Second sermon of Lent 2023. Cardinal Cantalamessa invites us to return to the person of Jesus Christ to proclaim the Gospel.

Alle ore 9 di venerdì 10 marzo 2023, nell’Aula Paolo VI, il Predicatore della Casa Pontificia, ha tenuto la seconda Predica di Quaresima alla Curia Romana. Alla meditazione ha partecipato anche il Sommo Pontefice.

Il cardinale Cantalamessa ha richiamato gli Eminentissimi Signori Cardinali a tornare alla figura di Cristo per annunciare il Vangelo. Ha detto: “Gesú non deve stare sullo sfondo, ma al cuore di ogni annuncio”. 

Come fare perché scocchi in tanti quella scintilla nei confronti della persona di Gesù? si è chiesto il Predicatore della Casa Pontificia. “Essa – ha detto – non si accenderà in chi ascolta il messaggio del Vangelo, se non si è accesa prima – almeno come desiderio, come ricerca e come proposito – in chi lo proclama”. 

Al termine del suo sermone, Cantalamessa continua la sua attività “politica”. In queste meditazioni, il cappuccino ha scelto di battersi per la “causa dei laici”. Si tratta del prezzo da pagare al Rinnovamento nello Spirito, dopo tanti anni. Cantalamessa dice: “Qui si vede la necessità di fare sempre più assegnamento sui laici, uomini e donne, per l’evangelizzazione. Essi sono più inseriti nelle maglie della vita in cui si realizzano di solito quelle circostanze. Anche per la scarsità del numero, a noi del clero riesce più facile essere pastori che pescatori di anime: più facile pascere con la parola e i sacramenti quelli che vengono in Chiesa, che andare in alto mare a pescare i lontani. I laici possono supplirci nel compito di pescatori. Molti di essi hanno scoperto cosa significa conoscere un Gesú vivo e sono ansiosi a condividere con altri la loro scoperta” 

Sostanzialmente, visto che i preti sono pochi, dice il cappuccino, bisogna mandare i laici avanti. Non pregare per le vocazioni, no. Mandare i laici. Invitiamo il cappuccino a proseguire le sue meditazioni facendoci riflettere sulle questioni essenziali dell’Annuncio e di evitare queste azioni politiche. Peraltro, citando anche Benedetto XVI, il quale aveva ben chiaro quale fosse il ruolo dei laici.

Le successive prediche di Quaresima avranno luogo venerdì 17, 24 e 31 marzo.

L.M.

Silere non possum

II MEDITAZIONE DI QUARESIMA

Dall’Evangelii Nuntiandi di san Paolo VI all’Evangelii gaudium dell’attuale Sommo Pontefice, il tema dell’evangelizzazione è stato al centro dell’attenzione del Magistero papale. Ad esso hanno contribuito le grandi encicliche di san Giovanni Paolo II, come pure l’istituzione del Pontificio consiglio per l’evangelizzazione, promosso da Benedetto XVI. La stessa preoccupazione si nota nel titolo dato alla costituzione per la riforma della Curia Praedicate Evangelium e nella denominazione “Dicastero per l’Evangelizzazione”, data all’antica Congregazione di Propaganda Fide. La stessa finalità è assegnata ora principalmente al Sinodo della Chiesa. E’ ad essa, cioè all’evangelizzazione, che vorrei dedicare la presente meditazione.
La definizione più breve e più pregnante dell’evangelizzazione è quella che si legge nella Prima Lettera di Pietro. In essa, gli apostoli sono definiti: “coloro che vi hanno annunciato il Vangelo nello Spirito Santo” (1 Pt 1, 12). Vi è espresso l’essenziale sull’evangelizzazione, e cioè il suo contenuto – il Vangelo – e il suo metodo – nello Spirito Santo.
Per sapere cosa si intende con la parola “Vangelo”, la via più sicura è chiederlo a colui che per primo ha usato questa parola greca e l’ha resa canonica nel linguaggio cristiano, l’apostolo Paolo. Abbiamo la fortuna di possedere un esposto di suo pugno che spiega cosa egli intende per “Vangelo”, ed è la Lettera ai Romani. Il tema di essa viene annunciato con le parole: “Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1,16).
Per la riuscita di ogni nuovo sforzo di evangelizzazione è vitale avere chiaro il nucleo essenziale dell’annuncio cristiano, e questo nessuno lo ha messo in luce meglio dell’apostolo nei primi tre capitoli della Lettera ai Romani. Dal capire e applicare alla situazione attuale il suo messaggio dipende, sono convinto, se dai nostri sforzi nasceranno figli di Dio, o se si dovrà ripetere amaramente con Isaia: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire:era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo” (Is 26,18).
Il messaggio dell’Apostolo in quei primi tre capitoli della sua Lettera si può riassumere in due punti: primo, qual è la situazione dell’umanità dinanzi a Dio in seguito al peccatosecondo, come si esce da essa, cioè come si è salvati per la fede e fatti nuova creatura. Seguiamo l’Apostolo nel suo serrato ragionamento. Meglio, seguiamo lo Spirito che parla per mezzo di lui. Chi ha fatto dei viaggi in aereo, avrà ascoltato qualche volta l’annuncio: “Allacciate le cinture di sicurezza perché stiamo per entrare in una zona di turbolenza”. Bisognerebbe far risuonare lo stesso avvertimento a chi si accinge a leggere le parole che seguono di Paolo.
L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli; di quadrupedi e di rettili (Rm 1, 18-23).

Il peccato fondamentale, l’oggetto primario dell’ira divina, è individuato, come si vede, nell’asebeia, cioè nell’empietà. In che consiste, esattamente, tale empietà, l’Apostolo lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. Strano! Questo fatto di non glorificare e ringraziare abbastanza Dio, a noi sembra, sì, un peccato, ma non così terribile e mortale. Bisogna capire cosa si nasconde dietro di esso: il rifiuto di riconoscere Dio come Dio, il non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.

Nell’Antico Testamento sentiamo Mosè che grida al popolo: “Riconoscete che Dio è Dio!” (cf Dt 7, 9) e un salmista riprende tale grido, dicendo: “Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi!” (Sal 100, 3). Ridotto al suo nucleo germinativo, il peccato è negare questo “riconoscimento”; è il tentativo, da parte della creatura, di cancellare, di propria iniziativa, quasi di prepotenza, la differenza infinita che c’è tra essa e Dio. Il peccato attacca, in tal modo, la radice stessa delle cose; è un “soffocare la verità nell’ingiustizia”. È qualcosa di molto più fosco e terribile di quanto l’uomo possa immaginare o dire. Se gli uomini conoscessero da vivi, come lo conosceranno al momento della morte, cosa significa il rifiuto di Dio, morirebbero di spavento.

Tale rifiuto ha preso corpo, abbiamo sentito, nell’idolatria, per la quale si adora la creatura al posto del Creatore. Nell’idolatria l’uomo non “accetta” Dio, ma si fa un dio; è lui a decidere di Dio, non viceversa. I ruoli vengono invertiti: l’uomo diventa il vasaio e Dio il vaso che egli modella a suo piacimento (cf Rm 9, 20 ss). Oggi questo tentativo antico ha preso una veste nuova. Essa non consiste nel mettere qualcosa – neppure se stessi – al posto di Dio, ma nell’abolire, puramente e semplicemente, il ruolo indicato dalla parola “ Dio”. Nichilismo! Il Nulla al posto di Dio. Ma non è il caso di trattenerci su ciò in questo momento; interromperebbe l’ascolto dell’Apostolo che invece continua il suo ragionamento serrato.

Paolo prosegue la sua requisitoria mostrando i frutti che scaturiscono, sul piano morale, dal rifiuto di Dio. Da esso deriva una generale dissoluzione dei costumi, un vero e proprio “torrente di perdizione” che trascina l’umanità in rovina. E qui l’Apostolo traccia un quadro impressionante dei vizi della società pagana. La cosa più importante da ritenere, da questa parte del messaggio paolino, non è, però, questa lista di vizi, presente, tra l’altro, anche presso i moralisti stoici del tempo. La cosa a prima vista sconcertante è che san Paolo fa di tutto questo disordine morale, non la causa, ma l’effetto dell’ira divina. Per ben tre volte ritorna la formula che afferma ciò in modo inequivocabile:

Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità. [...] Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami [...]. Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di un’intelligenza depravata (Rm 1, 24.26.28).

Dio non “vuole” certamente tali cose, ma egli le “permette” per far comprendere all’uomo dove porta il rifiuto di lui.

“Queste azioni – scrive sant’Agostino – sebbene siano castigo, sono esse pure dei peccati, perché la pena dell’iniquità è di essere, essa stessa, iniquità; Dio interviene a punire il male e dalla sua stessa punizione pullulano altri peccati” .

Non ci sono distinzioni davanti a Dio tra giudei e greci, tra credenti e pagani: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rom 3, 23). L’Apostolo ci tiene tanto a mettere in chiaro questo punto che ad esso dedica l’intero capitolo secondo e parte del terzo della sua Lettera. È tutta l’umanità che si trova in questa situazione di perdizione, non questo o quell’ individuo o popolo.

Dove sta, in tutto questo, l’attualità del messaggio dell’Apostolo di cui parlavo? Sta nel rimedio che il Vangelo propone a questa situazione. Esso non consiste nell’impegnarsi in una lotta per la riforma morale della società, per la correzione dei suoi vizi. Sarebbe, per lui, come voler sradicare un albero cominciando a togliergli le foglie o i rami più sporgenti, oppure un preoccuparsi di eliminare la febbre, anziché curare il male che la provoca. Tradotto in linguaggio attuale, questo significa che l’evangelizzazione non comincia con la morale, ma con il kerygma; nel linguaggio del Nuovo Testamento, non con la Legge, ma con il Vangelo. E qual è il contenuto, o il nucleo centrale, di esso? Cosa intende Paolo per “Vangelo” quando dice che esso “è potenza di Dio per chiunque crede”? Credere in che cosa? “Si è manifestata la giustizia di Dio!” (Rm 3, 21): ecco qual è la novità. Non sono gli uomini che, improvvisamente, hanno mutato vita e costumi e si sono messi a fare il bene. Il fatto nuovo è che, nella pienezza dei tempi, Dio ha agito, ha rotto il silenzio, ha teso per primo la sua mano all’uomo peccatore.

Ma ascoltiamo ormai direttamente l’Apostolo che ci spiega in che cosa consiste questo “agire” di Dio. Sono parole che abbiamo letto o ascoltato centinaia di volte, ma le arie di una bella sinfonia si ama riascoltarle sempre di nuovo:

"Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù" (Rm 3, 23-26).

Vorrei subito tranquillizzare tutti: non intendo fare un’ennesima predica sulla giustificazione mediante la fede. C’è un pericolo nell’insistere unicamente su questo tema. Non è una dottrina quella che Paolo ci presenta, ma un evento, anzi una persona. Noi non siamo salvati genericamente “per la grazia”: siamo salvati per la grazia di Cristo Gesù; non siamo giustificati genericamente “mediante la fede”: siamo giustificati mediante la fede in Cristo Gesù. Tutto è cambiato “in virtù della redenzione operata da Cristo Gesú”. Il vero articolo con cui sta o cade la Chiesa (il famoso Articulum stantis et cadentis Ecclesiae) non è una dottrina, ma una persona.

Io rimango senza parole ogni volta che rileggo questa parte della Lettera ai Romani. Dopo aver descritto, con i toni che abbiamo sentito, la situazione disperata dell’umanità, l’Apostolo ha il coraggio di dire che essa è radicalmente cambiata a causa di quello che è avvenuto pochi anni prima, in una oscura parte dell’impero romano, ad opera di un singolo uomo, morto per di più su una croce! Solo un “acuto” dello Spirito Santo, una sua folgorazione, poteva dare a un uomo l’ardire di credere e proclamare questa cosa inaudita. Tanto più che questo stesso uomo un tempo diventava “furibondo” se qualcuno osava proclamare in sua presenza una cosa del genere. Il diacono Stefano ne aveva fatto le spese…

In noi lo shock è attutito da venti secoli di conferme, ma pensiamo a come dovevano suonare le parole dell’Apostolo a delle persone colte del tempo. Se ne rendeva conto lui stesso; per questo ha sentito il bisogno di dire: “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rom 1,16). Ci si poteva infatti vergognare di esso. Io non riesco a capire come degli storici onesti possano credere (come è avvenuto per tanto tempo) che Paolo abbia attinto questa sua certezza dai culti ellenistici, o non so da quale altra fonte. Chi aveva mai immaginato, o poteva umanamente immaginare, una cosa del genere?

Ma torniamo al nostro intento specifico che è l’evangelizzazione. Cosa impariamo dalla parola di Dio appena riascoltata? Ai pagani, Paolo non dice che il rimedio alla loro idolatria sta nel tornare a interrogare l’universo per risalire dalle creature a Dio; ai giudei, non dice che il rimedio sta nel tornare a osservare meglio la Legge di Mosè. Il rimedio non è in alto o indietro; è in avanti, è nell’accogliere “la redenzione operata da Cristo Gesú”.

Paolo, a dire il vero, non dice una cosa del tutto nuova. Se fosse lui l’autore di questo inaudito messaggio, avrebbero ragione quelli che dicono che il vero fondatore del cristianesimo è Saulo di Tarso, non Gesú di Nazareth. Ma si sbagliano! Paolo non fa che riprendere, adattandolo alla situazione del momento, l’annuncio inaugurale della predicazione di Gesú: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Sulla sua bocca “convertitevi” non voleva dire, come nei profeti antichi e in Giovanni Battista: “Tornate indietro, osservate la Legge i comandamenti!”; significa piuttosto: “Fate un balzo in avanti; entrate nel Regno che è venuto gratuitamente tra voi! Credete al Vangelo! Convertirsi è credere. “La prima conversione consiste nel credere”, ha scritto san Tommaso d’Aquino: Prima conversio fit per fidem .

Né il discorso di Gesú né quello di Paolo si fermano, naturalmente, a questo punto. Nella sua predicazione Gesú esporrà cosa comporta accogliere il Regno e Paolo dedicherà tutta la seconda parte della sua Lettera a elencare le opere, o le virtù, che devono caratterizzare chi è diventato creatura nuova. Al kerygma fa seguire la parenesi, all’annuncio l’esortazione. L’importante è l’ordine da seguire nella vita e nell’annuncio, da dove cominciare, giacché, diceva già san Gregorio Magno “non si perviene alla fede partendo dalle virtù, ma alle virtù partendo dalla fede” . Ogni iniziativa di evangelizzazione che volesse cominciare con il riformare i costumi della società, prima di cercare di cambiare il cuore delle persone, è votata a finire nel nulla, o, peggio, in politica.

Ma non è il caso di insistere neppure su ciò, in questo momento. Dobbiamo piuttosto raccogliere l’insegnamento positivo dell’Apostolo. Cosa dice la parola di Dio a una Chiesa che – pur ferita in se stessa e compromessa agli occhi del mondo – ha un sussulto di speranza e vuole riprendere, con nuovo slancio, la sua missione evangelizzatrice? Dice che bisogna ripartire dalla persona di Cristo, parlare di lui “a tempo e fuori tempo”; non dare mai per esaurito, o supposto, il discorso su di lui. Gesú non deve stare sullo sfondo, ma al cuore di ogni annuncio.

Il mondo secolare fa di tutto (e purtroppo ci riesce!) per tenere il nome di Gesú lontano, o taciuto, in ogni discorso sulla Chiesa. Noi dobbiamo fare di tutto per tenerlo sempre presente. Non per ripararci dietro di esso, ma perché è lui la forza e la vita della Chiesa. All’inizio della Evangelii gaudium, leggiamo queste parole: "Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui".

Che io sappia, questa è la prima volta che, in un documento ufficiale del Magistero, compare l’espressione “incontro personale con Cristo”. Nonostante la sua apparente semplicità, questa espressione contiene una novità che dobbiamo cercare di capire.

Nella pastorale e nella spiritualità cattolica, erano familiari, in passato, altri modi di concepire il nostro rapporto con Cristo. Si parlava di un rapporto dottrinale, consistente nel credere in Cristo; di un rapporto sacramentale che si realizza nei sacramenti, di un rapporto ecclesiale, in quanto membra del corpo di Cristo che è la Chiesa; si parlava anche di un rapporto mistico o sponsale riservato ad alcune anime privilegiate. Non si parlava – o almeno non era comune parlare – di un rapporto personale – come tra un io e un tu – aperto a ogni credente.

Durante i cinque secoli che abbiamo alle spalle – che impropriamente vengono detti ”della Controriforma” – la spiritualità e la pastorale cattolica hanno guardato con sospetto a questo modo di concepire la salvezza. Vi si vedeva il pericolo (tutt’altro che remoto e ipotetico del resto) del soggettivismo, cioè di concepire la fede e la salvezza come un fatto individuale, senza un vero rapporto con la Tradizione e con la fede del resto della Chiesa. Il moltiplicarsi delle correnti e delle denominazioni nel mondo Protestante non faceva che rafforzare questa convinzione.

Ora noi siamo entrati, grazie a Dio, in una fase nuova in cui ci sforziamo di vedere le differenze, non necessariamente come incompatibili tra di loro e quindi da combattere, ma, fin dove è possibile, come ricchezze da condividere. In questo nuovo clima, si capisce l’esortazione ad avere un “rapporto personale con Cristo”. Questo modo di concepire la fede ci sembra, anzi, l’unico possibile da quando la fede non è più un fatto scontato che si assorbe da bambini con l’educazione familiare e scolastica, ma è frutto di una decisione personale. Il successo di una missione non si può più misurare dal numero delle confessioni ascoltate e delle comunioni distribuite, ma da quante persone sono passate dall’essere cristiani nominali a cristiani reali, cioè convinti e attivi nella comunità.

Cerchiamo di capire in che cosa consiste, in concreto, questo famoso “incontro personale” con Cristo. Io dico che è come incontrare una persona dal vivo, dopo averlo conosciuto per anni solo in fotografia. Si possono conoscere libri su Gesù, dottrine, eresie su Gesù, concetti su Gesù, ma non conoscere lui vivente e presente. (Insisto soprattutto su questi due aggettivi: un Gesú risorto e vivo e un Gesú presente!). Per tanti, anche battezzati e credenti, Gesú è un personaggio del passato, non una persona viva nel presente.

Aiuta a capire la differenza quello che succede nell’ambito umano, quando si passa dal conoscere una persona all’innamorarsi di essa. Uno può conoscere tutto di una donna o di un uomo: come si chiama, quanti anni ha, che studi ha fatto, a quale famiglia appartiene...Poi un giorno scocca una scintilla e si innamora di quella donna o di quell’uomo. Cambia tutto. Si vuole stare con quella persona, piacerle, averla per sé, paura di dispiacerle e di non essere degni di essa.

Come fare perché scocchi in tanti quella scintilla nei confronti della persona di Gesù? Essa non si accenderà in chi ascolta il messaggio del Vangelo, se non si è accesa prima – almeno come desiderio, come ricerca e come proposito – in chi lo proclama. Vi sono state e vi sono eccezioni; la parola di Dio, ha una forza propria e può agire, a volte, anche se pronunciata da chi non la vive; ma è l’eccezione.

Per la consolazione e l’incoraggiamento di quanti lavorano istituzionalmente nel campo dell’evangelizzazione, vorrei dire loro che non tutto dipende da essi. Da essi dipende creare le condizioni perché si accenda quella scintilla e si diffonda. Ma essa scocca nei modi e nei momenti più impensati. Nella maggioranza dei casi che ho conosciuto nella mia vita, la scoperta di Cristo che ha cambiato la vita era stata occasionata dall’incontro con qualcuno che aveva già sperimentato quella grazia, dalla partecipazione a un raduno, dall’ascolto di una testimonianza, dall’aver sperimentato la presenza di Dio in un momento di grande sofferenza, e – non posso tacerlo, perché è avvenuto così anche per me – dall’aver ricevuto il cosiddetto battesimo dello Spirito.

Qui si vede la necessità di fare sempre più assegnamento sui laici, uomini e donne, per l’evangelizzazione. Essi sono più inseriti nelle maglie della vita in cui si realizzano di solito quelle circostanze. Anche per la scarsità del numero, a noi del clero riesce più facile essere pastori che pescatori di anime: più facile pascere con la parola e i sacramenti quelli che vengono in Chiesa, che andare in alto mare a pescare i lontani. I laici possono supplirci nel compito di pescatori. Molti di essi hanno scoperto cosa significa conoscere un Gesú vivo e sono ansiosi a condividere con altri la loro scoperta.

I movimenti ecclesiali, sorti dopo il Concilio, sono stati per tantissimi il luogo in cui hanno fatto tale scoperta. Nella sua omelia per la Messa crismale del Giovedì Santo 2012, l’ultimo del suo pontificato, Benedetto XVI affermò: “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”. Accanto ai frutti buoni, alcuni di questi movimenti hanno prodotto anche frutti marci. Bisognerebbe ricordarsi del detto: “Non buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca”.

Termino con le parole conclusive dell’Itinerario della mente a Dio di san Bonaventura, perché esse ci suggeriscono da dove cominciare per realizzare, o rinnovare, il nostro “rapporto personale con Cristo” e diventarne coraggiosi annunciatori:

"Questa sapienza mistica segretissima –scrive- nessuno la conosce se non chi la riceve; nessuno la riceve se non chi la desidera; nessuno la desidera se non chi è infiammato nell’intimo dallo Spirito Santo mandato da Cristo sulla terra".

1.Agostino, De natura et gratia, 22,24.

2.Tommaso d’Aquino, S.Th. I-IIae, q.113, a. 4.

3.Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, II,7 (PL 76, 1018),

4.Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, VII, 4.