Milano cresce, attrae capitali, ridisegna i suoi spazi. Ma dietro le luci dello sviluppo urbanistico si allungano le ombre di una città sempre più inaccessibile alla gente comune, segnata da disuguaglianze e logiche di profitto che rischiano di soffocare il bene comune. In questa intervista concessa al quotidiano italiano Corriere della Sera, S.E.R. Mons. Mario Enrico Delpini, Arcivescovo di Milano, riflette sulle trasformazioni della metropoli, sul pericolo di un “idolo avido” che sacrifica relazioni, ambiente e speranza, e sulla necessità di ricostruire un “noi” cittadino. Con parole chiare, richiama alla responsabilità istituzioni, imprenditori, comunicatori e cittadini, senza rinunciare alla fiducia ma con la lucidità di chi vede nella solidarietà concreta — e non nelle sole dichiarazioni d’intenti — l’unica via per un futuro inclusivo.
Eccellenza, il «caso urbanistica» ha portato in evidenza alcuni temi che lei ha segnalato più volte: i rischi legati ad alcune dinamiche dello sviluppo di Milano, che producono più ricchezze ma anche più esclusione. Che effetto le fa?
«Ho grande fiducia nella gente che lavora onestamente e che assume responsabilità per il bene comune. Ho stima e fiducia nei magistrati che svolgono il loro lavoro con coscienziosità e con la sincera ricerca della verità. Non di quelli che cercano la ribalta della notorietà e l’effetto politico degli indizi, piuttosto che la valutazione obiettiva dei comportamenti dei cittadini. Ho stima e fiducia negli amministratori che assumono la responsabilità del bene comune con onestà e intelligente lungimiranza. Ma non di quelli che asserviscono il loro potere a interessi di parte o personali. Ho stima e fiducia negli operatori della comunicazione che informano la gente con onestà ed equilibrio. Ma non di quelli che fanno dell’informazione un’arma per condannare, se non diffamare, con inappellabile severità, prima che le vicende giudiziarie si concludano».
Al di là degli aspetti giudiziari, che idea si è fatto delle dinamiche immobiliari milanesi?
«Non sono in grado di giudicare le scelte urbanistiche e le loro intenzioni, ma propongo una riflessione: quando una cosa promette di essere redditizia, chi ha risorse decide di investire e si aspetta che il suo investimento renda quanto più possibile. Forse la città si è messa sul mercato come “una cosa che promette di essere redditizia”, invece che presentarsi come una comunità in cui potrebbe essere desiderabile abitare. Il criterio del “maggior profitto possibile” può diventare come un idolo intrattabile che diventa sempre più avido e pretende che tutto sia a lui sacrificato: la vita della gente, il suolo, l’ambiente, le relazioni. Già in altre occasioni, in questi anni, ho sottolineato che Milano rischia di diventare una città molto attraente per turisti, uomini di affari, costruttori e fondi di investimento ma poco accessibile alla gente comune e con troppe disuguaglianze. Certo, le questioni sono complesse e le scelte difficili: se la città non attira investimenti, si condanna al declino; se la città attira investimenti dell’idolo avido di guadagnare, si condanna al deserto e alla disperazione».
Lei ha incontrato i banchieri, i rettori, gli imprenditori, gli amministratori e a tutti ha sempre ricordato i temi che ricadono sulla vita di ampie fasce di cittadini. Ma poi ha visto compiere qualche passo?
«Come le ho detto, sono incline alla fiducia nelle persone e nelle istituzioni. Quel che è certo è che promuovere l’evoluzione di una cultura delle banche, delle università, dell’imprenditoria, dell’amministrazione non può essere solo un buon proposito. Ci vogliono uomini e donne che fanno della convinzione la motivazione, dei principi il criterio, del ruolo una vocazione, delle situazioni occasioni per agire con coerenza e incisività. Ci vogliono uomini e donne che siano forti e lucidi abbastanza per resistere alle pressioni dell’avidità, alla ricerca rassicurante del consueto e del consenso facile basato sui luoghi comuni, abbastanza preparati per argomentare che praticare la logica del bene comune prima del bene privato è una via più promettente dell’individualismo e dell’indifferenza. Ci sono uomini e donne così? Si facciano avanti!».
Anche in passato lei ha incoraggiato i politici e chi si spende per il bene comune. Queste vicende non incrinano la sua fiducia?
«Non sono incline a perdere la fiducia e non so valutare le vicende che devono essere chiarite. Mi sembra però che si imponga con urgenza la domanda di ricostruire il soggetto comune “noi” a Milano. Visto che stiamo parlando di case, mi sembra che Milano in queste settimane assomigli a un condominio i cui abitanti hanno perso la stima gli uni negli altri, non riescono a trovare le parole e le frasi per individuare il bene comune, per costruire insieme il futuro, per far fronte ai bisogni. Occorre tornare a sentirsi “autorizzati a pensare”, a riscoprire l’arte del buon vicinato, a ritrovare il coraggio di fare il primo passo nel cercare il bene per tutti».
La città che lei conosce ha le energie per ripartire?
«La città ha le energie. Quello che le manca è la speranza, è la fiducia, è l’ambizione di preparare una città migliore di quella attuale per le prossime generazioni, anche perché mi pare si sia diffuso un sentire, e non parlo solo di Milano, che non trova simpatiche le prossime generazioni, ritiene troppo fastidioso curarsi dei bambini e non ritiene sia una priorità dare loro il benvenuto».
Però il bilancio di missione della Diocesi di Milano ha confermato, tra le altre cose, la generosità di tante persone: quindi, l’anima ambrosiana esiste ancora?
«Mi colpisce molto la generosità della gente che mette a disposizione risorse per le attività pastorali, culturali, caritative della Chiesa ambrosiana. Mi viene da ringraziare tanta gente semplice che sente la responsabilità di sostenere la Chiesa e il bene che fa. Sono però preoccupato per i ricchi. Ci sono a Milano molti ricchi che non usano le loro ricchezze per fare del bene. Non hanno anche loro un’anima da salvare?».
Sul tema della casa, con il fondo Schuster, la Chiesa ambrosiana si è impegnata concretamente: che risultati sta producendo? In quali altri modi si può contribuire a una città più inclusiva?
«La Chiesa può avviare qualche iniziativa, lo ha sempre fatto. Il Fondo Schuster, che ha come sottotitolo “Case per la gente”, si è avviato da pochi mesi e l’intenzione non è, ovviamente, risolvere il problema abitativo quanto dimostrare che si può affrontare se si uniscono le forze e se molti investono risorse e intelligenza, invece che stare a guardare, deprecare il malandare e pensare a come far prosperare i propri affari».
A proposito di «Case per la gente», come intende muoversi la Chiesa ambrosiana rispetto ai tanti spazi che non saranno più usati?
«Le esigenze cambiano e certamente la riflessione sulle strutture è un pensiero e un cruccio che da anni accompagna le parrocchie e la Diocesi. Le strutture però sono più rigide delle intenzioni: ci vuole molta attenzione a costruire il consenso nella comunità, sono richieste molte pratiche burocratiche e molte risorse. Non sempre è opportuno disfare quello che i nostri padri hanno fatto, anche perché non di rado è proprio nelle strutture ecclesiali che trovano accoglienza situazioni di emergenza e nuove esigenze. Per questi e altri motivi mi sembra che la riflessione sul tema non possa individuare una ricetta da applicare dappertutto. Si cerca invece, caso per caso, di compiere le scelte coerenti con la missione della Chiesa».
Nei giorni scorsi lei ha visto da vicino papa Leone, per la prima volta nell’ambito di un evento di portata mondiale, il Giubileo dei giovani. Quali tratti coglie nel nuovo Pontefice?
«C’è, in papa Leone, una specie di semplicità disarmata e lieta che si esprime nel sorriso, nel gesto composto, nella parola edificante e rassicurante. Mi sembra di indovinare un’intima gioia con antiche radici, come un gaudium de veritate agostiniano, che attende ancora di manifestarsi nel confrontarsi con i drammi del nostro tempo e la missione della Chiesa».