Helsinki - Negli ultimi anni, l’odio online non solo è aumentato in quantità, ma ha assunto forme sempre più complesse e radicate nella cultura digitale. Il libro Violence and Trolling on Social Media lo definisce come “un insieme di atti comunicativi violenti o tossici, capaci di colpire e ferire individui o gruppi”. Non si tratta soltanto di insulti isolati, ma di veri e propri fenomeni collettivi, sostenuti da dinamiche psicologiche, algoritmiche e politiche.
Perché l’odio cresce sui social?
Gli autori spiegano che la stessa architettura delle piattaforme contribuisce a favorire il conflitto. «La brevità dei messaggi, la possibilità di commentare e di condividere amplifica la logica della fazione e della contrapposizione più che quella del dialogo» . Il risultato è che anche interazioni che potrebbero essere civili, finiscono per trasformarsi in una sorta di “rissa da cortile digitale”. Inoltre, l’odio prospera grazie a due dinamiche tipiche dei social media:
La de-individuazione, ossia il senso di anonimato che porta a perdere inibizioni: si colpisce senza sentirsi davvero responsabili.
Il rafforzamento del gruppo passa spesso attraverso l’insulto, che diventa strumento di appartenenza. «La funzione di molti commenti non è tanto comprendere l’altro, quanto mostrare la propria arguzia e consolidare l’“ingroup”». In un contesto come quello ecclesiale, questa dinamica trova terreno fertile: appartenenza al presbiterio, appartenenza al fronte tradizionalista, al fronte modernista, oppure al gruppo di coloro che coltivano e alimentano l’odio contro una realtà, una pagina, un individuo.
Questa dinamica è stata notata in particolare nei movimenti populisti contemporanei. «Attribuire l’odio online solo alla misoginia è riduttivo», scrive Greta Olson nel capitolo Love and Hate Online: «la vera carica affettiva nasce dal sentirsi parte di una battaglia collettiva per una causa comune».
Il paradosso della tolleranza
Karl Popper, ne La società aperta e i suoi nemici, enuncia quello che chiama il paradosso della tolleranza: «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi». Per questo – aggiunge – «dovremmo proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti», arrivando persino a considerare l’incitamento alla violenza o alla persecuzione come un crimine. Tuttavia, Popper mette in guardia: la repressione deve essere sempre l’extrema ratio. Finché le idee intolleranti possono essere contrastate con la forza della ragione e del dibattito pubblico, esse devono essere tollerate.
Il punto critico, oggi come allora, è capire chi decide chi sia davvero “intollerante”. Il rischio è che questa parola diventi un’arma, un’etichetta per mettere a tacere chi esprime opinioni scomode. Quante volte termini come “estremista”, “fascista” o “comunista” vengono usati non per descrivere un reale atteggiamento di odio o violenza, ma per screditare e zittire? Quando, nel 2000, la stampa attaccò la dichiarazione Dominus Iesus, il cardinale Joseph Ratzinger rispose con lucidità: «Definire estremista il documento significa dire: “io non parlo con te”». È esattamente questo il punto: l’etichetta diventa il modo per interrompere il dialogo.
Oggi quella dinamica si è radicalmente amplificata. Non è vero che “è sempre stato così”: i social media hanno dato un motore ai punti di vista più aberranti, scavando nelle debolezze umane, nella vanità e nel desiderio di affermazione di sé. Hanno offerto una vetrina a chi trasforma la rabbia in identità, a chi crede che il mondo migliori moltiplicando il risentimento, a chi è del tutto disinteressato a costruire soluzioni che non siano l’abbattimento del “nemico”. In questo meccanismo, anche chi vuole soltanto “avere un’opinione” finisce sedotto dal bisogno di apparire, magari con un commento più tagliente, più visibile, più virale.
Effetti psicologici ed emotivi
Il libro Violence and Trolling on Social Media sottolinea che l’odio non produce solo conseguenze “razionali”, come la disinformazione, ma soprattutto effetti emotivi e corporei. «Le emozioni online si diffondono per contagio, generando stati d’animo condivisi anche senza contatto diretto». Non a caso, Olson osserva che dobbiamo abbandonare l’idea che il contrasto all’odio si giochi solo sul terreno degli argomenti razionali: la lotta riguarda anche la sfera emotiva.
Il volume non si limita a diagnosticare il problema, ma richiama alcune strategie concrete:
Contro-narrazione e contro-discorso: in Germania, gruppi di cittadini hanno reagito all’odio sui rifugiati rispondendo direttamente ai commenti razzisti con informazioni, ironia e messaggi alternativi.
Iniziative collettive: campagne come “Hass Hilft” (“l’odio aiuta”) hanno trasformato i commenti d’odio in donazioni a favore delle vittime, ribaltando il senso dell’aggressione.
Autocura e resilienza: gli autori invitano anche a considerare il benessere psichico di chi è colpito. «Prendersi cura di sé, limitare l’esposizione e sviluppare strategie di difesa emotiva è parte integrante della lotta all’odio online».
Eppure, come ammonisce una voce lucida in mezzo al frastuono digitale:
«Il miglior consiglio che posso darti è: spegni tutto, ignora tutto.
Rifiutati di giocare al gioco delle astrazioni. Respingi la tentazione di staccarti dal concreto per allargarti a grandi temi sui social, sulle armi, sulla violenza politica o su “cosa significa tutto questo”… Non serve a nulla, anzi, è peggio che inutile. Non stai facendo avanzare la tua causa. Non stai convincendo nessuno. Stai solo peggiorando le cose. Per favore, smetti di parlare. Esci di casa. Spegni il telefono. Resisti all’impulso di trasformare l’omicidio di un uomo in una gara per stabilire di chi sia la colpa. Giocare significa perdere».
C’è una verità profonda in queste parole: la lotta contro l’intolleranza non può trasformarsi in un gioco di supremazia morale. Ogni volta che un post, un tweet o una storia servono solo a dividere, a provocare, a esibire una posizione, la società aperta perde un frammento di sé. Rifiutare le astrazioni non significa ritirarsi o rinunciare alla responsabilità. Significa, piuttosto, riconoscere che ogni cambiamento autentico nasce da una verità semplice e concreta: tu sei il mio vicino. È da lì che si costruisce la convivenza, non dall’arena virtuale dove ogni opinione diventa una miccia.
Ecco allora la vera sfida del paradosso di Popper nel tempo dei social: difendere la tolleranza senza cedere alla logica dell’intolleranza travestita da indignazione, proteggere il dialogo senza ridurlo a slogan, e ricordare, ogni volta che stiamo per scrivere qualcosa, che non stiamo combattendo un nemico, ma cercando di restare umani.
Una sfida culturale
Il libro Violence and Trolling on Social Media, infine, ci ricorda che l’odio online non è un incidente temporaneo, ma una manifestazione di più ampie tensioni culturali e politiche. È lo specchio di un mondo dove la polarizzazione, la ricerca di appartenenza e la logica dello scontro prevalgono sul confronto aperto. Contrastarlo significa, quindi, non solo rafforzare le regole e la moderazione delle piattaforme, ma soprattutto lavorare sulle comunità, sui linguaggi e sulla cultura digitale condivisa.
Oskari Lehtonen
Silere non possum