Roma - La cosa più preoccupante non è l’attacco in sé, ma ciò che rivela: l’idea che una domanda possa diventare una colpa. La vicenda di Gabriele Nunziati, licenziato dall’Agenzia Nova dopo un quesito posto alla Commissione europea, lo mostra con chiarezza. Una domanda legittima, pubblica, documentata, trasformata in “inopportuna”, fino a generare pressioni, telefonate e infine l’interruzione del rapporto di lavoro.
Non è un caso isolato. Negli Stati Uniti lo abbiamo visto con Donald Trump, in Italia con Giorgia Meloni, e nelle ultime ore a Roma con il primo ministro albanese Edi Rama: contesti diversi, ma lo stesso meccanismo. Delegittimare e colpire chi domanda per indebolire ciò che viene chiesto.
Non è un problema di stile, né di temperamento personale. È un modo di intendere il potere. Quando un politico reagisce a una domanda prendendo di mira il giornalista, non sta rispondendo: sta ridefinendo il perimetro di ciò che ritiene lecito chiedere. La questione non è cosa venga detto, ma chi “si permette” di dirlo. La ricerca più avanzata sull’informazione nelle società contemporanee mostra che questo è uno dei segnali più chiari di deriva autoritaria: non si interviene sul contenuto, ma sulla credibilità dell’interlocutore. Ruth Moon, studiando i sistemi informativi nei regimi ibridi, evidenziava come il potere tenda a sostituire la discussione dei fatti con la costruzione di un sospetto sulla legittimità di chi domanda. È una forma di controllo molto più efficace della censura, perché agisce dove il giornalismo è più vulnerabile: nella fiducia pubblica.
Lo schema è semplice: se il cronista diventa il problema, la domanda scompare. Lo spettatore se la dimentica. È ciò che accade quando a un giornalista non si risponde sul merito, ma si imputa un’intenzione, un’ostilità, una presunta appartenenza politica. La domanda viene trasformata in un atto di aggressione; il potere assume il ruolo di vittima; lo spazio critico si restringe. In Italia, da tempo, si osserva la stessa dinamica: l’idea che porre una questione scomoda equivalga a “provocare”, “disturbare”, “attaccare”. E chi ricopre incarichi istituzionali, invece di misurarsi con ciò che viene chiesto, sposta il conflitto sul terreno personale: “lei è fazioso”, “lei vuole fare polemica”, “lei è disinformato”.
Oggi il primo ministro albanese Edi Rama ha rivolto un attacco personale del tutto fuori luogo al giornalista Rai Jacopo Matano. “Se non si è pentito lei che fa da due anni la stessa domanda, come posso pentirmene io[di aver fatto un accordo con il Governo italiano ndr.]?”, ha detto, aggiungendo che “non so cosa capiranno quelli che seguiranno la sua cronaca” e ironizzando sul fatto che “non sono domande ma la stessa domanda ripetuta”. È vergognoso che i colleghi si siano messi a ridere invece di stigmatizzare questo modus agendi, ma si sa in Italia il giornalismo è un passatempo per tanti analfabeti.
L’atteggiamento e le parole di Edi Rama sono volti a
spostare il problema dal merito alla persona, insinuando che l’insistenza del cronista sia il vero ostacolo, non le responsabilità politiche.
Eppure, il punto è chiaro: da due anni i centri in Albania promossi da Giorgia Meloni non funzionano perché progettati ignorando vincoli normativi elementari. Invece di assumersi la responsabilità dell’errore, la presidente del Consiglio e lo stesso Rama preferiscono attaccare i giornalisti e attribuire la colpa ai giudici, trasformando una domanda legittima in un bersaglio facile. Parole che non spiegano nulla, ma
servono a ricordare al giornalista quale dev’essere il suo posto.
Quanto è accaduto oggi è il segno che non
ci troviamo davanti a scatti d’umore, ma a
un modello. Un modello che riduce l’informazione a un’arena di fedeltà invece che a uno spazio pubblico. Fare informazione non significa schierarsi, né essere a favore o contro qualcuno. Significa
fare luce. Il potere, ogni potere, ha sempre difficoltà ad accettarlo. Ma quando la domanda viene percepita come un’offesa, è la democrazia stessa a perdere consistenza.
La
libertà non
si incrina quando si tace una risposta, ma
quando si punisce chi la pone. Ed è qui che si misura la gravità del fenomeno: non negli insulti, ma nell’abitudine. Il rischio è assuefarsi, considerare “normale” che un
premier – con tutta la sua forza e influenza - attacchi un cronista, o che un presidente ironizzi, o che un capo di governo estero venga confermato con sorrisini mentre delegittima un giornalista italiano. Quando l’eccezione diventa pratica ricorrente, la domanda non è più un diritto: è un azzardo. La politica può anche illudersi di vincere questo braccio di ferro. Ma a perdere, alla fine, è
la società che smette di pretendere trasparenza. E un giornalismo intimidito non è un giornalismo prudente: è un giornalismo amputato.
F.L.
Silere non possum