Colombo – «La nostra vita non è un caso. È parte di un disegno. Se aderiamo con fede a quel disegno, anche le persone che incontriamo e le scelte che compiamo saranno strumenti di santificazione». In una Cattedrale di Santa Lucia gremita di fedeli, sacerdoti e religiosi, si è celebrata questa mattina la Santa Messa per il 50° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Sua Eminenza il Cardinale Malcolm Ranjith. Un’occasione non solo solenne, ma profondamente personale, nel quale l’Arcivescovo metropolita di Colombo ha condiviso con sobrietà e intensità le tappe, le ferite e le grazie di un cammino che, come ha detto lui stesso, “non ho scelto io, ma che Dio ha scelto per me”.
“Mi sono steso a terra, ignaro del futuro”
L’omelia, pronunciata interamente in lingua singalese, ha ripercorso il giorno dell’ordinazione, il 29 giugno 1975, quando — insieme ad altri 358 candidati — venne ordinato presbitero da san Paolo VI nella Basilica di San Pietro. “Mi stesi a terra durante le Litanie dei Santi senza sapere cosa Dio avrebbe voluto da me. I miei genitori non poterono essere presenti. Io non avevo soldi. Ma Dio aveva un piano”, ha ricordato. Un piano che, come per Abramo, ha significato “partire senza sapere dove andare”. La Lettera agli Ebrei ha fatto da filo conduttore: un cammino nella fede, tra le oscurità del discernimento e le luci dell’obbedienza.
Il sì di Maria, la fedeltà di Cristo
Tra le parole più forti, l’invito a rileggere la propria vita come vocazione alla santità, nonostante le lotte interiori, le prove e gli smarrimenti. “Il cammino cristiano è una lotta permanente. Il demonio non è un’idea: è reale, e cerca di distrarci dal disegno di Dio”, ha affermato con franchezza. Ranjith ha evocato il “sì” di Maria e la preghiera di Gesù nel Getsemani per sottolineare che la vera obbedienza è spesso dolorosa, ma è proprio lì che si trova la gioia piena: “Padre, non sia fatta la mia volontà, ma la tua”.
Le tappe di un servizio ecclesiale fuori dagli schemi
Classe 1947, primogenito di una famiglia cattolica con quattordici figli, il cardinale Ranjith è stato ordinato sacerdote a Roma dopo aver studiato presso la Pontificia Università Urbaniana. Teologo di solida formazione, con una licenza in Sacra Scrittura ottenuta sotto la guida di figure come Albert Vanhoye e Carlo Maria Martini, è conosciuto come poliglotta (parla almeno dieci lingue) e come uno dei più fermi sostenitori della tradizione liturgica romana. Dalla sua ordinazione in poi, la sua vita ha conosciuto numerosi incarichi, spesso inattesi: parroco in villaggi di pescatori poveri, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie, vescovo ausiliare di Colombo, vescovo di Ratnapura, poi arcivescovo, nunzio apostolico in Indonesia e Timor Est. E infine, a più riprese, con incarichi nella Curia romana. “Ogni tre anni, un trasferimento. Ogni volta, un inizio. Ma in ogni luogo, ho incontrato la guida di Dio”, ha confidato oggi con voce commossa.
Liturgia, giustizia e persecuzione
Chi conosce il cardinal Ranjith sa che la sua visione ecclesiale è intransigente sul piano liturgico e profetica sul piano sociale. Nei suoi anni di ministero, ha rilanciato la Messa tradizionale, ha criticato l’eccessiva secolarizzazione della liturgia post-conciliare e, al contempo, ha denunciato con forza le ingiustizie nel suo Paese, anche pagando con l’isolamento e con il peso di attacchi interni. Nel 2019, fu voce solitaria e scomoda in difesa delle vittime degli attentati di Pasqua, non esitando a puntare il dito contro l’inerzia dello Stato e il disinteresse della comunità internazionale.
“Chiedo preghiere, non onori”
Alla fine della celebrazione, visibilmente commosso, ha chiesto di pregare per lui, perché “nonostante la mia fragilità, Dio possa continuare a servirsene per la sua gloria”. Un discorso che non cerca l’applauso, ma che si conclude con l’unico riconoscimento che ha senso: “A Lui sia lode e onore per sempre”.
Al termine della Santa Messa, il Reverendo Mons. Roberto Lucchini, incaricato d'affari della Nunziatura Apostolica in Sri Lanka, ha dato lettura del messaggio di Sua Santità Leone XIV.
f.T.A.
Silere non possum