Cardinal Muller speaks on Amoris Laetitia and challenges his successor.

In una lettera aperta che ha iniziato a circolare questa mattina fra i membri del sinodo, S.E.R. il Card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito del Dicastero per la Dottrina della Fede si è rivolto al confratello Dominik Jaroslav Duka, arcivescovo emerito di Praga.

Müller, che aveva già annunciato una reazione, ha scritto per criticare, punto per punto, le risposte che il prefetto in carica, S.E.R. il Sig. Víctor Manuel Fernández ha offerto all’arcivescovo emerito.

“Di fatto, il testo di Buenos Aires – sottolinea Müller – sembra in discontinuità almeno con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II (Familiaris Consortio, 84) e di Benedetto XVI ( Sacramentum Caritatis, 29). E, anche se la “Risposta” non lo dice, ai documenti del magistero ordinario di questi due Papi va dato anche l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà”.

Si tratta di un testo che certamente irrompe nel sinodo, nel quale sono presenti sia Fernandez sia Muller. Inoltre, si tratta di un prefetto emerito che interviene bacchettando sia il suo successore sia il Papa stesso.

d.R.M.

Silere non possum

Articolo

Eminenza, caro fratello Dominik Duka,

ho letto con grande attenzione la “Risposta” del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) ai tuoi “dubia” sull’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia” (”Risposta a una serie di domande”, in seguito “Risposta”) e vorrei condividere con te la mia valutazione.

Uno dei “dubia” che hai presentato al DDF riguarda l’interpretazione di “Amoris Laetitia” contenuta in una lettera dei vescovi della regione di Buenos Aires del 5 settembre 2016, che permette l’accesso ai sacramenti ai divorziati che vivono in una seconda unione civile, anche se continuano a comportarsi come marito e moglie senza volontà di cambiare vita. Secondo la “Risposta” questo testo di Buenos Aires appartiene al magistero pontificio ordinario, essendo stato accettato dal Papa stesso. Francesco ha infatti affermato che l’interpretazione offerta dai vescovi di Buenos Aires è l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”. La “Risposta” ne trae la conseguenza che si deve prestare l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà a questo documento di Buenos Aires, come succede per altri testi del magistero ordinario del Papa (cfr. Lumen Gentium, 25,1).

Al riguardo è innanzitutto necessario chiarire, dal punto di vista dell’ermeneutica generale della fede cattolica, qual è l’oggetto dell’assenso dell’intelligenza e della volontà che ogni cattolico deve offrire al magistero autentico del Papa e dei vescovi. In tutta la tradizione dottrinale, e in particolare in “Lumen Gentium” 25, tale assenso religioso riguarda la dottrina della fede e della morale che riflette e garantisce l’intera verità della rivelazione. Le opinioni private di papi e vescovi sono espressamente escluse dal magistero. Inoltre qualsiasi forma di positivismo magisteriale contraddice la fede cattolica, perché il magistero non può insegnare ciò che non ha nulla a che fare con la rivelazione, né ciò che contraddice specificamente la Sacra Scrittura (”norma normans non normata”), la tradizione apostolica e le precedenti decisioni definitive del magistero stesso (Dei Verbum, 10; cfr. DH 3116-3117).

C’è dunque un assenso religioso da rendere al testo di Buenos Aires? Dal punto di vista formale, è già discutibile chiedere l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà a un’interpretazione teologicamente ambigua di una conferenza episcopale parziale (la regione di Buenos Aires), che a sua volta interpreta un’affermazione di “Amoris Laetitia”e che richiede una spiegazione e la cui coerenza con l’insegnamento di Cristo (Mc 10,1-12) è in discussione.

Di fatto, il testo di Buenos Aires sembra in discontinuità almeno con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II (Familiaris Consortio, 84) e di Benedetto XVI (Sacramentum Caritatis, 29). E, anche se la “Risposta” non lo dice, ai documenti del magistero ordinario di questi due Papi va dato anche l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà.

Tuttavia, la “Risposta” sostiene che il testo di Buenos Aires offre un’interpretazione di “Amoris Laetitia” in continuità con i Papi precedenti. È proprio così?

Vediamo innanzitutto il contenuto del testo di Buenos Aires, riassunto nella “Risposta”. Il paragrafo decisivo della “Risposta” riguarda il terzo “dubium”. Dopo aver detto che già Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettevano l’accesso alla comunione quando i divorziati e risposati accettano di vivere in continenza, viene indicata la novità di Francesco:

“Francesco mantiene la proposta della piena continenza per i divorziati e i risposati [civilmente] in una nuova unione, ma ammette che vi possano essere difficoltà nel praticarla e quindi permette, in certi casi, dopo un adeguato discernimento, l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione anche quando non si riesca nel essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” [sottolineato nello stesso testo].

Di per sé, l’espressione “anche quando non si riesca nel essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” può essere interpretata in due modi. Il primo: questi divorziati cercano di vivere in continenza, ma, date le difficoltà e a causa della debolezza umana, non ci riescono. In questo caso, la “Risposta” potrebbe essere in continuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II. La seconda: questi divorziati non accettano di vivere in continenza e non ci provano nemmeno (non c’è quindi proposito di emendarsi), viste le difficoltà che incontrano. In questo caso ci sarebbe una rottura con il magistero precedente.

Tutto sembra indicare che la “Risposta” si riferisca alla seconda possibilità. In realtà, questa ambiguità è risolta nel testo di Buenos Aires, che separa il caso in cui al meno si cerca di vivere in continenza (n.5) da altri casi in cui non è così (n.6). In questi ultimi casi, i vescovi di Buenos Aires affermano: “In altre circostanze più complesse, e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata [cercare di vivere in continenza] può di fatto non essere praticabile”.

È vero che questa frase contiene un’altra ambiguità, in quanto afferma: “e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità”. Alcuni, notando che il testo non dice “e quando il matrimonio era valido”, hanno limitato queste circostanze complesse a quelle in cui, anche se il matrimonio è nullo per ragioni oggettive, queste ragioni non possono essere provate davanti al foro ecclesiale. Come si vede, sebbene Papa Francesco abbia presentato il documento di Buenos Aires come l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”, la questione ermeneutica non è risolta, perché esistono ancora diverse interpretazioni del documento di Buenos Aires. Alla fine, ciò che osserviamo, sia nella “Risposta” che nel testo di Buenos Aires, è una mancanza di precisione nella formulazione, che può consentire interpretazioni alternative.

In ogni caso, però, anche prescindendo da queste imprecisioni, sembra chiaro ciò che vogliono dire sia la “Risposta” che il testo di Buenos Aires. Si potrebbe formulare come segue: ci sono casi particolari in cui, dopo un periodo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che, dopo aver contratto un matrimonio sacramentale, mantiene rapporti sessuali con una persona con cui vive una seconda unione, senza che il battezzato debba prendere la risoluzione di non continuare ad avere questi rapporti, sia perché discerne che non gli è possibile, sia perché discerne che questa non è la volontà di Dio per lui.

Vediamo innanzitutto se questa affermazione può essere in continuità con gli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. L’argomentazione della “Risposta” secondo cui Giovanni Paolo II aveva già ammesso alcuni di questi divorziati alla comunione, e che quindi Francesco solo fa un passo nella stessa direzione, non regge. La continuità, infatti, non va ricercata nel fatto che qualcuno poteva essere ormai ammesso alla comunione, ma nel criterio di quest’ammissione. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettono di ricevere la comunione ai divorziati che, per gravi motivi, vivono insieme senza avere rapporti sessuali. Ma non lo permettono quando queste persone hanno abitualmente rapporti sessuali, perché qui c’è un peccato oggettivamente grave, nel quale si vuole rimanere e che, in quanto tocca il sacramento del matrimonio, acquista un carattere pubblico. La rottura tra l’insegnamento del documento di Buenos Aires e il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si percepisce quando si guarda all’essenziale, che è, come ho detto, il criterio di ammissione ai sacramenti.

Per essere più chiari, immaginiamo che, per assurdo, un futuro documento del DDF proponga un’argomentazione simile per permettere l’aborto in alcuni casi, in questo modo: “Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno già permesso l’aborto in alcuni casi, per esempio quando la madre ha un cancro all’utero e questo cancro deve essere curato; adesso l’aborto è permesso in alcuni altri casi, per esempio nei casi di malformazione del feto, in continuità con ciò che hanno insegnato i Pontefici precedenti”. Si può notare la fallacia di questa argomentazione. Il caso di un’operazione per un cancro all’utero è possibile perché non si tratta di un aborto diretto, ma di una conseguenza non voluta di un’azione curativa sulla madre (secondo quello che è stato chiamato il principio del doppio effetto). Non ci sarebbe continuità, ma discontinuità tra le due dottrine, perché la seconda nega il principio che reggeva la prima posizione e che condannava qualsiasi aborto diretto.

Ma la difficoltà dell’insegnamento della “Risposta” e del testo di Buenos Aires, secondo la formulazione proposta, non sta solo nella sua discontinuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Infatti, questo insegnamento si oppone ad altre dottrine della Chiesa, che non sono solo affermazioni del magistero ordinario, ma sono state insegnate in modo definitivo come appartenenti al deposito della fede.

Il Concilio di Trento insegna, in effetti, le seguenti verità: che la confessione sacramentale di tutti i peccati gravi è necessaria per la salvezza (DH 1706-1707); che vivere in una seconda unione come marito e moglie mentre esiste il vincolo coniugale è un peccato grave di adulterio (DH 1807); che una condizione per dare l’assoluzione è la contrizione del penitente, che include il dolore per il peccato e il proposito di non peccare più (DH 1676; 1704); che al battezzato non è impossibile osservare i precetti divini (DH 1536,1568). Tutte queste affermazioni non richiedono solo un assenso religioso, ma devono essere credute con fede ferma, in quanto sono contenute nella rivelazione, o almeno accolte e ritenute fermamente in quanto sono proposte dalla Chiesa in modo definitivo. In altre parole, la scelta non è più tra due proposizioni del Magistero ordinario, ma è in gioco l’accettazione di elementi costitutivi della dottrina cattolica.

La testimonianza di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e del Concilio di Trento viene in fondo ricondotta alla chiara testimonianza della Parola di Dio, che il Magistero serve. Su questa testimonianza si deve basare tutta la pastorale dei cattolici che vivono in seconde unioni dopo un divorzio civile, perché solo l’obbedienza alla volontà di Dio può servire alla salvezza delle persone. Gesù dice: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,11s). E la conseguenza è: “Né i fornicatori né gli adulteri [...] erediteranno il regno di Dio” (1 Cor 6,10). Questo significa anche che questi divorziati non sono degni di ricevere la comunione prima di aver ricevuto l’assoluzione sacramentale, il che a sua volta richiede il pentimento dei propri peccati, insieme al proposito di emendarsi. Qui non c’è alcuna mancanza di misericordia, ma al contrario, in quanto la misericordia del Vangelo non consiste nel tollerare il peccato, ma nel rigenerare il cuore dei fedeli affinché vivano secondo la pienezza dell’amore che Cristo ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.

Ne consegue che coloro che rifiutano l’interpretazione di “Amoris Laetitia” offerta dal testo di Buenos Aires e dalla “Risposta” non possono essere accusati di dissenso. Il loro problema non è quello di percepire un’opposizione tra ciò che essi comprendono e ciò che il Magistero insegna, ma di percepire un’opposizione tra due insegnamenti diversi dello stesso Magistero, uno dei quali è stato ormai affermato in modo definitivo. Sant’Ignazio di Loyola ci invita a ritenere che ciò che vediamo bianco è nero se la Chiesa gerarchica lo stabilisce così. Ma Sant’Ignazio non ci invita a credere, affidandoci al Magistero, che sia bianco ciò che il Magistero stesso ci ha detto prima, in modo definitivo, essere nero.

Inoltre, le difficoltà sollevate dal testo della “Risposta” non finiscono qui. Infatti, la “Risposta” va oltre quanto affermato in “Amoris Laetitia” e nel documento di Buenos Aires su due punti gravi.

Il primo punto tocca la questione: chi decide sulla possibilità di amministrare l’assoluzione sacramentale ai divorziati in seconda unione al termine del percorso di discernimento? Nel “dubium” che hai presentato alla DDF, caro fratello, proponi diverse alternative che ti sembrano possibili: potrebbe essere il parroco, il vicario episcopale, il penitenziere…. La soluzione data nella “Risposta” deve essere stata per te una vera sorpresa, che non saresti riuscito neppure a immaginare. Infatti, secondo il DDF, la decisione finale deve essere presa in coscienza da ogni fedele (n.5). Se ne deduce che il confessore si limita a obbedire a questa decisione di coscienza. Colpisce che si dica che la persona deve “mettersi davanti a Dio ed esporgli la propria coscienza, con le sue possibilità e i suoi limiti” (ibid.). Se la coscienza è la voce di Dio nell’uomo (“Gaudium et Spes” 36), non si comprende cosa voglia dire “mettere la propria coscienza davanti a Dio”. Sembra che qui la coscienza sia piuttosto il punto di vista privato di ogni individuo, che si colloca poi davanti a Dio.

Ma lasciamo da parte questo punto per concentrarci sulla sorprendente affermazione contenuta nel testo del DDF. Sono i fedeli stessi a decidere se ricevere o meno l’assoluzione, e il sacerdote deve solo accettare questa decisione! Se questo si applica in generale a tutti i peccati, allora il sacramento della Riconciliazione perde il suo significato cattolico. Non è più l’umile richiesta di perdono di chi si trova davanti a un giudice misericordioso, il quale riceve l’autorità di Cristo stesso; ma si tratta dell’assoluzione di se stessi dopo aver esplorato la propria vita. Questo non è lontano da una visione protestante del sacramento, condannata da Trento, quando insiste sul ruolo del sacerdote a modo di giudice nella confessione (cfr. DH 1685; 1704; 1709). Il Vangelo afferma, riferendosi al potere delle chiavi: “Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Ma il Vangelo non dice: “ciò che gli uomini decideranno in coscienza che tu devi sciogliere in terra, sarà sciolto in cielo”. È sorprendente che il DDF abbia potuto presentare al Santo Padre per la sua firma, nel corso di un’udienza, un testo con un tale errore teologico, compromettendo così l’autorità del Santo Padre.

La sorpresa è ancora più grande perché la “Risposta” cerca di appoggiarsi a Giovanni Paolo II per sostenere che la decisione spetta al singolo fedele, occultando che il testo citato di Giovanni Paolo II è direttamente opposto alla “Risposta”. Infatti, la “Risposta” cita “Ecclesia de Eucharistia” 37b, dove si dice, nel caso della ricezione dell’Eucaristia: “Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza”. Ma vediamo la frase che aggiunge in seguito Giovanni Paolo II, che la “Risposta” non riporta, e che risulta essere l’idea principale di questo paragrafo da “Ecclesia de Eucharistia”: “Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto” (ibidem). Come si vede, il DDF ha selezionato la premessa del testo di San Giovanni Paolo II omettendo la conclusione principale, che si oppone alla tesi del DDF. Se il DDF vuole presentare un insegnamento contrario a quello di san Giovanni Paolo II, il minimo che può fare è non cercare di usare il nome e l’autorità del santo Pontefice. Sarebbe meglio riconoscere onestamente che, secondo il DDF, Giovanni Paolo II si è sbagliato in questo insegnamento del suo Magistero.

La seconda novità contenuta nella “Risposta” è che ogni diocesi è incoraggiata a produrre le proprie linee guida per questo processo di discernimento. Ne deriva una conclusione immediata: se le linee guida sono diverse, accadrà che dei divorziati potranno ricevere l’Eucaristia secondo le linee di una diocesi e non secondo quelle di un’altra. Ora, l’unità della Chiesa cattolica ha significato fin dai primi tempi l’unità nella ricezione dell’Eucaristia: poiché mangiamo lo stesso pane, siamo lo stesso corpo (cf. 1Cor 10,17). Se un fedele cattolico può ricevere la comunione in una diocesi, può riceverla in tutte le diocesi che sono in comunione con la Chiesa universale. Questa è l’unità della Chiesa, che si basa e si esprime nell’Eucaristia. Pertanto, il fatto che una persona possa ricevere la comunione in una Chiesa locale e non possa riceverla in un’altra è una definizione esatta di scisma. È impensabile che la “Risposta” del DDF voglia promuovere una cosa del genere, ma questi sarebbero gli effetti probabili di abbracciare il suo insegnamento.

Di fronte a tutte queste difficoltà nella “Risposta” del DDF, qual è la via d’uscita per coloro che vogliono rimanere fedeli alla dottrina cattolica? Ho già detto che il testo di Buenos Aires e quello della “Risposta” non sono precisi. Non dicono chiaramente ciò che intendono dire, e quindi lasciano aperte altre interpretazioni, per quanto improbabili. Questo lascia spazio a dubbi sulla loro interpretazione. D’altra parte, è insolito il modo in cui la “Risposta” registra l’approvazione del Santo Padre, con una semplice firma datata a piè di pagina. La formula abituale sarebbe stata: “il Santo Padre approva il testo e ne ordina (o permette) la pubblicazione”, ma nulla di tutto ciò appare in questo “Appunto” poco curato. Questo apre un dubbio ulteriore sull’autorità della “Risposta”.

Queste domande ci permettono di sollevare un nuovo “dubium”, secondo ciò che ho formulato in precedenza: esistono casi in cui, dopo un periodo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che mantiene rapporti sessuali con una persona con cui convive in una seconda unione, se questo battezzato non vuole fare il proposito di non continuare ad avere questi rapporti?

Caro fratello, finché questo “dubium” non sarà risolto, l’autorità della “Risposta” ai tuoi “dubia” e della lettera di Buenos Aires rimane in sospeso, date le imprecisioni che tali testi contengono. Questo apre un piccolo spazio alla speranza che ci sia una “Risposta” negativa a questo “dubium”. In questo caso, a beneficiarne non sarebbero in primo luogo i fedeli, che in ogni caso non sarebbero obbligati ad accettare una “Risposta” positiva al “dubium” in quanto in contraddizione con la dottrina cattolica. Il principale beneficiario sarebbe l’autorità che risponde al “dubium”, che verrebbe preservata intatta, poiché non chiederebbe più ai fedeli l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà riguardo a verità contrarie alla dottrina cattolica.

Sperando che questa spiegazione chiarisca il significato della “Risposta” che hai ricevuto dal DDF, ti invio i miei saluti fraterni “in Domino Iesu”,

Gerhard Card. Ludwig Müller

Roma