In un Paese dove tutti accusano il Vaticano di esercitare un potere occulto, la vera casta intoccabile non veste la talare ma la toga. Da decenni la magistratura italiana è un potere che non risponde a nessuno: governa se stessa, influenza la politica, decide le sorti delle persone più di qualunque governo eletto. E chi prova a toccarla, viene fatto fuori.

L’ultima riforma costituzionale – quella che separa le carriere tra giudici e pubblici ministeri – è un passo, seppur minimo, verso un cambio di rotta. Per le toghe, però, rappresenta ovviamente una minaccia esistenziale: spezza il meccanismo di autogoverno che, dagli anni Ottanta in poi, ha permesso a pochi gruppi interni di gestire tutto. Perché, come ha raccontato Luca Palamara, “dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti, i membri laici del Csm e i loro referenti politici. È tutto documentabile”.

La riforma, modificando gli articoli 104 e seguenti della Costituzione, mette fine all’unicità del Consiglio Superiore della Magistratura e prevede due organismi distinti: uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente. Sembra una questione tecnica, ma in realtà è una rivoluzione copernicana: cancella la zona grigia dove per decenni si è confusa giustizia e potere, diritto e appartenenza.

Luca Palamara, il quale è stato per lungo tempo dentro a questo sistema torbido, lo ha spiegato con chiarezza: “Ho contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e sulle dinamiche politiche e sociali del Paese. Tutti sapevano. Nessuno era innocente.”
Quel sistema – fatto di correnti, scambi, cordate e silenzi – non è mai stato smantellato. Anzi, molti di coloro che oggi si dicono “indignati” dalla riforma sono gli stessi che per anni hanno beneficiato delle logiche di appartenenza.

La magistratura si trova oggi a vivere ciò che, come Chiesa, abbiamo attraversato all’inizio degli anni Duemila: un tempo di scandali e di resa dei conti. La maggioranza continua a voler preservare un potere malato, a difendere un sistema che garantisce privilegi e silenzi. Solo pochi, troppo pochi, hanno compreso che quel meccanismo è ormai corrotto alle radici. E ciò che rende tutto ancora più inquietante è che a denunciare il marcio siano quasi sempre coloro che da quel sistema sono stati “fatti fuori” ed emarginati. È il segno che il resto del corpo fa quadrato, si chiude, si difende. Come ogni potere che ha paura di perdere sé stesso.

Nel libro Lobby e logge, Palamara descrive il livello successivo: “Dietro le quinte non c’è solo la rete delle correnti, ma un dark web del potere. Logge e lobby che decidono chi deve salire e chi deve cadere.” È un potere che nessuno ha il coraggio di chiamare per nome. Mentre in Italia si discute delle presunte ingerenze del Vaticano, nessuno parla del potere giudiziario come apparato politico autonomo. Perché la magistratura non è solo un potere dello Stato: è diventata una casta che non risponde ad alcuna autorità esterna, e che gode di un’aura morale costruita sull’intangibilità. Altro che il clero. Il clero oggi è il bersaglio più facile: attaccato, ridicolizzato, processato per ogni sospetto. La magistratura, invece, non si lascia processare da nessuno.

Ogni scandalo – dal caso Palamara alle intercettazioni del CSM, dalle procure che non rispondono della propria inerzia alle cancellerie dove si preferisce il caffè alle pratiche – viene sistematicamente coperto. Le forze di polizia corrotte, le indagini condotte male o mai avviate, i giudici che condannano senza nemmeno valutare le prove nel fascicolo, i processi che non partono perché un pubblico ministero non formula l’imputazione: tutto finisce nello stesso modo, con una formula di comodo, una sorta di autoassoluzione corporativa. E quando un magistrato sbaglia, il copione non cambia mai: è solo “un caso isolato”. Sempre. La responsabilità disciplinare è, di fatto, inesistente; quella civile e penale, semplicemente, non esiste affatto.

La verità è che la riforma sulla separazione delle carriere va a toccare il nervo scoperto dell’egemonia delle correnti. Riducendo il loro potere di condizionare nomine e carriere, toglie ossigeno a chi – per decenni – ha usato la toga come strumento di influenza politica. Ecco perché le toghe insorgono: non per difendere la Costituzione, ma per difendere un privilegio.

In fondo, in Italia si può insultare un politico, diffamare un cittadino, perfino deridere il Papa, ma guai a sfiorare un magistrato. È lì che il coraggio civile si arresta e comincia il silenzio imposto. Ed è proprio questo il motivo per cui alcuni, pur conducendo inchieste coraggiose su ogni tema, non osano mai toccare la casta delle toghe. Perché sanno bene come finirebbe: il giorno dopo arriverebbero perquisizioni, sequestri pretestuosi, notifiche mirate, pressioni e minacce velate. Il messaggio è chiaro da decenni: chi sfida la magistratura non va semplicemente contraddetto — va eliminato dal campo.
Non è solo paura: è il segno di un potere che non ammette specchi davanti a sé, perché sa che, se si riflettesse davvero, scoprirebbe di essere diventato ciò che dovrebbe giudicare. Il dilemma, in fondo, è sempre questo: Quis custodiet ipsos custodes?

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum