Nella celebrazione culmine del Giubileo dei Giovani, Papa Leone XIV ha offerto ai giovani presenti una riflessione profonda: ha parlato loro non come si parla a dei discepoli immaturi, ma come ci si rivolge a chi è già stato iniziato alla vita. Ha parlato non per persuadere, non per entusiasmare, ma per far riflettere. Lo ha fatto a partire da un’immagine, quella dell’erba, tratta dal Salmo responsoriale della liturgia odierna.

Ma quell’immagine, nelle sue parole, si è fatta parabola dell’esistenza umana, chiave ermeneutica della giovinezza, della fragilità e del desiderio infinito che abita il cuore di chi ha vent’anni e non si accontenta. “L’erba germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (Sal 89,6).

Il Papa non ha addolcito la forza disarmante di questa immagine. Anzi, ne ha sottolineato la carica “scioccante”, scegliendo però di non rifuggire da essa. La fragilità, ha detto, è parte della meraviglia che siamo. Una frase semplice, eppure radicalmente controcorrente. In un mondo che considera la debolezza una sconfitta da nascondere, e la giovinezza una moneta da spendere in fretta prima che si svaluti, Leone XIV ha proposto una teologia della fragilità, in cui l’effimero non è negazione della vita, ma condizione per il suo rinnovarsi.

Questa visione richiama, per assonanza, certe pagine di Rainer Maria Rilke, soprattutto là dove scrive che “la bellezza non è che l’inizio del terrore che ancora possiamo sopportare” (Elegie duinesi, I). L’erba che si piega e poi risorge, che si consuma ma fa da concime a ciò che viene dopo, dice una circolarità della vita che non è solo biologica, ma profondamente spirituale. E nel campo che “freme sotto terra” anche durante l’inverno, si avverte un’eco del “seme che muore per portare frutto” (Gv 12,24), il paradosso cristiano per eccellenza.

Ma Leone XIV non si è fermato a un’estetica del limite. Il suo discorso ha compiuto un secondo passaggio, ancora più decisivo: quello del desiderio. Ai giovani ha detto che siamo fatti per una vita che “si rigenera costantemente nel dono, nell’amore”. E ha aggiunto parole che meritano di essere riprese integralmente: “Aspiriamo continuamente a un ‘di più’ che nessuna realtà creata ci può dare; sentiamo una sete grande e bruciante a tal punto, che nessuna bevanda di questo mondo la può estinguere”.

Qui affiora la grande intuizione di Blaise Pascal: “Esiste nel cuore dell’uomo un vuoto a forma di Dio”. Ma, più che l’apologeta, è il narratore che sembra farsi spazio. Questo passo del Papa potrebbe stare in un romanzo di Julien Green, o nei monologhi interiori di certi personaggi di Dostoevskij, in cui il cuore si dibatte tra la tentazione dei surrogati e la nostalgia dell’Assoluto. La sete di cui parla Leone XIV non è una condizione da rimuovere, ma da ascoltare. E l’immagine che segue è tra le più tenere mai offerte da un Pontefice alla gioventù: “Facciamone uno sgabello su cui salire per affacciarci, come bambini, in punta di piedi, alla finestra dell’incontro con Dio”. Un’immagine che ricorda Antoine de Saint-Exupéry, e quel suo modo di raccontare il mondo adulto dal punto di vista dell’infanzia perduta. E forse non è un caso che proprio in questo scorcio del suo discorso, il Papa abbia voluto mettere l’accento sull’attesa di Dio: non un Dio che irrompe, ma che “bussa gentilmente al vetro della nostra anima”. La finestra è fragile, il vetro può rompersi. Ma è trasparente, se siamo disposti a guardare. L’“avventura con Dio verso gli spazi eterni dell’infinito”, di cui Leone XIV ha parlato nel finale della sua omelia, non è retorica mistica. È un invito concreto, e profondamente realistico, a riconoscere che nulla, nel tempo, può saziare ciò che è stato fatto per l’eternità. È questo il movente nascosto di ogni inquietudine giovanile. E lo sapeva bene anche Emily Dickinson, che scriveva: “Hope is the thing with feathers / That perches in the soul”.

La speranza — come l’erba, come la sete, come l’incontro — è cosa fragile, ma tenace. E canta “una melodia senza parole”, anche nella tempesta. A Tor Vergata, Leone XIV non ha fornito soluzioni. Ha seminato e invitato a guardare a Gesù. Ha parlato della vita come si parla di un campo: con rispetto, con stupore, con silenzio. È questa la lingua che i giovani capiscono. Perché non hanno bisogno di slogan, ma di senso. E il senso, lo si intuisce, è sempre un cammino, mai una conquista.


s.R.A.
Silere non possum