Viviamo in un tempo in cui parlare è diventato più facile che tacere. In cui la rapidità con cui si lancia un giudizio supera la fatica del comprendere. Eppure, ogni parola è come una freccia: una volta scoccata, non torna più indietro. E spesso colpisce dove non volevamo, o non pensavamo potesse arrivare. 

Il parlare male degli altri è una forma di violenza sottile, travestita da confidenza, da analisi o, peggio, da verità. Si parla “per dire come stanno le cose”, ma in realtà si scava un fossato tra sé e l’altro. È un modo per sentirsi migliori, più giusti, più puri. Ma ogni volta che giudichiamo, cancelliamo qualcosa di noi stessi: la capacità di vedere il bene nascosto, la lentezza necessaria per capire, la grazia del perdono.

Dietro la maldicenza non c’è forza, ma fragilità. Chi sparla, lo fa spesso per tristezza, per insoddisfazione, per paura del proprio silenzio. Chi giudica, giudica per non guardarsi allo specchio. È più facile parlare del male altrui che affrontare il proprio. Ma, a forza di giudicare, si finisce per deformare anche lo sguardo: non si vede più la luce negli altri, né in sé stessi.

C’è un modo diverso di stare al mondo: il silenzio interiore, quello che ascolta prima di rispondere, che trattiene la lingua e lascia lavorare il cuore. È il silenzio che costruisce invece di distruggere, che medita prima di commentare, che preferisce pregare per chi sbaglia piuttosto che condannarlo.

Il primo rimedio è semplice: guardarsi allo specchio. Prima di parlare di qualcuno, chiedersi: “E io, cosa ho fatto per cambiare ciò che giudico?”. Poi guardare la Croce, per ricordarsi che ogni ferita può essere trasformata in perdono, e che nessuno è solo il suo errore. Infine, guardare i poveri, i piccoli, i dimenticati: in loro non c’è spazio per la maldicenza, ma solo per la concretezza dell’amore. Non è un percorso moralistico, ma un esercizio di libertà. Chi smette di giudicare diventa libero. Libero di amare senza condizioni, libero di non dover sempre dire qualcosa, libero dal bisogno di avere ragione.

Forse la nostra epoca non ha bisogno di più opinioni, ma di più silenzio. Non il silenzio di chi si disinteressa, ma quello di chi sceglie di non aggiungere rumore al male. Le parole, se usate bene, possono guarire. Ma se diventano armi, lasciano ferite invisibili che nessuna scusa potrà sanare. Tacere non è codardia: è scegliere di custodire, non di colpire. E, forse, è proprio da lì — dal silenzio che ascolta e ama — che ricomincia il vero parlare.

d.E.R.
Silere non possum