Città del Vaticano - La vicenda giudiziaria che ha scosso gli equilibri della Santa Sede negli ultimi anni si chiude con un passaggio destinato a lasciare il segno. La Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dal Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi.
Si tratta di una decisione che ha davvero dell’incredibile e che restituisce un’immagine limpida della Corte d’Appello. Non è guidata da uomini improvvisati, privi di familiarità con il codice di procedura penale vaticano o con il diritto canonico – come accadde con Giuseppe Pignatone, che oggi deve rispondere di gravi accuse legate all’evasione fiscale e a presunti legami con la criminalità organizzata in Sicilia. La Corte d’Appello, presieduta da un vescovo, ha messo nero su bianco ciò che Silere non possum denuncia da anni: Alessandro Diddi non ha alcuna padronanza del diritto vaticano. Nel suo curriculum non c’è traccia di studi in materia e la sua condotta processuale, negli ultimi anni, lo ha dimostrato chiaramente. La decisione odierna sancisce che Diddi non conosce nemmeno i termini e le modalità per proporre appello davanti alla Corte.
Ora, proviamo a uscire dall’ovatta vaticana e immaginiamo uno scenario simile in Italia o in qualunque altro Paese. Un errore di procedura così grave in un processo di questa portata sarebbe stato ritenuto imperdonabile: gli organi di autogoverno della magistratura sarebbero immediatamente intervenuti. In Vaticano, invece, Diddi non sente nemmeno il dovere di rassegnare le dimissioni. Eppure, stiamo parlando del processo più rilevante che lo Stato della Città del Vaticano abbia affrontato dalla sua nascita. Un processo che i giornali, anche i media vaticani, hanno contribuito a spettacolarizzare, definendolo addirittura “il processo del secolo”. E oggi, gran parte di quel castello cade per un errore procedurale.
Il paradosso è che coloro che sono stati assolti – sacerdoti funzionari che hanno servito la Santa Sede con dedizione, senza aver mai commesso alcun crimine – non avevano bisogno di un “cavillo” per dimostrare la loro innocenza: lo avevano già fatto in primo grado e lo avrebbero fatto in secondo. Quello che fa più male, ora, è vedere ridotta a un tecnicismo la fine di un percorso che ha infangato la vita di persone integre, gettandole in un vortice di sospetti e insinuazioni. Un vortice alimentato da chi ha trasformato il Vaticano in un far west, senza alcun rispetto per la figura sacerdotale.
Oggi, la conclusione che resta è amara: un processo definito “storico” dai sostenitori del promotore di giustizia e dai media vicini a Papa Francesco si rivela per ciò che era fin dall’inizio – un fragile castello di carte, costruito da chi in Italia si esercita a difendere gli indifendibili e in Vaticano si atteggia a giustiziere.
Cosa significa tutto questo?
La decisione della Corte d’Appello segna un punto di svolta storico e ridisegna l’intero processo. Alcuni imputati erano stati condannati per determinati reati e assolti per altri, altri ancora avevano riportato soltanto condanne o, al contrario, erano stati completamente assolti. Con il pronunciamento di oggi, tutte le assoluzioni emesse dal Tribunale vaticano divengono definitive e non più contestabili. Non si tratta di un mero aspetto formale, ma di una questione che tocca la sostanza stessa del procedimento: le formule assolutorie adottate – “il fatto non sussiste”, “per non aver commesso il fatto”, “il fatto non costituisce reato”, o ancora l’assoluzione per difetto di querela – acquistano valore irrevocabile, chiudendo ogni possibilità di revisione.
Chi sono gli assolti e da cosa
Il quadro è ampio e differenziato, perché in questo procedimento – che ha visto sul banco degli imputati un cardinale, un sacerdote, funzionari e consulenti laici – non tutti hanno conosciuto la stessa sorte. Alcuni sono stati condannati per capi specifici, ma hanno riportato assoluzioni su altre imputazioni:
S.E.R. il Sig. Card. Giovanni Angelo Becciu: assolto dall’accusa di subornazione e da alcune ipotesi di abuso d’ufficio e peculato, con la formula “il fatto non sussiste”.
Rev.do Mons. Mauro Carlino: assolto da tutti i reati contestati.
Fabrizio Tirabassi: assolto da truffa, corruzione e peculato in più capi, per insufficienza di prove o perché il fatto non sussiste.
Tommaso Di Ruzza: assolto da più imputazioni di abuso d’ufficio e dalla rivelazione di segreto d’ufficio.
René Brülhart: assolto dalle accuse di abuso d’ufficio in alcuni capi.
Enrico Crasso: assolto da varie imputazioni di truffa e peculato (“il fatto non sussiste”), da estorsione (“per non aver commesso il fatto”) e da corruzione tra privati per intervenuta prescrizione.
Gianluigi Torzi: assolto da appropriazione indebita (difetto di querela) e da peculato (“il fatto non sussiste”).
Nicola Squillace: assolto da riciclaggio (“il fatto non costituisce reato”), da autoriciclaggio (“il fatto non sussiste”) e da appropriazione indebita (difetto di querela).
Raffaele Mincione: assolto da truffa e peculato (“il fatto non sussiste”), oltre che da appropriazione indebita per difetto di querela.
Le persone giuridiche imputate (Prestige Family Office, Sogenel Capital Investment, HP Finance) sono state assolte perché “il fatto non sussiste”.
Un mosaico complesso
Il quadro che emerge è quello di un mosaico complesso: accanto ad alcune condanne, vi è una lunga sequenza di assoluzioni. E non si tratta di dettagli marginali. Le formule più nette – “il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” – restituiscono agli imputati una piena estraneità rispetto alle accuse. Altre, come “il fatto non costituisce reato”, indicano invece che la condotta, pur verificata, non aveva alcun rilievo penale. È qui che si conferma il problema cardine di questo procedimento penale: il Promotore di Giustizia e la stessa Gendarmeria Vaticana hanno spinto l’azione fino a violare la sacralità del Palazzo Apostolico per compiere attività investigative che, alla fine, hanno portato alla luce fatti privi di qualsiasi rilevanza giuridica. La loro inesperienza, trasformata in falso zelo, li ha condotti persino a contestare condotte che non avrebbero mai potuto configurare un reato.
Il castello che “resta in piedi”
Con la dichiarazione di inammissibilità dell’appello sulle assoluzioni, la mappa processuale si è radicalmente ridotta: la Corte d’Appello non dovrà più tornare su quelle imputazioni ormai coperte dal giudicato, ma sarà chiamata a pronunciarsi soltanto sui reati per i quali il Tribunale ha già emesso condanna, in molti casi peraltro con vera e propria assenza di prove. Restano quindi sul tavolo le accuse di peculato e truffa aggravata che hanno coinvolto il cardinale Giovanni Angelo Becciu; le ipotesi di truffa, riciclaggio e autoriciclaggio legate alle operazioni finanziarie di Raffaele Mincione; l’estorsione e il successivo autoriciclaggio contestati a Gianluigi Torzi; le condanne per corruzione, peculato e riciclaggio nei confronti di Fabrizio Tirabassi ed Enrico Crasso; la truffa aggravata a carico di Cecilia Marogna; e infine i profili di omessa denuncia che hanno interessato René Brülhart e Tommaso Di Ruzza, insieme alla truffa aggravata contestata all’avvocato Nicola Squillace.
Saranno dunque questi i nodi che la Corte d’Appello dovrà sciogliere, mentre la posizione degli altri imputati, e le assoluzioni parziali degli stessi condannati, non potranno più essere rimesse in discussione.
Una lezione sul piano istituzionale
Non si può che accogliere con sollievo una decisione che restituisce finalmente dignità e libertà a persone che hanno servito per anni la Santa Sede e il Papa, ritrovandosi poi trascinate in accuse rivelatesi false e prive di fondamento. Ma resta una domanda inevitabile: quanto danno ha arrecato alla Santa Sede e alla Chiesa questo circo mediatico? Una vicenda che ha esposto documenti riservati, travisati e manipolati davanti all’opinione pubblica mondiale, mettendo sotto i riflettori questioni delicate che riguardano direttamente il Papa e i suoi collaboratori. Accuse che si erano già dimostrate inconsistenti e che ora, una dopo l’altra, vengono definitivamente smontate dalle sentenze. Nel frattempo, però, hanno gettato ombra su un’intera istituzione. Non resta che attendere il verdetto di un giudice giusto — che, per fortuna, questa volta non occorre andare a cercare a Berlino.
Tutto ciò che è emerso negli ultimi mesi conferma quello che denunciavamo da tempo: questa bagarre è stata pianificata e orchestrata da una donna repressa, ossessionata da un odio spasmodico verso colui che ritiene responsabile della sua cacciata dal Vaticano, e da un avvocato assetato di notorietà, ansioso di comparire sui giornali come il grande fustigatore. Ma non basta: l’intera vicenda è stata resa possibile dall’operato truffaldino e illegale di alcuni membri degli organi di polizia di questo Stato, che da anni praticano dossieraggi, intercettazioni abusive e pedinamenti su cardinali, vescovi, sacerdoti e laici. Un’attività costruita non per cercare la verità, ma per colpire, screditare e manipolare.
Se tutto questo poteva servire agli interessi di un uomo ottantenne, gravato da pregiudizi e deciso a liberarsi dei propri avversari per governare in modo dispotico, non può certo avere spazio in un procedimento penale serio. Perché nei tribunali non si giudicano le intenzioni né le antipatie personali: lì si accertano solo fatti e si condannano reati. Negli ultimi dodici anni, invece, abbiamo assistito a un regime di polizia, fatto di processi sommari ed epurazioni mediatiche. Oggi, forse, iniziamo finalmente a intravedere il trionfo della verità.
d.S.A. e L.M
Silere non possum