«La cappella Sainte-Gudule venduta? E per di più a un arabo? Mai permetterò che ciò accada!». Questa frase non è stata pronunciata in un comizio, ma è presente in un romanzo satirico che, proprio perché spinge i toni, mette a nudo un meccanismo reale: quando il richiamo alle “radici cristiane” smette di essere memoria viva e diventa bandiera, la fede si riduce a identità culturale; e l’identità, quando ha paura, si costruisce un nemico.

In un capitolo, significativamente intitolato Le radici cristiane, Jean Mercier piazza la scena in una periferia qualunque, attorno a una cappella chiusa da anni, brutta e decadente, venduta dagli eredi “senza tener conto del carattere sacro dell’edificio”. L’acquirente, Toufik Abdelnour, marocchino da vent’anni nella zona, la compra per un progetto prosaico: demolire e costruire una casa. È l’innesco che fa scattare Enguerrand Guerre, quarantenne militante, pronto a trasformare una questione urbanistica e patrimoniale in un fronte di “guerra culturale”.

Guerre non vive lì: abita a un centinaio di chilometri, ma si aggrappa alla tonaca come a un’ultima leva per imporre la propria battaglia. Inonda di lettere il vescovo, poi il parroco, con una retorica che suona nobile e ineccepibile: «Onoriamo le radici cristiane…», «Opponiamoci alla distruzione del nostro patrimonio», «testimoniare i nostri valori», fino alla promessa morale di “un punto di riferimento spirituale” in un mondo relativista. Il parroco, don Beniamino Bucquoy, dopo un anno di carta straccia, coglie la contraddizione: non è un amore per Cristo, è una nostalgia di civiltà travestita da devozione. «Ancora uno di quei cattolici che pare non ravvisino la cristianità se non sotto il profilo della storia della civiltà…».

Quando “valori” significa “tribù”: il salto dalla tutela al sospetto

Qui, il romanzo Il signor parroco ha dato di matto”, fa una cosa interessante: non demonizza il tema delle radici in sé. Custodire luoghi, simboli, memoria è un compito serio. Ma mostra come, scollegata dalla vita cristiana, la parola “cristiano” diventi un aggettivo di appartenenza, non un nome di fede. Guerre trova i suoi sostenitori non tra i praticanti, ma tra battezzati “di ritorno” solo per i funerali; in loro cresce «la paura dell’altro e dello straniero», fino a una «cultura cattolica di rifugio» sotto l’insegna della «difesa dei valori della nostra civiltà plurisecolare». Ed ecco la linea rossa: la paura, per reggere, ha bisogno di un allarme permanente. Così l’ultima lettera “fa un passo avanti” e introduce la “crociata”: secondo fonti «sicure» (ma non verificabili), la cappella verrebbe demolita per essere trasformata in moschea. Bucquoy, indignato, chiama le cose con il loro nome: «È una calunnia bell’e buona». Verifica, ricostruisce, conclude: «La storia della moschea è una colossale bugia, volta a sollevare un polverone». Il punto, però, non è che la bugia venga smascherata. È che la bugia “funzioni” comunque.

La fabbrica della rabbia: numeri, social, “guerra lampo”

Mercier anticipa con precisione quasi chirurgica la dinamica che oggi vediamo quotidianamente: quando la realtà è lenta e complessa, la propaganda è rapida e semplice. In 24 ore Guerre contatta un sito dal nome già programmatico - La vera informazione davvero cattolica - “molto efficace in fatto di guerra lampo dei numeri”. Il sito sforna articolo e petizione contro il parroco; in fondo compaiono quasi quattrocento firme raccolte online “alla velocità del lampo”, da persone “ignoranti della situazione sul campo”. In questa sequenza c’è una diagnosi che merita di essere portata fuori dal romanzo: la militanza identitaria non ha bisogno della verità; ha bisogno di adesioni. La verità, al massimo, è un dettaglio negoziabile. È qui che il tema “radici cristiane” diventa ecclesiale, non sociologico. Perché la calunnia non è soltanto una scorrettezza: è una ferita morale che disintegra la comunione. Il Catechismo è netto: la calunnia “con affermazioni contrarie alla verità, nuoce alla reputazione” e dà occasione a giudizi erronei; e calunnie e maldicenze “distruggono la reputazione e l’onore del prossimo”.

Il criterio dimenticato: il cristianesimo non nasce dalla paura, ma dall’incontro

Se l’identità diventa un rifugio, la fede diventa un accessorio. E allora vale la pena rimettere sul tavolo un criterio elementare, che Benedetto XVI ha formulato in modo definitivo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona». In Mercier questo criterio si vede “in negativo”: il personaggio che urla più forte “radici cristiane” non produce conversione, non genera misericordia, non custodisce la verità. Produce un nemico e una campagna. La differenza non è tra conservatori e progressisti, né tra “pro-Chiesa” e “anti-Chiesa”: la differenza è tra chi cerca Cristo e chi usa Cristo (o la sua ombra culturale) per legittimare un risentimento. Papa Francesco, in un passaggio che descrive perfettamente molte mobilitazioni pseudo-religiose, parlava di una mondanità che “si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa” e finisce per cercare “gloria umana e benessere personale” invece della gloria di Dio. C’è un modo semplice per distinguere memoria da bandiera: la memoria apre, la bandiera esclude. Dove manca Cristo, restano solo “valori” in allarme e indignazioni pronte all’uso.

p.P.B.
Silere non possum