In diocesi, qualcosa si muove, o meglio, sembra franare. Non è tanto per merito della determinazione di chi dovrebbe guidare clero e laici, quanto piuttosto perché, a un certo punto, il terreno stesso viene meno sotto ai piedi. E noi, ormai, ci siamo abituati a questa normalità rovesciata. Funziona così: qualcuno, senza alcun tornaconto, si prende la briga di dire all’Autorità che forse qualcosa non gira come dovrebbe. Lo fa persino con carità, quella virtù dimenticata anche da qualche chierico e che non è mai scontata. E quale ricompensa riceve? Lo sghignazzo, la derisione, la delazione, addirittura la diffamazione. “Come osano venire qui a scardinare i nostri giacigli così comodi?”, si domandano tra loro i padroni di casa. Diciamocelo: la sinodalità resta spesso confinata nei documenti, nelle lettere pastorali, nei discorsi stanchi, ripetuti all’infinito davanti a preti che devono inghiottire la pillola. E la pillola è questa: accettare laici “di nostra fiducia”, calati dall’alto, non perché testimoni di Cristo ma perché più facilmente manovrabili del parroco che deve subirli. Poi, però, quando la sinodalità diventa pratica, cioè quando un prete o un laico ti viene a dire che qualcosa non va, lì si abbassa il ponte levatoio: ci si barrica nei castelli, e guai a chi tocca il fortino.
E allora, eccoli i cortigiani di palazzo, vengono accolti con molto meno dramma: ti chiedono l’intervista “per tradizione”, ti lusingano con inchini e convenevoli, e poi ti gettano in pasto alla piazza, imbastendo articoli in cui appari tutto fuorché intelligente. Loro ti lodano ma non ti fanno notare che alcune affermazioni saranno quelle che verranno usate contro di te. Gli stessi che, col bicchiere in mano, si vantano con i colleghi dell’“esclusiva ottenuta dal vescovo”. Intanto, hanno già consegnato un tuo prete al ludibrio pubblico, raccontato secondo lo schema prefabbricato: non la verità dei fatti, ma la narrazione già pronta, dove sei colpevole prima ancora di aprire bocca. È così che ci siamo abituati a non ascoltare chi parla con franchezza. Preferiamo il piddino che, se potesse, ci toglierebbe pure l’aria. E non pensiamo che sia un male tipico di questa città e questa diocesi: consoliamoci, è una prassi generale, nessun primato locale.
Da anni, i preti provano a farsi ascoltare, ma restano voci nel deserto. Intorno al vescovo, invece, prosperano i collaboratori pronti a firmare reprimende canoniche contro chiunque, tranne che contro sé stessi. Nel frattempo, si costruiscono fortune in fondazioni, che finanziano santuari sempre più fiorenti. Intanto, l’acqua scorre sotto i ponti e, da sola, corrode equilibri già fragili.Qualcuno, vedendo i crolli, mormora persino: “e meno male”. Perché altrimenti non si arriverebbe mai al dunque.
La misura, in realtà, era colma da tempo ma nessuno si convinceva a metter fine a una deriva. Nei mesi scorsi, però, dentro la stessa casa del guardiano (ἐπίσκοπος, direbbero i greci), è comparso un ragazzetto capace di disseminare danni in tutta Italia (per fortuna non oltreconfine, almeno per ora). Quando la “superiore autorità” è stata informata, ha dato prova della sua nota “determinazione”: quella fermezza paterna che serve a salvare insieme il figliol prodigo (che prodigo non è) e l’intero presbiterio. Silere non possum ha più volte messo in guardia: tenere in casa certi ragazzini, già pronti al ricatto e capaci di minacciare persone ben più in alto di un vescovo di provincia, significa esporsi al disastro. Ma niente: la regola resta quella del “volemose bene”.