L’intervista del 7 novembre a Propaganda Live ha offerto uno spaccato emblematico di un modo di pensare che rischia di diventare dominante nel discorso pubblico sulla migrazione. Interrogato da Diego Bianchi, il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, ha affermato: «l’immigrazione è necessaria. Se parli con qualunque industriale in Emilia-Romagna, CNA o con Confartigianato, ti dicono che non sanno come fare perché senza immigrazione non sanno come fare. Da una parte abbiamo la denatalità, dall’altra chiudiamo le porte». Parole che suonano ragionevoli, quasi inevitabili, ma che rivelano un presupposto pericoloso: l’idea che l’immigrato debba essere accolto perché serve. È questa la prima torsione da riconoscere, perché segna lo spostamento dall’accoglienza alla funzionalità, dalla persona al mercato, dalla fraternità alla convenienza. Non è questione di buon cuore o di praticità. È questione antropologica. Se una persona entra nel nostro Paese non perché ha un valore che precede ogni ruolo economico, ma perché “colma un vuoto” lasciato da italiani che non vogliono più svolgere determinati lavori, allora quella persona è già stata degradata a funzione prima ancora di mettere piede sul suolo che la ospita.





Il Santo Padre Benedetto XVI ha dedicato buona parte della sua splendida enciclica Caritas in Veritate a smascherare questa riduzione, che colpisce l’uomo ben oltre il fenomeno migratorio. In un passaggio cruciale scrive: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà». Non è solo un ammonimento economico: è la diagnosi di un virus culturale che trasforma tutto in merce, anche le persone. Se il criterio è quello “che manca al mercato”, chi arriva sarà trattato non come cittadino in formazione, ma come ingranaggio. Ed è precisamente ciò che accade quando la necessità di manodopera è posta come argomento morale. Il migrante diventa una risposta strumentale a un’esigenza produttiva. Non arriva perché è riconosciuto come uomo; arriva perché serve a far funzionare una macchina che altrimenti si inceppa.

Questa dinamica non è affatto astratta. Benedetto XVI descrive con realismo ciò che accade laddove la logica utilitaristica prende il sopravvento: le forme di mobilità forzata e la deregolamentazione del lavoro «creano forme di degrado umano». Il nesso è diretto: quando la richiesta di manodopera non è accompagnata da un’etica della dignità, si generano lavori senza tutele, condizioni abitative indegne, salari irrisori, dipendenze subdole. E tutto questo è reso possibile da quella stessa narrazione che oggi viene riproposta come ragione dell’accoglienza: “abbiamo bisogno di loro”. In questa frase, così semplice, è già contenuto il germe dello sfruttamento. Perché chi è accolto “per necessità” sarà sempre trattato come sostituibile. Nella stessa enciclica, Ratzinger definisce il criterio ultimo dell’economia: «Il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: “L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”». Se l’uomo è fine, non può essere accolto perché “serve”. Se è autore, non può essere presentato come semplice risposta alla denatalità. Se è centro, non può essere inserito nei flussi per calmierare i bisogni dell’industria.  La logica evocata dal cardinale Zuppi capovolge questo impianto teologico e antropologico: mette l’economia al centro e l’uomo ai margini. E quando l’economia detta la grammatica dell’accoglienza, succede ciò che Benedetto XVI denuncia: «Questa falsa sicurezza si tramuta in debolezza, perché comporta l’asservimento dell’uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo». È una frase durissima, che il Papa non ebbe paura a scrivere proprio per correggere chi presenta la migrazione come soluzione tecnica, non come incontro umano. Alla luce di queste parole, ciò che colpisce delle affermazioni di Zuppi non è l’intenzione -certamente animata da quella volontà di “accogliere, accogliere e accogliere” - ma la logica che veicola. Una logica che, forse senza accorgersene, finisce per giustificare l’arrivo di persone non perché sono figli di Dio, ma perché sono necessari al sistema produttivo. È la stessa tentazione che Benedetto XVI definisce “visione empiristica e scettica della vita”, nella quale l’uomo è visto come elemento intercambiabile di un processo che deve continuare comunque. Non c’è nulla di cristiano in questa prospettiva. E non c’è nulla di evangelico nel presentare l’immigrato come soluzione ai problemi di Confartigianato o dei distretti industriali. La questione allora è politica, certo, ma prima ancora morale ed ecclesiale. Il punto decisivo non è stabilire se l’Italia “abbia bisogno” di immigrati, ma che cosa l’Italia intenda fare dell’uomo. Se accogliamo perché servono, allora non accogliamo più: reclutiamo. E quando l’altro diventa risposta a una nostra necessità, la sua dignità è già stata retrocessa a strumento. È qui che la posizione evocata da Zuppi si incrina, perché confonde l’urgenza economica con il discernimento umano. E la Dottrina sociale, lo ricorda con fermezza Benedetto XVI, non consente questa ambiguità: «ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione». Non è il bisogno del mercato a definire la persona, ma la dignità che porta con sé. Questo è anche il cuore del magistero precedente, da Gaudium et spes a Centesimus annus, fino alla Populorum progressio, dove san Paolo VI definiva la Chiesa «esperta in umanità». Benedetto XVI, nel messaggio per la 99ª Giornata Mondiale del Migrante, riprende questa eredità e la applica direttamente al tema migratorio: la Chiesa accompagna i migranti perché riconosce in loro non una risorsa da allocare, ma un volto da custodire. Per questo ricorda che i flussi migratori sono “sfida drammatica”, ma anche che la risposta non può essere né assistenzialismo né utilitarismo: ciò che conta è l’“inserimento integrale”, che permette alla persona di ricostruire la propria vita, non di diventare ingranaggio.

Il diritto a non emigrare

In questo quadro, risulta ancora più chiaro che l’accoglienza fondata sulla mancanza di manodopera è intrinsecamente distorta. Non solo perché rischia di trasformare l’immigrato in forza lavoro sostitutiva, ma perché tradisce un principio che Benedetto XVI afferma con grande lucidità: prima ancora del diritto a emigrare, va garantito il diritto a non emigrare. Questa frase, spesso ignorata, è invece la chiave per comprendere l’antropologia cristiana della mobilità. Una società giusta non si limita a “importare” persone per compensare le proprie carenze; si impegna a rimuovere quei fattori che costringono milioni di individui a lasciare la propria terra. Solo così l’emigrazione rimane un atto libero, non una fuga. Non un obbligo, ma una scelta. Non una pressione economica, ma un cammino umano. Alla luce di questo, l’accoglienza non è una semplice operazione logistica o morale. È un atto che esige responsabilità.Non possiamo accogliere oltre la nostra capacità di garantire condizioni dignitose sia a chi arriva sia a chi già vive qui. Fare entrare persone che saranno destinate a centri disumani, al lavoro nero e sottopagato, all’alloggio indecoroso, alla marginalità o al caporalato significa produrre quell’“asservimento dell’uomo ridotto a mezzo” che Benedetto XVI denuncia con parole drammatiche in Caritas in Veritate. È accoglienza solo il contesto in cui una persona può essere riconosciuta come fine, non come funzione; come soggetto, non come risposta tecnica al collasso demografico.

Per questo non basta dire “abbiamo bisogno di loro”. È proprio questa formula a deformare lo sguardo. L’immigrato non viene per colmare la nostra denatalità o per supplire ai vuoti di un sistema produttivo affaticato. Viene - se accogliamo secondo Vangelo - per vivere una vita nuova, per cercare possibilità che nella propria terra sono state negate, per condividere con noi il cammino umano. E noi possiamo accoglierlo solo se siamo disposti a garantire non il posto che altri rifiutano, ma una dignità pari alla nostra. Diversamente, non siamo di fronte a un’accoglienza, ma a una forma moderna di sfruttamento travestita da solidarietà.

La domanda allora va posta diversamente: non se l’Italia abbia bisogno degli immigrati, ma se gli immigrati, arrivando in Italia, saranno davvero trattati da uomini. Se potremo dare loro case, lavoro dignitoso, sicurezza, accesso ai diritti, integrazione reale. Se potremo rispettare la loro libertà e aiutarli a esercitare quella “vocazione allo sviluppo integrale” che la Chiesa riconosce in ogni persona. Solo in questo caso l’accoglienza è un bene. In caso contrario, diventa un meccanismo che genera nuove vittime, nuove fragilità, nuove povertà.

E allora sì: la questione è politica, ma prima ancora è morale.

d.E.B.
Silere non possum