Città del Vaticano - Nel dibattito pubblico, lo abbiamo visto anche ai danni di Papa Francesco, c’è una vera e propria lotta contro chi ha il coraggio di affermare senza paura che Israele sta compiendo un genocidio a Gaza. Nei giorni scorsi David Grossman, scrittore israeliano, ha definito ciò che accade a Gaza con questa parola, che per anni aveva evitato. Papa Francesco non ebbe paura a pronunciarla in pubblico attirandosi tutte le critiche di coloro che stanno facendo finta di non vedere ciò che sta accadendo ai danni del Popolo Palestinese.

Del resto, Francesco fu anche colui che, senza esitazioni, definì Marco Minniti un “criminale di guerra” davanti ai vescovi italiani, durante un incontro a porte chiuse. Silere Non Possum rivelò in anteprima mondiale quello scoop, raccontando come il Papa avesse criticato l’allora presidente della Fondazione Leonardo Med-Or per le sue scelte da ministro ai danni dei migranti. Oggi, quella stessa figura porta una responsabilità morale diretta in ciò che accade a Gaza, dal momento che la fondazione che guida produce armi destinate a finire nelle mani di Israele.

David Grossman, in una intervista apparsa sul quotidiano italiano La Repubblica, ha definito quanto sta accadendo a Gaza un genocidio. Lo ha fatto con dolore, dichiarando di non potersi più trattenere dall’usarla alla luce di ciò che ha visto e ascoltato. Da quel momento, una cordata di intellettuali ha rilanciato quelle frasi come paravento etico: non esponendosi in prima persona, ma rifugiandosi dietro l’autorevolezza “legittima e legittimata” di uno scrittore israeliano. È un meccanismo antico: delegare la responsabilità della parola a chi sembra inattaccabile.

Pochi giorni dopo è arrivata l’operazione speculare. Per “riequilibrare” l’effetto Grossman, la stampa ha cercato una voce altrettanto inattaccabile, ebraica e investita di un’autorità morale fuori discussione. Liliana Segre ha così spiegato perché, a suo giudizio, parlare di genocidio a Gaza sia improprio e pericoloso: un termine “troppo carico” e spesso usato “per vendetta”, che alimenta antisemitismo e demonizzazioni. Così il terreno si è spostato: non più i fatti al centro, ma lasorveglianza del lessico.

Che una donna, sopravvissuta alla Shoah, si presti a questo gioco per difendere quella parte di ebrei incapace di concepire la propria identità senza Israele — e disposta a giustificare il genocidio del popolo palestinese — è sconcertante. È come se una vittima di maltrattamenti sostenesse che ciò che subiscono altri non possa essere definito “maltrattamento” perché il maltrattamento è solo ciò che ha subito lei.

La “testuggine” dell’altrui coscienza

Perché tanti si sono messi in scia lo stesso giorno? Perché è più facile far propria una parola quando la pronuncia qualcun altro. Grossman non è uno scudo, è un testimone: o si condivide la sua diagnosi, argomentandola, oppure la si contesta, argomentandola. Il resto è coda di cometa: una formazione a testuggine che dà l’illusione di coraggio proprio quando il costo dell’argomento viene scaricato sul simbolo di turno.

La mossa opposta: proteggere la parola, non i corpi

L’operazione opposta — “mettere in sicurezza” la parola genocidio — produce un rovesciamento curioso: non è Gaza a essere minacciata dall’annientamento, è Israele a essere minacciato dalla parola che lo accuserebbe. Così il problema diventa il vocabolario (chi lo “abusa”, chi lo “manipola”), non la realtà che pretende di raccontare. Ma davvero il punto decisivo, oggi, è blindare il lessico? Quante vittime occorrono prima che la disputa esca dalla filologia e rientri nella politica e nel diritto? (A fine luglio, le stime OCHA indicavano oltre 60.000 palestinesi uccisi dall’inizio della guerra; il quadro umanitario continua a precipitare.)

“Isteria”, diagnosi o etichetta?

Nel rifiuto del termine affiora spesso la parola “isteria” attribuita a chi lo usa. È un’etichetta che trasforma una tesi giuridico-politica in sbalzo emotivo. Se chi parla di genocidio è “isterico”, non va confutato: va calmato. È un trucco retorico che abbiamo visto altrove — e che, in questo caso, sposta ancora una volta l’attenzione dall’oggetto (i crimini) al soggetto (chi ne parla). Ma un dissenso sulla qualificazione giuridica non è una patologia: è, appunto, un dissenso.

È la consueta strategia di chi, privo di argomenti, teme la forza della Verità. In queste settimane, Francesca Albanese è stata bersaglio di attacchi personali e tentativi di delegittimazione proprio perché ha avuto il coraggio di dire apertamente ciò che accade. Allo stesso modo, in ambito ecclesiale, Silere non possum subisce costantemente insulti e campagne di screditamento, bollato con etichette come “gossip”, “chiacchiere” o “indiscrezioni”. In realtà, sia nel primo che nel secondo caso, ciò che conta è l’attenzione scrupolosa ai documenti, ai fatti, alle prove — e mai al sentito dire.

Che cosa dice il diritto — e dove siamo davvero

“Genocidio” non è un megafono morale: è una fattispecie definita dalla Convenzione del 1948, che richiede atti tipici e soprattutto intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo protetto. Stabilirlo è compito dei giudici, non dei cori. E infatti la Corte internazionale di giustizia non ha ancora deciso nel merito, ma ha ritenuto plausibile il rischio di violazioni della Convenzione e ha imposto misure provvisorie vincolanti a Israele (26 gennaio 2024), poi rafforzate nei mesi successivi. Dire oggi “non è genocidio” come verità accertata è preciso quanto dire “lo è” come sentenza: in entrambi i casi si salta il procedimento.

Il punto non è chi lo dice, ma se è vero

Affidare il barometro morale a due figure-simbolo — Grossman e Segre — può rassicurare, ma accorcia il pensiero. La domanda non è “chi” può permettersi quella parola; la domanda è se quella parola aderisce ai fatti e quali responsabilità politiche e giuridiche ne derivino. Quando si invoca l’autorità per autorizzare o squalificare un termine, il rischio è duplice: da un lato l’etero-tutela delle coscienze (parlo solo se parla “uno dei loro”); dall’altro la censura preventiva (non parlo perché potrei essere assimilato a un odio atavico). In entrambi i casi, i corpi scompaiono.

Chiamare le cose col loro nome (senza scorciatoie)

Si può ritenere — e argomentare — che a Gaza sia in corso un genocidio; si può ritenere — e argomentare — che non lo sia. In entrambi i casi, però, la serietà esige tre mosse:
Ancorare la tesi ai criteri della Convenzione e alla giurisprudenza rilevante, non al pedigree di chi parla. 

Misurarsi con i dati (fallibili, in quanto non vengono autorizzati gli ingressi di giornalisti indipendenti, ma necessari): vittime, fame usata come arma, collasso sanitario, ostacoli all’accesso degli aiuti. 

Accettare il tempo del diritto, senza usarlo come alibi per neutralizzare il giudizio morale e politico nel presente.

La sequenza Grossman-Segre racconta più di noi che della guerra: il bisogno di delegare la parola scomoda a un’autorità e il bisogno simmetrico di sorvegliarla per timore delle sue conseguenze. Ma una democrazia adulta non appalta le parole né le sequestra: le argomenta. Se oggi “genocidio” è la parola giusta o no, lo diranno il diritto e le prove. Nel frattempo, abbiamo un dovere minimo: rifiutare i paraventi, evitare le diagnosi liquidatorie, e riportare al centro i fatti e le responsabilità. Il resto è scenografia.

T.A.
Silere non possum