Il primo Viaggio Apostolico di Leone XIV, in corso tra Turchia e Libano, prevede una tappa a İznik, l’antica Nicea, proprio nell’anno del 1700° anniversario del Concilio del 325. Rievocare quel Concilio non significa evocare un concetto teologico astratto, ma una scelta storica precisa sull’identità ontologica del Figlio. Una deliberazione che ha inciso sul modo in cui Dio può essere rivelato alla ragione umana, riconosciuto nella fede e, soprattutto, incontrato nella concretezza dell’esperienza cristiana.

La posta in gioco della crisi ariana

Alla vigilia del Concilio, la contestazione non verteva su accenti liturgici o formule pastorali, ma su un nodo metafisico: chi fosse il Figlio nel rapporto col Padre. Ario affermava una filiazione eccelsa per rango, ma non identitaria nell’essere: il Logos non sarebbe co-eterno, ma generato, dunque non pienamente condividente la natura del Padre. Se il Figlio fosse posteriore ontologicamente, la rivelazione di Dio resterebbe parziale e la salvezza un movimento verso un intermediario sublime, non verso Dio stesso.

Homoousios: confine e garanzia ontologica

Il Concilio introdusse una parola che operò come barriera semantica e ponte ontologicohomoousios - “della stessa sostanza del Padre”. Nel vocabolario del tempo, ousía indicava l’essere reale, l’identità sostanziale. Applicarla al Figlio significò tre cose essenziali:

Il Figlio non è creato (generato, non creato). Non è copia o emanazione attenuata, né attributo cosmico della materia più sottile, come nelle concezioni stoiche dove il Logos coincideva con un fuoco immanente al mondo. È identico nell’essere al Padre, non solo nella missione o nel prestigio teologico.

L’affermazione “generato, non creato” (gennethénta, ou poiethénta) sancì che l’origine del Figlio non appartiene all’ordine del divenire, ma al piano dell’essere divino. Dire Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero non fu un crescendo ornamentale, bensì il riconoscimento della continuità piena dell’essere nella relazione trinitaria.

Tre ipostasi, una divinità

Dopo Nicea, la riflessione teologica non tornò indietro: si consolidò l’idea che l’unica sostanza divina sussiste in tre distinte sussistenze (ipostasi), senza fratture nell’essere. Il Figlio rivela il Padre senza differenza di natura, mentre l’uomo può essere unito a Dio non per identità originaria, ma per partecipazione della grazia.

La salvezza resa possibile

L’identità del Figlio rispetto al Padre fu la condizione perché la salvezza non fosse letta né come un’ascesa dell’anima verso un inferiore ontologico (schema gnostico) né come un ritorno a una “divinità da cui si è ontologicamente emanati” (schema manicheo o panteistico). Il Concilio non dichiarò l’anima un frammento della sostanza divina, ma proclamò l’identità del Figlio con il Padre nella sostanza, così che l’uomo possa essere reso consorte della natura divina per grazia e non per derivazione naturale. Solo un Figlio identico nel piano dell’essere divino può introdurre l’uomo nel legame con Dio senza surrogati ontologici.

Portata storica e logica dell’affermazione

L’homoousios non fu un’idea nata all’ultimo minuto, né un innesto fortuito nel linguaggio conciliare: divenne una soglia fissata nella grammatica dell’essere. Quella parola agì come una doppia difesa. Da un lato impedì che la Triade divina venisse organizzata come una scala di ranghi, un Dio superiore che delega l’essenza a un Figlio inferiore, separato nella natura pur se eccelso nella funzione. Dall’altro, disegnò un argine contro la dissoluzione del divino nell’immanenza del cosmo, quella visione, diffusa nel pensiero dell’epoca, che tendeva a confondere il principio spirituale con una materia più sottile e onnipervasiva.

Affermare che il Figlio è della stessa sostanza del Padre significava garantire che la rivelazione non si fermasse a una mediazione diminuita, e che la salvezza non fosse un’aspirazione proiettata verso un livello inferiore dell’essere divino. L’identità ontologica del Figlio diventò così la condizione logica perché l’uomo potesse essere introdotto nel rapporto con Dio senza sostituti o gradini intermedi tra l’umano e il divino. In questo senso, l’homoousios non si limitò a proteggere una definizione: abilitò un’idea di incarnazione e redenzione che rende possibile l’accesso dell’anima a Dio stesso, non a un suo riflesso attenuato.

Con Nicea, inoltre, si inaugurò una stagione nuova nel modo di pensare la verità dottrinale. I concili, fino ad allora episodi sporadici nella vita di una comunità spesso costretta alla difesa, divennero lo strumento pubblico e vincolante attraverso cui la fede veniva argomentata, sottratta al sospetto di eterogeneità nell’essere e resa norma condivisa per l’intera Chiesa. L’homoousios, lungi dall’essere un lemma di scuola, segnò il momento in cui l’unità della fede trovò il suo fondamento non più nell’ambiguità tollerata dell’approssimazione, ma nella chiarezza esigente di una dichiarazione sull’essere di Dio.

Unità nell’Essere

A Nicea, l’unità non fu un negoziato di forme, ma una deliberazione sull’essere. Nel Figlio, la Chiesa riconobbe la stessa sostanza divina del Padre, perché l’uomo non restasse legato a un concetto di Dio, ma potesse essere legato all’essere di Dio.

La tappa di Leone XIV a İznik, nel suo primo viaggio apostolico, non riattiva un ricordo museale del passato, ma il cuore razionale del Concilio di Nicea: stabilire chi è il Figlio nella Trinità non è un dettaglio storico o devozionale, ma il principio logico da cui dipende come Dio si dona all’uomo e come l’uomo può incontrarlo.

d.L.A.
Silere non possum