First Advent Sermon for the Roman Curia. The theme: Faith, Hope and Charity: the three doors to be opened to Christ who comes.
Questa mattina S.E.R. il Sig. Cardinale Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap. ha rivolto alla Curia Romana la Prima Predica di Avvento. Presente anche il Santo Padre. La riflessione si è concentrata sul tema: “Sollevate, porte, i vostri frontali” (Sal 24, 7-8). Fede, Speranza e Carità: le tre porte da aprire a Cristo che viene.
Qual è il senso e l’utilità di queste prediche di Avvento che interrompono e ritardano impegni di tutt’altro genere? si è chiesto il Predicatore della Casa Pontificia.
“Quello che mi incoraggia e mi toglie lo scrupolo di farvi perdere tempo è la convinzione che non si viene a queste prediche per ascoltare opinioni o soluzioni ai problemi ecclesiali del momento ma per attingere forza dalle verità di fede e così affrontare, nello spirito giusto, tutti i problemi” ha detto Cantalamessa.
Tre perni fondamentali guideranno le Prediche di Avvento di questo anno: Fede, Speranza e Carità. “Sono l’oro, l’incenso e la mirra che noi magi di oggi vogliamo recare a Cristo che viene a salvarci dall’Alto” ha precisato il cappuccino. Di seguito il testo integrale.
I prossimi incontri saranno: il 9 e il 16 dicembre.
Il testo integrale della Prima Predica di Avvento 2023
Santo Padre, Reverendi Padri, fratelli e sorelle della Curia, mi sono chiesto più volte quale sia il senso e l’utilità di queste prediche in Avvento e in Quaresima che interrompono o ritardano impegni di tutt’altro genere e importanza. Quello che mi incoraggia e mi toglie lo scrupolo di farvi perdere tempo è la convinzione che non si viene a queste prediche per ascoltare opinioni o soluzioni ai problemi ecclesiali del momento, ma per attingere forza dalle verità di fede e così affrontare nello spirito giusto tutti i problemi. Per fare, insomma, un bagno –o almeno una rinfrescata – di fede, di speranza e di carità. Così ho pensato di scegliere come tema di queste tre prediche di Avvento proprio le tre virtù teologali. Fede, speranza e carità sono l’oro, l’incenso e la mirra che noi, Magi di oggi, vogliamo recare in dono a Dio che “viene a visitarci dall’alto”. Facendo tesoro della tradizione antica – patristica e medievale – sulle virtù teologali, tenterò – per quanto è possibile farlo in tre brevi meditazioni – un approccio anche moderno ed esistenziale, che risponda cioè alle sfide, agli arricchimenti e, a volte, ai surrogati proposti dall’uomo d’oggi alle virtù teologali del cristianesimo.
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Nella preghiera cristiana ha avuto sempre grande risonanza il salmo che – nella versione della liturgia – dice:
Sollevate, porte, i vostri frontali,
alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria! (Sal 24, 7-8).
Nell’interpretazione spirituale dei Padri e della liturgia, le porte di cui si parla nel salmo sono quelle del cuore umano: “Beato colui alla cui porta bussa Cristo”, commentava sant’Ambrogio. “La nostra porta è la fede…Se vorrai alzare le porte della tua fede, entrerà da te il re della gloria” . San Giovanni Paolo II fece, delle parole del salmo, il manifesto del suo pontificato. “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”, gridò al mondo, il giorno della inaugurazione del suo ministero.
La grande porta che l’uomo può aprire, o chiudere, a Cristo è una sola e si chiama libertà. Essa, però, si apre secondo tre modalità diverse, o secondo tre tipi diversi di decisione che possiamo considerare come altrettante porte: la fede, la speranza e la carità. Sono, queste, delle porte tutte speciali: si aprono da dentro e da fuori nello stesso tempo: con due chiavi, di cui una è in mano all’uomo, l’altra a Dio. L’uomo non può aprirle senza il concorso di Dio e Dio non vuole aprirle senza il concorso dell’uomo.
Cristo, origine e compimento della fede
Iniziamo dunque la nostra riflessione dalla prima delle tre porte: la fede. Dio – si legge negli Atti degli apostoli – “aveva aperto ai pagani la porta della fede” (At 14, 27). Dio apre la porta della fede in quanto dà la possibilità di credere inviando chi predica la buona novella; l’uomo apre la porta della fede accogliendo questa possibilità.
Con la venuta di Cristo, si registra, a proposito della fede, un salto di qualità. Non nella natura di essa, ma nel suo contenuto. Ora non si tratta più di una generica fede in Dio, ma della fede in Cristo nato, morto e risorto per noi. La Lettera agli Ebrei fa un lungo elenco di credenti: “Per fede Abele… Per fede Abramo…Per fede Isacco…Per fede Giacobbe…Per fede Mosé…” Ma conclude dicendo: “Tutti costoro, pur essendo approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso” (Eb 11, 39). Che cosa mancava? Mancava Gesú, cioè colui che –dice la stessa Lettera – “dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12, 2).
La fede cristiana non consiste dunque soltanto nel credere in Dio; consiste nel credere anche in colui che Dio ha mandato. Quando, prima di compiere un miracolo, Gesù domanda: “Credi tu?” e, dopo averlo compiuto, afferma: “La tua fede ti ha salvato”, non si riferisce a una generica fede in Dio (questa era scontata in ogni israelita); si riferisce alla fede in lui, nel potere divino a lui concesso.
Questa è ormai la fede che giustifica l’empio, la fede che fa rinascere a vita nuova. Essa si colloca al termine di un processo di cui san Paolo, nel capitolo 10 della Lettera ai Romani, traccia, quasi visivamente, le varie fasi disegnandole sulla mappa del corpo umano. Tutto comincia, dice, dalle orecchie, dall’udire l’annuncio del Vangelo: “La fede viene dall’ascolto”, fides ex auditu. Dalle orecchie, il movimento passa al cuore, dove si prende la decisione fondamentale: corde creditur, “con il cuore si crede”. Dal cuore, il movimento risale alla bocca: “con la bocca si fa la professione di fede”: ore fit confessio.
Il processo non finisce qui, ma – dalle orecchie, dal cuore e dalla bocca – esso passa alle mani. Sì, perché “la fede diventa operativa nella carità”, dice l’Apostolo (Gal 5,6). San Giacomo può stare tranquillo. C’è posto anche per le “opere”: non però prima, ma dopo (logicamente se non cronologicamente) la fede. “Non si perviene alla fede – dice san Gregorio Magno – partendo dalle virtù, ma alle virtù partendo dalla fede” .
Sorge, a questo punto, una domanda di grande attualità. Se la fede che salva è la fede in Cristo, che pensare di tutti quelli che non hanno alcuna possibilità di credere in lui? Viviamo in una società, anche religiosamente, pluralistica. Le nostre teologie – Orientale e Occidentale, Cattolica e Protestante allo stesso modo – si sono sviluppate in un mondo dove esisteva in pratica soltanto il cristianesimo. Si era, bensì, a conoscenza dell’esistenza di altre religioni, ma esse erano considerate false in partenza, o non erano prese affatto in considerazione. A parte il diverso modo di intendere la Chiesa, tutti i cristiani condividevano l’assioma tradizionale: “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”: Extra Ecclesiam nulla salus.
Oggi non è più così. Da qualche tempo è in atto un dialogo tra le religioni, basato sul reciproco rispetto e sul riconoscimento dei valori presenti in ognuna di esse. Nella Chiesa Cattolica, il punto di partenza è stata la dichiarazione “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II, ma un orientamento analogo è condiviso da tutte le Chiese storiche cristiane. Con questo riconoscimento si è andata affermando la convinzione che anche persone al di fuori della Chiesa possono salvarsi.
È possibile, in questa nuova prospettiva, mantenere il ruolo finora attribuito alla fede “esplicita” in Cristo? L’antico assioma: “fuori della Chiesa non c’è salvezza” non finirebbe per sopravvivere, in questo caso, nell’assioma: “fuori della fede non c’è salvezza”? In alcuni ambienti cristiani, quest’ultima è, di fatto, la dottrina dominante ed è essa che motiva l’impegno missionario. In questo modo, però, la salvezza viene ad essere limitata in partenza a una minoranza esigua di persone.
Ciò non solo non può lasciare tranquilli noi, ma fa torto prima di tutto a Cristo, sottraendogli gran parte dell’umanità. Non si può credere che Gesú è Dio, e limitare poi la sua rilevanza di fatto a un solo ristretto settore di essa. Gesú è “il salvatore del mondo” (Gv 4, 42); il Padre ha mandato il Figlio “perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17): il mondo, non alcuni pochi nel mondo!
Cerchiamo di trovare una risposta nella Scrittura. Essa afferma che chi non ha conosciuto Cristo, ma agisce in base alla propria coscienza (Rm 2, 14-15) e fa del bene al prossimo (Mt 25, 3 ss.) è accetto a Dio. Negli Atti degli apostoli ascoltiamo, dalla bocca di Pietro, questa solenne dichiarazione: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (At 10, 34-35).
Anche gli aderenti ad altre religioni credono, in genere, che “Dio esiste e che ricompensa coloro che lo cercano” (Eb 11, 6); realizzano, perciò, quello che la Scrittura considera il dato fondamentale e comune di ogni fede. Questo vale, naturalmente, in modo tutto speciale, per i fratelli Ebrei che credono nello stesso Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe in cui crediamo noi cristiani.
Il motivo principale del nostro ottimismo non si basa, tuttavia, sul bene che gli aderenti ad altre religioni sono in grado di fare, ma sulla “multiforme grazia di Dio” (1Pt 4, 10). A volte sento il bisogno di offrire il sacrificio della Messa proprio a nome di tutti quelli che sono salvati per i meriti di Cristo, ma non lo sanno e non possono ringraziarlo. Ci esorta a farlo anche la liturgia. Nella Preghiera eucaristica IV, alla preghiera per il papa, il vescovo e i fedeli, si aggiunge quella “per tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero”.
Dio ha molti più modi per salvare di quanti noi possiamo pensare. Ha istituito dei “canali” della sua grazia, ma non si è vincolato ad essi. Uno di questi mezzi “straordinari” di salvezza è la sofferenza. Dopo che Cristo l’ha presa su di sé e l’ha redenta, è anch’essa, a modo suo, un universale sacramento di salvezza. Colui che si è calato nelle acque del Giordano santificandole per ogni battesimo, si è calato anche nelle acque della tribolazione e della morte, facendone potenziale strumento di salvezza. Misteriosamente, ogni sofferenza -non solo quella dei credenti-, compie, in qualche modo, “quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1, 24). La Chiesa celebra la festa dei Santi Innocenti, anche se neppure essi sapevano di soffrire per Cristo!
Noi crediamo che tutti coloro che si salvano si salvano per i meriti di Cristo: “Non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12). Una cosa, tuttavia, è affermare la universale necessità di Cristo per la salvezza e altra cosa affermare l’universale necessità della fede in Cristo per la salvezza.
Superfluo, allora, continuare a proclamare il Vangelo a ogni creatura? Tutt’altro! È il motivo che deve cambiare, non il fatto. Dobbiamo continuare ad annunciare Cristo; non tanto però per un motivo negativo –perché altrimenti il mondo sarà condannato -, quanto per un motivo positivo: per il dono infinito che Gesù rappresenta per ogni essere umano. Il dialogo interreligioso non si oppone all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile. Tale dialogo – ha scritto san Giovanni Paolo II, nella Redemptoris missio – “fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”.
Il mandato di Cristo: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15) e “ Fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19) conserva la sua perenne validità, ma va compreso nel suo contesto storico. Sono parole da riferire al momento in cui sono state scritte, quando “tutto il mondo” e “tutti i popoli” era un modo per dire che il messaggio di Gesù non era destinato solo a Israele, ma anche a tutto il resto del mondo. Esse sono sempre valide per tutti, ma per chi appartiene già a una religione, ci vuole rispetto, pazienza e amore. Lo aveva capito e messo in pratica Francesco d’Assisi. Egli prospettava due modi di andare verso “i Saraceni e gli altri infedeli”. Scrive nella Regola non bollata:
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore.
La sfida della scienza
Con questa apertura di cuore, torniamo ora a occuparci della nostra fede cristiana. La grande sfida che essa deve sostenere nella nostra epoca non viene tanto dalla filosofia, come nel passato, ma dalla scienza. È di qualche mese fa una notizia sensazionale. Un telescopio lanciato nello spazio il 25 Dicembre del 2021 e posizionato a un milione e mezzo di chilometri dalla terra, il 12 Luglio dell’anno in corso ha inviato delle immagini inedite dell’universo che hanno mandato in visibilio il mondo scientifico.
“Il nuovo telescopio –si leggeva nei notiziari – ha spalancato una nuova finestra sul cosmo, in grado di catapultarci indietro nel tempo, fino a poco dopo il Big Bang iniziale del mondo. È la visione più dettagliata dell’universo primordiale mai ottenuta. Rappresenta il primo assaggio di una nuova e rivoluzionaria astronomia che ci svelerà l’universo come non lo avevamo mai visto”.
Saremmo stolti e ingrati se non partecipassimo al giusto orgoglio dell’umanità per questa come per ogni altra scoperta scientifica. Se la fede – oltre che dall’ascolto – nasce, come è stato detto, dallo stupore, queste scoperte scientifiche non dovrebbero diminuire la possibilità di credere, ma accrescerla. Se vivesse oggi, il salmista canterebbe con ancora più slancio: “I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annuncia il firmamento” (Sal 19,2) e Francesco d’Assisi: “Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature”.
Dio ha voluto darci un segno tangibile della sua infinita grandezza con l’immensità dell’universo e un segno della sua “inafferrabilità” con la più piccola particella di materia che, anche una volta raggiunta – assicura la fisica – mantiene la sua “indeterminazione”. Il cosmo non si è fatto da solo. È la qualità dell’essere, non la quantità che decide; e la qualità del creato è di essere…creato! Miliardi di galassie, distanti miliardi di miliardi di anni luce non cambiano questa sua qualità.
Facciamo queste riflessioni su fede e scienza non per convincere gli scienziati non credenti (nessuno di loro è qui ad ascoltare o leggerà queste parole), ma per confermare noi credenti nella fede e non lasciarci turbare dal clamore delle voci contrarie. È lo stesso scopo per cui san Luca dice all’”illustre Teofilo” di aver scritto il suo Vangelo: “In modo che tu possa renderti conto – dice – della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1, 4).
Di fronte al dispiegarsi davanti ai nostri occhi delle dimensioni sconfinate dell’universo, l’atto di fede maggiore per noi cristiani non è di credere che tutto questo è stato creato da Dio, ma di credere che “tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di lui” (Col 1,16), che “senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1, 3). Il cristiano ha una prova su Dio ben più convincente di quella desunta dal cosmo: la persona e la vita di Gesú Cristo.
I credenti non sono degli struzzi. Non nascondiamo il capo nella sabbia per non vedere. Condividiamo con ogni persona lo sconcerto davanti ai tanti misteri e contraddizioni dell’universo: dell’evoluzione naturale, della storia, della stessa Bibbia… Siamo però in grado di superare lo sconcerto con una certezza più forte di tutte le incertezze: la credibilità della persona di Cristo, della sua vita e della sua parola. La certezza piena e gioiosa non si ha prima, ma dopo aver creduto. Diversamente la fede perderebbe il suo pregio e il suo merito.
Il giusto vive per la fede
La fede è il solo criterio capace di farci rapportare in modo giusto, non solo alla scienza, ma anche alla storia. Nel parlare della fede che giustifica, san Paolo cita il famoso oracolo di Abacuc: “Il giusto vivrà per la fede” (Ab 2, 4). Che cosa vuole dire Dio con quella parola profetica, dal momento che è Dio in persona che la pronuncia?
Il messaggio si apre con un lamento del profeta, per la disfatta della giustizia e perché Dio sembra assistere impassibile dall’alto dei cieli alla violenza e all’oppressione. Dio risponde che tutto ciò sta per finire perché arriverà presto un nuovo flagello – i Caldei – che spazzerà via tutto e tutti. Il profeta si ribella a questa soluzione. È questa la risposta di Dio? Un’oppressione che si sostituisce ad un’altra?
Ma proprio qui Dio aspettava il profeta. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2, 2-4). Al profeta è chiesto il salto della fede. Dio non scioglie l’enigma della storia, ma chiede di fidarsi di lui e della sua giustizia, nonostante tutto. La soluzione non sta nella cessazione della prova, ma nell’aumento della fede.
La storia è una continua lotta tra bene e male, di empi che trionfano e di giusti che soffrono. La vittoria stabile del bene sul male non è da ricercare nella storia stessa, ma al di là di essa. Lasciamoci alle spalle ogni forma di millenarismo. Tuttavia, Dio è talmente sovrano e in controllo degli eventi che fa servire ai suoi piani misteriosi anche l’agitarsi degli empi. È vero: Dio scrive diritto per linee storte! Le situazioni possono sfuggire di mano agli uomini, ma non a Dio.
Il messaggio di Abacuc è di una singolare attualità. L’umanità ha vissuto negli ultimi anni del secolo scorso la liberazione dal potere oppressore dei sistemi totalitari comunisti. Ma non abbiamo avuto il tempo di tirare un respiro di sollievo che altre ingiustizie e violenze sono sorte nel mondo. C’è stato chi, alla fine della “guerra fredda”, aveva ingenuamente creduto che il trionfo della democrazia avrebbe, ormai, chiuso definitivamente il ciclo dei grandi sconvolgimenti e che la storia avrebbe proseguito il suo corso senza più grandi scosse. Appunto senza più “storia”. Una tale tesi fu, ben presto, pietosamente smentita dagli eventi, con la comparsa di altre dittature e lo scoppio di altre guerre, a cominciare da quella “del Golfo”, fino a quella sciagurata di quest’anno in Ucraina.
In questa situazione, anche in noi si affaccia la domanda accorata del profeta: “Signore, fino a quando? Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male! Come mai tanta violenza, tanti corpi umani scheletriti dalla fame, tanta crudeltà nel mondo, senza che tu intervenga?” La risposta di Dio è ancora la stessa: soccombe al pessimismo e si scandalizza chi non ha il cuore radicato in Dio, mentre il giusto vivrà di fede, troverà la risposta nella sua fede. Capirà cosa voleva dire Gesú quando, davanti a Pilato, disse: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).
Mettiamocelo, però, bene in testa e ricordiamolo, all’occorrenza, al mondo: Dio è giusto e santo; non permetterà che il male abbia l’ultima parola e i malfattori la facciano franca. Ci sarà un giudizio alla conclusione della storia, “un libro scritto verrà aperto, in cui tutto è contenuto e in base al quale il mondo sarà giudicato”: Liber scriptus proferetur – in quo totum continetur – unde mundus judicetur” .
Un primo giudizio – imperfetto ma sotto gli occhi di tutti, credenti e non credenti – è in atto già ora, nella storia. I benefattori dell’umanità che hanno operato per il progresso del loro paese e per la pace nel mondo sono ricordati con onore e benedizione di generazione in generazione; il nome dei tiranni e dei malfattori continua nei secoli ad essere accompagnato da disprezzo e riprovazione. Gesú ha rovesciato per sempre i ruoli. “Vincitore perché vittima”: così Agostino definisce Cristo: Victor quia victima. Alla luce dell’eternità –ma anche spesso della storia – non sono i carnefici i veri vincitori, ma le loro vittime.
Quello che la Chiesa può fare, per non assistere passivamente allo svolgersi della storia, è schierarsi contro l’oppressione e la prepotenza, mettersi sempre, “a tempo e fuori tempo”, dalla parte dei poveri, dei deboli, delle vittime, di quelli che portano il peso maggiore di ogni sventura e di ogni guerra.
Quello che può fare è anche rimuovere uno degli fattori che sempre ha fomentato i conflitti e cioè la rivalità tra le religioni, le famigerate “guerre di religione”. Dall’intesa e dalla collaborazione leale tra le grandi religioni può venire una spinta morale che imprima alla storia quel nuovo corso che invano si attende dai poteri politici. In questo senso va vista l’utilità di iniziative come quelle, avviate da san Giovanni Paolo II e accelerate oggi da papa Francesco, per un dialogo costruttivo tra le religioni.
La fede è l’arma della Chiesa. Anche la Chiesa, come il giusto di Abacuc, “vive per la sua fede”. Roma ha cessato da tempo di essere caput mundi, ma deve rimanere caput fidei, capitale della fede. Non solo dell’ortodossia della fede, ma anche dell’intensità e della radicalità del credere. Ciò che i fedeli colgono immedia¬tamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “, se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Oggi si fa molto uso della trasmissione senza fili (WiFi, si dice in Inglese). Anche la fede si trasmette di preferenza così: senza fili, senza tante parole e ragionamenti, ma per una corrente di grazia che si stabilisce tra due spiriti.
L’atto di fede più grande che la Chiesa può fare – dopo aver pregato e fatto il possibile per evitare o far cessare i conflitti – è di rimettersi a Dio con un atto di totale fiducia e sereno abbandono, ripetendo con l’Apostolo: “So in chi ho posto la mia fiducia!”: Scio cui credidi (2 Tim 1,12). Dio non si tira mai indietro per far cadere nel vuoto chi si getta tra le sue braccia.
Andiamo dunque incontro a Cristo che viene, con un atto di fede che è anche una promessa di Dio e dunque una profezia: “Il mondo è nelle mani di Dio e quando, abusando della sua libertà, l’uomo avrà toccato il fondo, lui interverrà a salvarlo”. Sì, interverrà a salvarlo! Per questo infatti è venuto al mondo, duemila e ventidue anni fa.