Sabato 28 marzo 2025 Papa Francesco ha autorizzato il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare diversi Decreti riguardanti miracoli, virtù eroiche e future canonizzazioni. Il Santo Padre ha approvato il riconoscimento dei miracoli attribuiti all’intercessione della Beata Maria del Monte Carmelo al secolo Carmen Elena Rendíles Martínez Fondatrice della Congregazione delle Serve di Gesù nata l’11 agosto 1903 a Caracas in Venezuela e morta il 9 maggio 1977 e del Venerabile Servo di Dio Carmelo De Palma, Sacerdote diocesano nato il 27 gennaio 1876 a Bari in Italia e morto il 24 agosto 1961. Inoltre è stato riconosciuto l’esercizio eroico delle virtù del Servo di Dio José Antônio Maria Ibiapina, Sacerdote diocesano nato il 5 agosto 1806 a Sobral in Brasile e morto il 18 febbraio 1883 a Santa Fé in Brasile. Papa Francesco ha anche approvato i voti favorevoli della Sessione Ordinaria dei Cardinali e Vescovi membri del Dicastero delle Cause dei Santi per la canonizzazione dei Beati Ignazio Choukrallah Maloyan, Arcivescovo armeno cattolico nato il 15 aprile 1869 a Mardin in Turchia e martirizzato l’11 giugno 1915 a Kara-Keupru in Turchia e Pietro To Rot, fedele laico e catechista nato nel 1912 a Rakunai in Papua Nuova Guinea e martirizzato nel luglio 1945. Questi Beati saranno inseriti nel futuro Concistoro dedicato alle prossime Canonizzazioni. 

Chi sono questi testimoni?

Carmen Elena Rendiles Martinez nacque a Caracas, in Venezuela, l’11 agosto 1903, priva del braccio sinistro. Proveniva da una famiglia numerosa, di quelle in cui il Signore è messo al centro con naturalezza: a ogni pasto si benediceva la tavola, la sera si recitava insieme il Rosario, la domenica si andava a Messa e si prendeva parte all’Eucaristia. Il segreto di una fede così forte e di una vita così “toccata” da Dio non poteva che essere custodito lontano nel tempo, nella sua infanzia.  Molto presto si sentì chiamata dal Signore a dare il proprio contributo per la costruzione del Regno e quale modo migliore che ricondurre a Lui non solo il proprio ma molti altri cuori? Questo l’invito di madre Carmen che per prima pronunciò il suo sì – esattamente come Maria – sperimentando una sete insaziabile di Cristo e anelando alla perfezione, che interpretava come una speciale identificazione con Lui che raggiunse abbracciando la verginità, imitandone la povertà ed esercitando l’obbedienza filiale. Per quanto riguarda la dimensione della comunione, Madre Carmen aveva una predilezione per i poveri, gli ammalati e i sacerdoti, nei quali non aveva difficoltà a scorgere il volto di Cristo. Nella vita in fraternità che conduceva con le sue consorelle, così come nella preghiera per le vocazioni e per la missione sacerdotale, rivedeva il Mistero della Trinità e l’intera vita della Chiesa. Quanto alla missione, ancora prima di agire, l’apostolato era per lei rispondere alla volontà salvifica del Signore.
Eppure l’infanzia non le risparmiò prove dolorose: durante questa delicata fase perse un fratello e l’amatissimo papà. Inoltre era nata priva del braccio sinistro, malformazione che se le dette qualche problema per l’ingresso in una Congregazione religiosa, non le impedì di seguire la sua passione per l’arte e il disegno, ai quali rinunciò solo per la sua vocazione più vera. È curioso, infine, che il miracolo riconosciuto per la sua beatificazione sia stato proprio la guarigione del braccio malato di una dottoressa che durante un intervento aveva ricevuto una scarica elettrica troppo potente.  

In effetti, anche da religiosa, furono l’Adorazione eucaristica e la sofferenza le esperienze che più la avvicinarono a Dio. La prima, ad esempio, per lei non era vissuta come una semplice pratica pia, ma era una celebrazione continua della propria consacrazione. Tutta la propria vita l’aveva messa nelle mani del Signore, affinché Lui ne facesse quello che riteneva giusto, così anche i successi, i risultati raggiunti, non erano per lei un traguardo personale, ma solo un manifestarsi della Sua volontà sulla Terra. Il servizio, dunque, non era solo pratica e azione, ma anche contemplazione e preghiera, che fece guadagnare per sua intercessione non pochi sacerdoti alla Chiesa.   “Confidando in Dio ella apriva il suo cuore a tutti, anzitutto ai poveri – è la testimonianza del porporato – anche i sacerdoti erano oggetto della sua devozione e delle sue cure e per molti ella divenne saggia e materna consigliera. Verso le sue figlie spirituali era buona e caritatevole. Con le ammalate era particolarmente sollecita nel visitarle, sostenerle, servirle e aiutarle in ogni modo. Aveva poi un tratto particolare, fatto di delicatezza, di rispetto e di perdono, verso tutti coloro che la facevano soffrire”. La missione di Madre Carmen si orientò sempre al culto del Santissimo Sacramento e all’aiuto all’apostolato dei sacerdoti attraverso la preghiera e la collaborazione con loro. Fu proprio per preservare questo carisma originale che nel 1965, da responsabile delle province di Venezuela e Colombia delle Suore Ancelle di Gesù del Santissimo Sacramento, chiese la separazione dal ramo francese, facendo chiamare la propria neonata Congregazione Serve di Gesù di Caracas. Preservare lo spirito fondazionale era per lei compiere la volontà di Dio e questa sua fermezza la rese ogni giorno di più una vittima unita a quella nel Tabernacolo: la presenza di Gesù Eucaristia era per lei la forza dalla quale attingeva quotidianamente e il suo lavoro principale fu sempre scolpire Dio Sacramento nella propria e nelle anime altrui. Un’innovativa via da seguire per raggiungere la santità: questa la principale eredità che la nuova Beata lascia al mondo e alle sue figlie, come testimoniano i suoi scritti, che ci racconta il cardinale Amato: “Nell’ultima circolare invita le consorelle a pregare per il ritorno dei peccatori alla Mensa Eucaristica – ha confermato – un testamento spirituale che è anche un invito rivolto a tutti, sacerdoti, consacrati e laici, a fare un salto di qualità nella nostra vita cristiana e a dare un impulso di santità alla nostra esistenza quotidiana”. 

Carmelo De Palma nacque il 27 gennaio 1876 a Bari (Italia). Rimasto orfano, a dieci anni entrò nel Seminario della città natale. Il 17 dicembre 1898 venne ordinato sacerdote a Napoli e, successivamente, per motivi di salute, si recò per alcuni mesi nel monastero benedettino di Montecassino. Il 17 giugno 1900 fu nominato Cappellano della Basilica di S. Nicola a Bari. Servì il popolo di Dio celebrando la Messa, ascoltando le confessioni e animando molte realtà pastorali. Dal 1902 ricevette vari incarichi nella medesima Basilica: segretario del Gran Priore, cerimoniere, cancelliere, custode della cripta, delegato del Gran Priore, primicerio del Capitolo, cantore e vicario capitolare dal 1945 al 1951. Quando la Basilica di San Nicola venne affidata per disposizione della Santa Sede ai Padri Domenicani, il Servo di Dio, molto legato alla spiritualità benedettina, ricevette l’incarico di direttore spirituale delle monache benedettine di Santa Scolastica di Bari, come anche degli Oblati e delle Oblate di San Benedetto. Si dedicò anche ad altri ambiti pastorali come l’Azione cattolica, la direzione spirituale dei fedeli, in particolare dei sacerdoti e dei seminaristi. Era instancabile nel ministero della confessione. Verso la fine della vita si aggravarono le difficoltà di salute: colite cronica, arteriosclerosi del miocardio e progressiva perdita della vista.

Nel febbraio 1961 celebrò per l’ultima volta la Messa in pubblico. Successivamente, per motivi di infermità, poté solo celebrare nella sua stanza, dove continuò a rendersi disponibile nell’ascolto delle confessioni. Morì a Bari il 24 agosto 1961 per insufficienza cardiaca. Nutrì la virtù della fede con un’intensa vita di preghiera, con al centro l’Eucaristia, celebrata ed adorata, e la devozione alla Madonna. Da questa fede scaturiva la sua obbedienza a Dio: “La mia aspirazione, diceva, è una sola: compiere sempre la volontà di Dio; perciò ringraziamolo ogni momento con fede sempre viva, accettando generosamente ciò che piace a Lui”.
 La virtù della speranza aveva in lui la sua radice proprio nella fiducia nella paternità di Dio da cui si sentiva amato. E questa speranza infondeva anche agli altri, sapendo consolare ed incoraggiare le persone in difficoltà. Visse eroicamente la virtù della carità. Era generoso nel soccorrere le povertà materiali della gente. Spese ogni sua energia nel ministero di confessore e direttore spirituale, tanto da essere denominato “l’eroe del confessionale”. Per la beatificazione di Carmelo De Palma la postulazione ha presentato all’esame del Dicastero l’asserita guarigione miracolosa, attribuita alla sua intercessione, di una monaca benedettina del monastero di Santa Scolastica di Bari, che l’8 dicembre 2001 fu colpita da una febbre giudicata inizialmente di carattere influenzale. Guarita dalla febbre subì un progressivo indebolimento degli arti superiori e inferiori. Le fu diagnosticata un’artrosi, ma le terapie consigliate non ebbero effetto positivo sul suo stato di salute. Ulteriori approfondimenti diagnostici rilevarono problematiche neurologiche a livello cervicale. La risonanza magnetica effettuata il 29 gennaio 2003 rilevò una stenosi del forame magno con conseguente compressione delle strutture bulbo- midollare Le condizioni fisiche precipitarono tanto da rendere necessario il ricovero al Policlinico di Bari dove venne evidenziata una compressione midollare che apportava conseguenze invalidanti. A seguito di tali risultanze, si chiese un consulto con due neurochirurghi, di Bologna e di Verona, i quali concordarono nel proporre un intervento neurochirurgico per eliminare la stenosi midollare, presentando al contempo i rischi molto elevati dell’operazione, che avrebbe potuto non essere comunque risolutiva. Pertanto la paziente decise di non sottoporsi all’intervento. Nello stesso periodo del febbraio 2003, le spoglie mortali di Carmelo De Palma furono traslate per la sepoltura nel Monastero di Santa Scolastica nel quale la sanata viveva e la madre Badessa invitò le monache a chiedere l’intercessione di Carmelo De Palma per la guarigione dell’inferma. Il 1° giugno 2003 mentre il quadro clinico persisteva con importanti limitazioni alla deambulazione, dopo aver tralasciato l’assunzione della terapia, la Suora durante la notte ebbe un improvviso miglioramento e la mattina seguente riuscì ad alzarsi e a camminare, anche con passo veloce e svelto come prima della malattia. I ripetuti esami realizzati in seguito fino al 2010 hanno confermato la persistenza della pressione del midollo che però non ha più alcun effetto patologico e la sanata ha riacquistato la totale funzionalità degli arti, in completa assenza dei sintomi patologici subiti in precedenza.

Il Venerabile Servo di Dio José Antônio Maria Ibiapina era nato il 5 agosto 1806 a Sobral, comune del Nord-est del Brasile nello Stato del Ceará. Terzo di otto figli, a causa del lavoro paterno, di professione notaio, trascorse la sua infanzia e adolescenza in diverse regioni del Paese. Ricevette in famiglia una solida formazione cristiana e nel 1823 entrò nel seminario di Olinda (Pernambuco) dove restò solo tre mesi a causa della prematura scomparsa della mamma. La rivolta Anti-Lusitana scoppiata nel 1824 vide coinvolti il padre e il fratello che furono arrestati come ribelli: il padre venne giustiziato e il fratello condannato all’esilio. Toccò quindi a José Antônio Maria la responsabilità di guidare la famiglia e, dopo esser rientrato per sei mesi nel Seminario di Olinda, nel 1828 ne uscì per dedicarsi agli studi giuridici che gli avrebbero dato la possibilità di mantenere le sorelle rimaste in povertà. Dopo aver conseguito il baccellierato in diritto, nel 1833 fu nominato professore di Diritto naturale a Olinda e, sempre nello stesso anno, divenne Magistrato e Capo di Polizia al Comune di Quixeramobim- Cearà. Il 2 maggio 1834 fu eletto al Parlamento nazionale e gli venne affidata la presidenza della Commissione di Giustizia criminale. Nel 1835 presentò un progetto di legge che mirava ad impedire sbarchi di schiavi dall’Africa nel territorio brasiliano. Poiché i suoi tentativi di migliorare il sistema giudiziario non ebbero successo, si esonerò dalla carica di giudice e, terminata la legislatura, non si candidò più in Parlamento preferendo trasferirsi a Recife per esercitare l’attività di avvocato ed occuparsi delle cause di persone povere. Nel 1850 abbandonò l’attività forense e decise di ritirarsi in solitudine per condurre una vita appartata e dedita alla preghiera e alla riflessione.

Fu in questo periodo che maturò pienamente la sua vocazione al sacerdozio. Nel 1853 fu ordinato sacerdote dal Vescovo di Olinda che lo nominò suo segretario e Vicario diocesano per la diocesi di Paraiba, incaricandolo della docente di Sacra Eloquenza e della direzione spirituale in Seminario. Durante l’epidemia di colera abbattutasi sulla vicina provincia di Paraíba, svolse una intensa attività caritativa recandosi personalmente a curare gli ammalati tanto che la gente lo definì “pellegrino della carità”. Fondò numerose case per l’accoglienza e l’assistenza sanitaria, l’educazione culturale e morale, la formazione religiosa e l’addestramento professionale nelle regioni di Paraíba e del Rio Grande De Norte.  Organizzò anche missioni popolari e fece costruire chiese, cappelle, ospedali, orfanotrofi. Alla fine del 1875 iniziò a patire una paralisi progressiva degli arti inferiori e fu costretto a muoversi in sedia a rotelle. Dall’inizio del 1883 il suo stato di salute si aggravò in modo irreversibile portandolo alla morte il 19 febbraio 1883. I funerali, che si svolsero il giorno seguente, videro una grande partecipazione di popolo. Il Venerabile Servo di Dio José Antônio Maria Ibiapina visse una fede intensa che si palesava nell’affidamento a Dio e alla Sua Provvidenza in tutte le scelte della vita, alimentata da una costante preghiera e dall’Eucaristia della quale si nutriva quotidianamente. Ebbe una profonda devozione per la Madonna ed esortava chiunque a pregarla con ardore. La sua carità si fece concreta nello spendersi per alleviare le sofferenze dei più miseri. Quando la popolazione nordestina fu straziata dalla peste, prestò soccorso materiale e conforto spirituale alla gente che a lui si rivolgeva definendolo “pellegrino della carità”. La carità verso il prossimo si manifestò anche nell’ impegno per la giustizia sociale nel ruolo di avvocato e deputato. Con spirito di fortezza decise il passaggio dalla vita professionale a quella sacerdotale scegliendo di vivere in maniera austera, affrontando anche i disagi dovuti alla sua missione. Fu sempre obbediente al suo vescovo e fedele alla Chiesa e praticò la sua opera con spirito evangelico, senza cercare onori e riconoscimenti. La fama di santità che lo accompagnò durante la vita è continuata dopo la morte ed è stata seguita anche da attestazioni di grazie.

Choukrallah Maloyan, figlio di Melkon e Faridé, nacque a Mardine, in Turchia, il 19 aprile 1869. Il padre Joseph Tchérian, scorgendo in lui i segni della vocazione, lo inviò all'età di 14 anni nel convento di Bzommar, in Libano. Lì, terminò gli studi superiori e nella festa del Sacro Cuore del 1896 fu ordinato sacerdote Bzommarista con il nome di Ignazio, in ricordo del grande Santo Martire di Antiochia. Nel 1897, padre Ignazio è inviato in missione ad Alessandria, poi al Cairo, dove si acquistò la fama di sacerdote esemplare. Nelle sue ore libere, studiava il francese, l'inglese e l'ebraico per comprendere meglio la Sacra Scrittura. Nel 1904 Sua Beatitudine il Patriarca Boghos Bedros XII Sabbaghian, notando le sue qualità eccezionali, lo nominò suo segretario privato. Frattanto, la diocesi di Mardine aveva bisogno di un buon organizzatore per assistere l'anziano Arcivescovo Houssig Gulia. Sua Beatitudine Sabbaghian non trovò scelta migliore che il padre Maloyan. Il 22 ottobre 1911, durante il Sinodo dei Vescovi armeni riunito a Roma, fu eletto Arcivescovo di Mardine e consacrato da Sua Beatitudine Boghos Bedros XIII Terzian. A Mardine, si interessò da vicino ai problemi del suo gregge sul piano materiale, sociale e spirituale. Diffuse in tutte le parrocchie la devozione al Sacro Cuore e alla Madre di Dio. Mons. Maloyan intratteneva buone relazioni con gli alti dignitari del paese. Stimato e apprezzato, fu decorato con un decreto del Sultano. Purtroppo allo scoppio della prima guerra mondiale, gli Armeni residenti in Turchia (allora alleata con la Germania), cominciarono a subire prove indicibili. Il 24 aprile 1915, infatti, segnava l'inizio di una vera operazione di sterminio. Il 30 aprile 1915, i soldati turchi circondarono la chiesa armena e l'arcivescovado di Mardine, con il pretesto che vi fossero nascosti depositi di armi. Non avendovi trovato alcunché, si accanirono a distruggere gli archivi e i documenti. All'inizio di maggio, lo zelante Pastore riunì i suoi sacerdoti e, alla luce delle tristi notizie, li mise al corrente delle minacce fomentate contro gli armeni. Li esortò a pregare e a restare saldi nella fede. Poi lesse loro il suo testamento, in cui li incoraggiava, considerando un grande onore mescolare il proprio sangue a quello dei martiri. Li affidò alla sollecitudine di mons. Ignazio Tapouni, Arcivescovo dei siriani cattolici. Il 13 giugno 1915, ufficiali turchi trascinarono mons. Maloyan davanti al tribunale con 27 componenti della comunità. Lì, Mamdouh Bey, capo della polizia, chiese al Vescovo di consegnargli le armi nascoste nelle sua casa. Il Presule gli rispose che era sempre stato un cittadino fedele al governo e che il Sultano, in segno di merito, gli aveva conferito un alto riconoscimento onorifico. Mamdouh Bey gli propose allora di abbracciare l'Islam, per avere salva la vita. Il Presule replicò con vigore che mai avrebbe rinnegato Gesù né tradito la Chiesa e che era una gioia per lui subire per Cristo qualunque supplizio, anche la morte. Allora, un soldato lo schiaffeggiò brutalmente. Mamdouh Bey lo colpì violentemente alla testa più volte con il calcio della pistola. Ad ogni colpo, lui diceva: «Signore, pietà di me; Signore, dammi forza». Credendo che la sua morte fosse imminente, gridò a gran voce: «Chi di voi, miei cari padri, mi ascolta, mi dia l'assoluzione». Poi i soldati gli strapparono le unghie dei piedi e lo costrinsero a camminare. A Chikhane, Mamdouh Bey lesse ad alta voce la seguente sentenza: «Lo Stato vi ha concesso molti favori...; in cambio, voi avete tradito il paese. Per questo siete condannati a morte. Tuttavia, se qualcuno diventa musulmano sarà liberato e ritornerà a Mardine. In caso contrario, la sentenza sarà eseguita. Preparatevi ad esprimere la vostra ultima volontà». Mons. Maloyan, a nome di tutti, rispose: «Non siamo mai stati infedeli verso lo Stato... ma se ci chiedete di essere infedeli verso la nostra religione, questo mai, mai e poi mai». Tutti i presenti confermarono: «Questo mai». «Noi moriremo — aggiunse Maloyan — ma moriremo per il Cristo». Un fedele si avvicinò ai soldati e gridò: «Uccidetemi pure e vedrete come muore un cristiano per la sua fede». Il Confessore incrollabile si mise in ginocchio, e tutti fecero altrettanto. Pregò il Signore di concedere loro la forza e il coraggio per essere degni della palma del martirio. I sacerdoti impartirono a tutti l'assoluzione. Ciò che provocò lo stupore dei soldati turchi fu la pace e la serenità che risplendeva sui loro volti. Erano felici di morire per Cristo. Mamdouh si avvicinò a mons. Maloyan e per la seconda volta gli propose l'Islam. Il Presule rispose: «La tua richiesta mi sorprende. Ti ho già detto che io vivo e muoio per la mia vera fede. Mi glorifico nella Croce del mio Signore e mio Dio». Mamdouh infuriato estrasse la pistola e fece fuoco. La pallottola gli trapassò la nuca. Lui crollò a terra e, prima di spirare, esclamò: «Signore, abbi pietà di me; nelle tue mani affido il mio spirito».

Pietro To Rot, nacque a Rakunai in Papua Nuova Guinea nel 1912 e apparteneva alla comunità dei Tolai, residente nella parte più orientale dell’isola. Non si conosce il giorno preciso della sua nascita e del suo battesimo perché la documentazione fu confiscata dalla polizia giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Crebbe in una famiglia numerosa e fu educato prevalentemente dal padre che era capo villaggio. Dopo aver ricevuto la prima comunione, presumibilmente tra il 1922 e il 1926, mosso da una profonda devozione per l’Eucaristia, prestò servizio come ministrante. Nel 1930 cominciò a frequentare il Saint Paul’s Catechist Tarining College in Taluligap e, tre anni dopo, tornò nel suo villaggio per compiere il ministero di catechista. Con umiltà e sollecitudine compì questo servizio mosso anche da grande carità verso il prossimo, dedicandosi soprattutto ai poveri, ai malati e agli orfani. All’età di 23 anni sposò Paula La Varpit ed ebbe tre figli. Durante la Seconda guerra mondiale i giapponesi occuparono la Papua Nuova Guinea imprigionando tutti i missionari, senza però inizialmente impedire l’attività pastorale. Fece tutto quanto gli era permesso per non abbandonare la Comunità cristiana, proseguendo le attività di catechesi e preparando le coppie al matrimonio cristiano. Tuttavia successivamente gli occupanti gli ordinarono di restringere la sua attività, sino a proibirgliene tutte. Egli continuò il suo apostolato di nascosto con estrema prudenza, per non mettere a rischio la vita dei fedeli, nella piena consapevolezza che questa scelta avrebbe potuto costargli la vita. Strenuo difensore del vincolo sacramentale del matrimonio cristiano, si oppose alla poligamia che i giapponesi avevano consentito per ingraziarsi le tribù locali. Giunse a contestare pure suo fratello maggiore che scelse la via poligamica e denunciò alla polizia l’opposizione di Pietro. Per tali ragioni nel 1945 venne arrestato e condannato a due mesi di prigionia. Durante questo tempo trascorso in carcere poté ricever solo le visite della madre e della moglie insieme ai figli. Trattato più severamente degli altri prigionieri, egli morì in carcere nel mese di luglio del 1945, ucciso per avvelenamento. Pietro To Rot fu beatificato da San Giovanni Paolo II il 17 gennaio 1995 a Port Moresby, capitale della Papua Nuova Guinea. Il 18 marzo 2024 i Vescovi di Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone hanno avanzato la richiesta di dispensare dal miracolo il percorso verso la canonizzazione di Pietro To Rot. Al contempo, pur constatando la segnalazione di molte prove, hanno ritenuto come sia molto difficile documentare il miracolo necessario sia per la scarsità di ospedali in grado di fornire la documentazione scientificamente necessaria per dimostrare una presunta guarigione miracolosa; sia per la cultura della popolazione locale, che è essenzialmente di tipo orale e presenta la difficoltà di documentare per iscritto gli eventuali miracoli avvenuti. Inoltre nello Stato si parlano ben 820 dialetti, per cui solo un esiguo numero di persone è in grado di scrivere in un inglese corretto e comprensibile. Per tali ragioni è stata accettata la richiesta e il Dicastero il 22 marzo 2024 è stato autorizzato a intraprendere l’iter speciale con dispensa dal miracolo per la canonizzazione di Pietro To Rot. Da mettere in evidenza è che, dopo la Beatificazione la fama di santità e di segni si è accresciuta notevolmente estendendosi a tutte le diocesi di Papua Nuova Guinea e anche alle vicine Isole Salomone e in Australia. Sono stati pubblicati centinaia di scritti su di lui per conto di Chiese, istituzioni e gruppi legati alla sua memoria. Molte sono pure le grazie attribuite alla sua intercessione, raccolte dopo la beatificazione, quando la sua figura divenne più conosciuta. La fama di santità e segni è ormai assai diffusa ed in continua crescita.