Roma - Le riforme arrivano, i decreti si susseguono, ma la realtà resta sempre la stessa: nei tribunali e nelle procure italiane non funziona nulla.
A dispetto delle norme introdotte con la riforma Cartabia, che dal 1° gennaio 2023 ha reso obbligatorio il deposito telematico degli atti penali, il sistema è bloccato, le cancellerie sono ferme, i fascicoli restano sospesi nel limbo. Già nelle procure si navigava a vista: c’è chi lavora poco, chi niente, chi impiega settimane, mesi, talvolta anni per notificare un atto alle parti. Ora, con l’introduzione dei portali digitali, la situazione è semplicemente precipitata.
Il Portale dei Depositi Penali non funziona, i server vanno in tilt, gli atti caricati dagli avvocati restano inevasi, e nessuno - né i magistrati né gli uffici giudiziari - si assume la minima responsabilità.
L’impunità di chi dovrebbe garantire la giustizia
È la solita storia che in Italia si ripete da decenni, con ostinata impunità. Esiste una categoria che, anche quando sbaglia, non paga mai: quella dei magistrati, in particolare i pubblici ministeri. Possono accumulare ritardi su ritardi, lasciar cadere processi in prescrizione, dimenticare notifiche o depositi, talvolta persino agire in modo da impedire alle parti di esercitare il proprio diritto di opposizione, eppure nulla accade.
Per il cittadino, invece, i termini scorrono inesorabili, e ogni errore si paga caro: così viene negato non solo il diritto di difesa, ma anche il diritto stesso alla giustizia, perfino a chi è vittima di reati gravissimi commessi da personaggi che sono un pericolo concreto per la collettività. E così, mentre lo Stato impone ai professionisti di usare strumenti telematici spesso inutilizzabili, gli stessi uffici pubblici ignorano i loro obblighi. Il risultato è paradossale: la tecnologia che avrebbe dovuto semplificare diventa un nuovo ostacolo all’accesso alla giustizia.
Il portale che non va, l’avvocatura lasciata sola
Gli avvocati Vincenzo G. Giglio e Riccardo Radi, sul loro blog Terzultima Fermata, hanno fotografato il disastro in modo emblematico: «Si può sapere perché da venerdì 31 ottobre, il portale dei servizi telematici non funziona? Pardon, funziona a singhiozzo, cinque minuti sì e un paio d’ore no. Non è possibile per i cittadini e per gli avvocati che hanno l’ingrato compito di fare da cuscinetti tra il garantire il rispetto dei diritti degli assistiti e un sistema che non funziona. In questa situazione, non risulta alcuna comunicazione dei vari COA e Camere o camerette varie e tantomeno un provvedimento del D.G.S.I.A. o dei dirigenti dei vari tribunali della Penisola. Niente, il silenzio è tombale. Per depositare cosa dobbiamo fare? Munirci del piccione viaggiatore? Sarebbe sicuramente più funzionante e garantirebbe meno stress del portale, peccato che l’articolo 175 bis del codice di procedura penale non lo preveda. L’avvocatura è muta e silente ed evitate per favore i comunicati postumi del … che nulla fanno per cambiare lo stato delle cose.»
Un grido d’allarme che nessuno ascolta. Nel frattempo, gli Ordini forensi tacciono, i COA dormono, e i dirigenti degli uffici giudiziari si limitano a far finta di nulla, continuando a percepire stipendi da funzionari di un sistema che non produce giustizia.
La politica dei magistrati e il silenzio delle istituzioni
In tutto questo, i magistrati trovano il tempo per fare ciò che non dovrebbero: politica. Mentre i fascicoli si accumulano e le vittime di reati - spesso gravissimi - attendono risposte, magistrati come Nicola Gratteri si dedicano ai comizi, invitando i colleghi a “scendere in piazza” invece di occuparsi dei procedimenti che giacciono inevasi sulle loro scrivanie. Non è più una semplice inefficienza: è una crisi culturale e morale. Quanti sono i procedimenti penali nei quali i Pubblici Ministeri non rispettano il termine per le indagini preliminari? Quante sono le persone vittime di reati gravi che, aspettando azioni da parte delle forze di polizia e della magistratura, hanno perso la vita?
I magistrati si sono ormai accomodati in un sistema dal quale non hanno alcun interesse a uscire. Le cancellerie e gli uffici amministrativi, che dovrebbero garantire il funzionamento della macchina giudiziaria, sono al collasso: troppa gente passa le giornate a fare altro, invece di rispondere alle telefonate o evadere le e-mail dei cittadini e degli avvocati.
Chi avesse ancora dubbi sulla necessità di una riforma della giustizia, dovrebbe solo mettere piede in una procura o in un tribunale italiano. Si renderebbe conto che servono riforme vere, strutturali e culturali, non i soliti interventi di facciata proposti da governi che non hanno mai messo piede in un’aula di giustizia seppur composti da “illustri avvocati” e agiscono solo per convenienza politica o per tornaconto personale.
Oggi molti magistrati usano il proprio ruolo come palcoscenico mediatico, inseguendo visibilità e consenso. Ma la responsabilità non è solo loro: una parte del giornalismo italiano ha costruito con le procure rapporti di reciproca convenienza - scambi di favori, documenti in cambio di silenzi o di articoli compiacenti - trasformando il diritto all’informazione in un sistema di collusione sistemica. Nel frattempo, il cittadino comune continua a restare stritolato tra burocrazia e silenzi, vittima di una giustizia che non serve più la verità, ma solo sé stessa.
Un Paese che ha smesso di credere nella giustizia
Questa è l’Italia del 2025: un Paese dove si parla di digitalizzazione e riforme, ma dove le cancellerie non rispondono, i portali non funzionano e i magistrati fanno politica. La giustizia non è più un diritto, è un miraggio. E chi ancora tenta di credere nello Stato, spesso scopre che il vero reato è quello di chiedere giustizia.
L.S.
Silere non possum