti per risolvere le distanze e le differenze. E volete farlo pregando insieme, tra poco, stretti attorno all’albero della Croce, sotto il quale, con grande coraggio, desiderate deporre i segni delle violenze che avete visto e subito: uniformi, machete, martelli, asce, coltelli… Anche la croce era uno strumento di dolore e di morte, il più terribile ai tempi di Gesù, ma, attraversato dal suo amore, è divenuto strumento universale di riconciliazione, albero di vita.
Vorrei dirvi: siate anche voi alberi di vita. Fate come gli alberi, che assorbono inquinamento e restituiscono ossigeno. O, come dice un proverbio: “Nella vita fai come la palma: riceve sassi, restituisce datteri”. Questa è profezia cristiana: rispondere al male con il bene, all’odio con l’amore, alla divisione con la riconciliazione. La fede porta con sé una nuova idea di giustizia, che non si accontenta di punire e rinuncia a vendicare, ma vuole riconciliare, disinnescare nuovi conflitti, estinguere l’astio, perdonare. E tutto questo è più potente del male. Sapete perché? Perché trasforma la realtà da dentro invece che distruggerla da fuori. Solo così si sconfigge il male, proprio come ha fatto Gesù sull’albero della croce, facendosene carico e trasformandolo con il suo amore. Così il dolore si è tramutato in speranza. Amici, solo il perdono apre le porte al domani, perché apre le porte a una giustizia nuova che, senza dimenticare, scardina il circolo vizioso della vendetta.
Riconciliarsi è generare il domani: è credere nel futuro anziché restare ancorati al passato; è scommettere sulla pace anziché rassegnarsi alla guerra; è evadere dalla prigione delle proprie ragioni per aprirsi agli altri e assaporare insieme la libertà.
L’ultimo “sì”, decisivo: sì alla speranza. Se si può rappresentare la riconciliazione come un albero, come una palma che dà frutto, la speranza è l’acqua che la rende florida. Questa speranza ha una sorgente e questa sorgente ha un nome, che voglio proclamare qui insieme a voi: Gesù! Gesù: con Lui il male non ha più l’ultima parola sulla vita; con Lui, che ha fatto di un sepolcro, capolinea del tragitto umano, l’inizio di una storia nuova, si aprono sempre nuove possibilità. Con Lui ogni tomba può trasformarsi in una culla, ogni calvario in un giardino pasquale. Con Gesù nasce e rinasce la speranza: per chi ha subito il male e persino per chi lo ha commesso. Fratelli, sorelle dell’Est del Paese, questa speranza è per voi, ne avete diritto. Ma è anche un diritto da conquistare.
Come? Seminandola ogni giorno, con pazienza. Torno all’immagine della palma. Un proverbio
dice: «Quando mangi la noce, vedi la palma, ma chi l’ha piantata è tornato alla terra molto tempo fa». In altre parole, per conquistare i frutti sperati, bisogna lavorare con lo stesso spirito dei piantatori di palme, pensando alle generazioni future e non ai risultati immediati. Seminare il bene fa bene: libera dalla logica angusta del guadagno personale e regala a ogni giorno il suo perché: porta nella vita il respiro della gratuità e ci rende più simili a Dio, seminatore paziente che sparge speranza senza stancarsi mai.
Oggi ringrazio e benedico tutti i seminatori di pace che operano nel Paese: le persone e le istituzioni che si prodigano nell’aiuto e nella lotta per le vittime della violenza, dello sfruttamento e dei disastri naturali, le donne e gli uomini che vengono qui animati dal desiderio di promuovere la dignità della gente. Alcuni hanno perso la vita mentre servivano la pace, come l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, assassinati due anni fa nell’Est del Paese. Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto.
Fratelli, sorelle, figli e figlie dell’Ituri, del Nord e del Sud Kivu, vi sono vicino, vi abbraccio e benedico tutti voi. Benedico ogni bambino, adulto, anziano, ogni persona ferita dalla violenza nella Repubblica Democratica del Congo, in particolare ogni donna e ogni madre. E prego perché la donna, ogni donna, sia rispettata, protetta e valorizzata: commettere violenza nei confronti di una donna e di una madre è farla a Dio stesso, che da una donna, da una madre, ha preso la condizione umana. Gesù, nostro fratello, Dio della riconciliazione che ha piantato l’albero di vita della croce nel cuore delle tenebre del peccato e della sofferenza, Dio della speranza che crede in voi, nel vostro Paese e nel vostro futuro, vi benedica e vi consoli; riversi la sua pace nei vostri cuori, nelle vostre famiglie e sull’intera Repubblica Democratica del Congo.

Incontro con i Rappresentanti di alcune Opere Caritative

Cari fratelli e sorelle,
vi saluto con affetto e vi ringrazio per i canti, le testimonianze e quanto mi avete raccontato, ma soprattutto per tutto quello che fate! In questo Paese, dove c’è tanta violenza, che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile. Certo, fa più rumore l’albero che cade, ma Dio ama e coltiva la generosità che silenziosamente germoglia e porta frutto, e posa lo sguardo con gioia su chi serve i bisognosi. Così cresce il bene, nella semplicità di mani e cuori protesi verso gli altri, nel coraggio dei piccoli passi per avvicinarsi ai più deboli nel nome di Gesù. È proprio vero quel proverbio che ha citato Cecilia: «Mille passi cominciano sempre da uno»!
Mi ha colpito una cosa: non mi avete semplicemente elencato i problemi sociali e non avete enumerato tanti dati sulla povertà, ma avete soprattutto parlato con affetto dei poveri. Avete raccontato di voi e di persone che prima non conoscevate e che ora vi sono diventate familiari: nomi e volti. Grazie per questo sguardo che sa riconoscere Gesù nei suoi fratelli più piccoli. Il Signore va cercato e amato nei poveri e, come cristiani, dobbiamo fare attenzione se ci allontaniamo da loro, perché c’è qualcosa che non va quando un credente tiene a distanza i prediletti di Cristo. Mentre tanti oggi li scartano, voi li abbracciate; mentre il mondo li sfrutta, voi li promuovete. La promozione contro lo sfruttamento: ecco la foresta che cresce mentre imperversa violento il disboscamento dello scarto! Io vorrei dare voce a quello che fate, favorire la crescita e la speranza nella Repubblica Democratica del Congo e in questo Continente. Sono venuto qui animato dal desiderio di dare voce a chi non ha voce. Quanto vorrei che i media dessero più spazio a questo  Paese e all’Africa intera! Che si conoscano i popoli, le culture, le sofferenze e le speranze di questo  giovane Continente del futuro! Si scopriranno talenti immensi e storie di vera grandezza umana e cristiana, storie nate in un clima genuino, che ben conosce il rispetto per i più piccoli, per gli anziani e per il creato.
È bello darvi voce qui in Nunziatura, perché le Rappresentanze Pontificie, le “case del Papa” sparse nel mondo, sono e devono essere amplificatori di promozione umana, snodi di carità, in prima linea nella diplomazia della misericordia, nel favorire aiuti concreti e nel promuovere reti di cooperazione. Ciò già avviene, senza clamore, in tante parti del mondo e qui da molto tempo; questa casa è da decenni una presenza vicina: inaugurata novant’anni fa come Delegazione apostolica, celebrerà tra pochi giorni il sessantesimo anniversario dell’elevazione a Nunziatura.

Fratelli e sorelle che amate questo Paese e vi dedicate alla sua gente, quanto fate è meraviglioso, ma non è per nulla facile. Viene da piangere nel sentire storie come quelle che mi avete raccontato, di persone sofferenti consegnate dall’indifferenza generale a una vita randagia, che le porta a vivere per strada, esponendole al rischio di violenze fisiche e di abusi sessuali, e pure all’accusa di stregoneria, mentre sono solo bisognose di amore e di cure. Mi ha colpito quanto ci hai detto tu, Tekadio, che a motivo della lebbra ti senti ancora oggi, nel 2023, «discriminato, guardato con disprezzo ed umiliato», mentre la gente, con un misto di vergogna, d’incomprensione e di paura, si affretta a pulire là dove è passata anche solo la tua ombra. La povertà e il rifiuto offendono l’uomo, ne sfigurano la dignità: sono come cenere che spegne il fuoco che porta dentro. Sì, ogni persona, in quanto creata a immagine di Dio, risplende di un fuoco luminoso, ma solo l’amore toglie la cenere che lo ricopre: solo ridando dignità si restituisce umanità! Mi ha rattristato sentire che anche qui, come in molte parti del mondo, bambini e anziani vengono scartati. Oltre che scandaloso, questo è nocivo per l’intera società, che si costruisce proprio a partire dalla cura per gli anziani e per i bambini, per le radici e per l’avvenire. Ricordiamoci: uno sviluppo veramente umano non può essere privo di memoria e di futuro. Fratelli, sorelle, oggi vorrei condividere con voi e, attraverso di voi, con i tanti operatori di bene in questo grande Paese, due interrogativi. Anzitutto: ne vale la pena? Vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante? Ci aiuta quello che ha detto suor Maria Celeste: «Nonostante la nostra piccolezza, il Signore crocifisso desidera averci al suo fianco per sostenere il dramma del mondo». È vero, la carità sintonizza con Dio ed Egli ci sorprende con prodigi insperati che avvengono per mezzo di chi ama. Le vostre storie sono ricche di eventi stupendi, noti al cuore di Dio e impossibili alle sole forze umane. Penso a quanto ci hai raccontato tu, Pierre, dicendo che nel deserto dell’impotenza e dell’indifferenza, nel mare del dolore, insieme ai tuoi amici hai scoperto che Dio non vi aveva dimenticato, perché vi ha inviato persone che non si sono voltate dall’altra parte attraversando la strada dove eravate. Così, nel loro volto avete riscoperto quello di Gesù e adesso volete fare lo stesso per gli altri. Il bene è così, è diffusivo, non si lascia paralizzare dalla rassegnazione e dalle statistiche, ma invita a donare agli altri quanto si è ricevuto gratuitamente. C’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo: volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità, alla dignità di figlia e figlio di Dio.

Ne vale la pena, dunque, ed è un bel segno che le Autorità, attraverso i recenti accordi con la Conferenza Episcopale, abbiano riconosciuto e valorizzato l’opera di quanti si impegnano in campo sociale e caritativo. Ciò certamente non significa che si possa delegare sistematicamente al volontariato la cura dei più fragili, così come l’impegno nella sanità e nell’istruzione. Sono compiti prioritari di chi governa, con l’attenzione di assicurare i servizi fondamentali anche alla popolazione che vive lontana dai grandi centri urbani. Al tempo stesso, i credenti in Cristo non devono mai infangare la testimonianza della carità, che è testimonianza di Dio, con la ricerca di privilegi, prestigio, visibilità e potere. No, i mezzi, le risorse e i buoni risultati sono per i poveri, e chi si occupa di loro è sempre chiamato a ricordarsi che il potere è servizio e che la carità non porta a stare sugli allori, ma domanda urgenza e concretezza. In questo senso, tra le molte cose da fare vorrei sottolineare una sfida che riguarda tutti e non poco questo Paese. A causare la povertà non è tanto l’assenza di beni e di opportunità, ma la loro iniqua distribuzione. Chi è benestante, in particolare se cristiano, è interpellato a condividere quanto possiede con chi è privo del necessario, tanto più se appartiene allo stesso popolo. Non è questione di bontà, ma di giustizia. Non è filantropia, è fede; perché, come dice la Scrittura, «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26).

Ecco allora un secondo interrogativo proprio sul dovere e sull’urgenza del bene: come farlo? Come fare la carità, quali criteri seguire? A questo proposito vorrei offrirvi tre semplici punti. Sono aspetti che le istituzioni caritative operanti qui già conoscono, ma che fa bene ricordare, perché servire Gesù nei poveri sia una testimonianza sempre più feconda.
Anzitutto la carità chiede esemplarità: infatti non è solo qualcosa che si fa, ma è espressione di ciò che si è. È uno stile di vita, è vivere il Vangelo. Occorrono perciò credibilità e trasparenza: penso alla gestione finanziaria e amministrativa dei progetti, ma anche all’impegno a offrire servizi adeguati e qualificati. È proprio questo lo spirito che caratterizza tante opere ecclesiali di cui beneficia questo Paese e che ne hanno segnato la storia. Ci sia sempre esemplarità!
Secondo punto: la lungimiranza, cioè il saper guardare avanti. È fondamentale che le iniziative e le opere di bene, oltre a rispondere alle esigenze immediate, siano sostenibili e durature. Non semplicemente assistenzialiste, ma realizzate sulla base di quanto realmente si può fare e con una prospettiva di lungo termine, perché perdurino nel tempo e non finiscano con chi le ha avviate.
In questo Paese, ad esempio, c’è un suolo incredibilmente fecondo, una terra estremamente fertile;la generosità di chi aiuta non può non sposare questa caratteristica, favorendo lo sviluppo interno di quanti popolano questa terra, insegnando loro a coltivarla, dando vita a progetti di sviluppo che mettano il futuro nelle loro mani. Piuttosto che distribuire beni di cui ci sarà sempre bisogno, è meglio trasmettere conoscenze e strumenti che rendano lo sviluppo autonomo e sostenibile. In
proposito, penso anche al grande contributo offerto dalla sanità cattolica, che in questo Paese, come in molti altri nel mondo, dà sollievo e speranza alla popolazione, venendo incontro a chi soffre con gratuità e con serietà, cercando sempre, proprio come dev’essere, di soccorrere attraverso strumenti moderni e adeguati.
Esemplarità, lungimiranza e infine – terzo elemento – connessione: bisogna fare rete, non solo virtualmente ma concretamente, come avviene in questo Paese nella sinfonia di vita della grande foresta e della sua variegata vegetazione. Fare rete: lavorare sempre più insieme, essere in costante sinergia fra di voi, in comunione con le Chiese locali e con il territorio. Lavorare in rete: ciascuno con il proprio carisma ma insieme, collegati, condividendo le urgenze, le priorità, le necessità, senza chiusure e autoreferenzialità, pronti ad affiancarsi ad altre comunità cristiane e di altre religioni, e ai molti organismi umanitari presenti. Tutto per il bene dei poveri.
Cari fratelli e sorelle, vi lascio questi spunti e vi ringrazio per quanto avete lasciato oggi nel mio cuore. Siete preziosi.

Vi benedico e vi chiedo, per favore, di continuare a pregare per me