Diocesi di Pistoia

Pistoia - Il 16 luglio 2025, il vescovo Fausto Tardelli ha presentato le proprie dimissioni dal governo pastorale delle diocesi di Pescia e Pistoia, affidategli in persona episcopi. Il 2 settembre 2025, la Nunziatura Apostolica in Italia ha comunicato che Papa Leone XIV ha accettato la rinuncia“ai sensi del canone 401 §1 del Codice di Diritto Canonico”, con la formula nunc pro tunc: accettazione immediata, ma efficacia differita fino alla nomina del successore.

La notizia è stata comunicata da mons. Fausto Tardelli nella mattinata di lunedì 20 ottobre 2025, precisando che la lettera della Nunziatura Apostolica gli è stata recapitata solo nei giorni scorsi, a causa di quello che ha definito «un disguido presso la Nunziatura Apostolica in Italia».

Un episodio che, purtroppo, non sorprende: da tempo, infatti, la Nunziatura si distingue più per le inerzie che per l’efficienza, anche nei casi in cui sarebbe suo dovere intervenire con fermezza in diocesi segnate da situazioni di grave disordine o scandalo, spesso lasciate colpevolmente senza guida o correzione.

La questione giuridica

Nella lettera, redatta dalla Nunziatura, però, vi è un evidente problema. Il canone 401 §1 del Codice di Diritto Canonico stabilisce che: «Il Vescovo diocesano che abbia compiuto i settantacinque anni di età è invitato a presentare la rinuncia all’ufficio al Sommo Pontefice, il quale provvederà, dopo aver valutato tutte le circostanze».
Mons. Tardelli, nato a Lucca il 5 gennaio 1951, compirà 75 anni nel gennaio 2026. Le sue dimissioni, dunque, non potevano ancora essere presentate ai sensi del §1, che riguarda esclusivamente la rinuncia per limiti di età.

La procedura seguita corrisponde piuttosto alla rinuncia volontaria anticipata, prevista dal canone 401 §2, secondo il quale: «Il Vescovo diocesano che, per infermità o altra grave causa, sia divenuto meno idoneo a svolgere il suo ufficio, è vivamente invitato a presentare la rinuncia». Tuttavia, nella comunicazione della Nunziatura si parla esplicitamente di “rinuncia ai sensi del §1”.

Chi è Mons. Fausto Tardelli

Nato a Lucca il 5 gennaio 1951, ordinato sacerdote nel 1974 da mons. Giuliano Agresti, Tardelli ha percorso un lungo cammino nella formazione e nel governo della Chiesa toscana. Laureato in teologia morale all’Accademia Alfonsiana, docente e formatore, è stato cancelliere, vicario generale, segretario del sinodo diocesano di Lucca e assistente dell’Azione Cattolica. Nel 2004, san Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di San Miniato, e nel 2014 Francesco lo ha trasferito a Pistoia, diocesi con circa 214.000 cattolici, 127 parrocchie e poco più di 130 sacerdoti. Nel 2023, lo stesso pontefice gli ha affidato anche Pescia, diocesi più piccola (circa 90.000 cattolici, 37 parrocchie e 43 preti) in persona episcopi, cioè con un unico vescovo per due diocesi distinte.

“Tre motivi per lasciare”

Nel comunicare la decisione, Tardelli ha indicato tre motivazioni.

Due di carattere personale:
L’età e la stanchezza. «Il carico pastorale è diventato pesante – ha spiegato – e l’unione in persona episcopi non ha aiutato, dovendo fare tutto doppio».
Le tensioni interne, in particolare quelle legate alla parrocchia di Vicofaro, hanno inciso profondamente. Lì, don Massimo Biancalani – più incline a interpretare il proprio ruolo in chiave socio-assistenziale che pastorale – ha esercitato una libertà d’azione che ha generato forti contrasti sia all’interno della comunità ecclesiale sia nei rapporti con le istituzioni civili. Una situazione complessa che lo stesso vescovo Tardelli non ha esitato a definire «un peso in più» nel suo ministero.

La terza ragione riguarda invece il bene delle diocesi: secondo Tardelli, l’attuazione del sinodo locale e universalerichiede nuove energie e dovrebbe essere affidata a un vescovo più giovane, capace di dare continuità e impulso al rinnovamento ecclesiale.

L'unione in persona episcopi

L’unione in persona episcopi, concepita come soluzione pratica al calo delle vocazioni e alla diminuzione delle risorse ecclesiali, si rivela in realtà un moltiplicatore di complessità. In questa forma di unione, è il Papa a disporre che un solo vescovo assuma la guida di due o più diocesi, le quali tuttavia rimangono giuridicamente distinte. Ciò comporta la coesistenza di due Curie, due Consigli presbiterali, due Capitoli cattedrali e, in generale, di tutte le strutture proprie di ciascuna diocesi.

Non si tratta, dunque, come nel caso dell’unione aeque principaliter, della nascita di una nuova diocesi unica frutto della fusione di più Chiese particolari, ma di una duplice (o plurima) amministrazione personale affidata allo stesso pastore. È proprio questa distinzione giuridica a rendere il governo di tali diocesi più gravoso e articolato, anziché semplificato. Nel caso di Tardelli, a Pistoia e Pescia, l’unione non ha prodotto la sinergia sperata, ma ha accentuato la frammentazione e la fatica di un pastore che si è trovato a guidare due comunità diverse senza poterle unificare realmente.

Il nodo Vicofaro

Il riferimento al caso di Vicofaro non è casuale. La parrocchia, guidata da don Massimo Biancalani, è divenuta negli anni un simbolo di accoglienza e di conflitto. Sotto la bandiera dell’ospitalità ai migranti, Biancalani ha spesso sfidato apertamente la linea del suo vescovo, agendo più come operatore sociale che come presbitero inserito in un corpo ecclesiale. La diocesi ne ha sofferto divisioni interne, e lo stesso Tardelli ha riconosciuto che “la vicenda è stata un peso”. In un tempo in cui il confine tra pastorale e attivismo politico si fa sempre più sottile, la questione di Vicofaro mostra quanto fragile possa diventare l’autorità episcopale quando non è sostenuta da una comunione reale.

Tardelli: «Lojudice la fa semplice»

Non meno significativa è stata la battuta di mons. Fausto Tardelli, che — forte del suo solido background in diritto canonico — ha commentato con lucidità una proposta avanzata da S.E.R. il cardinale Augusto Paolo Lojudice, presidente della Conferenza Episcopale Toscana.

Riferendosi a una conversazione intercorsa con l’Arcivescovo, Tardelli ha raccontato che Lojudice, attualmente metropolita di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino e insieme vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza, avrebbe ipotizzato la creazione di un Consiglio presbiterale “metà e metà”, composto cioè da sacerdoti per metà provenienti da Siena e per metà da Montepulciano. Un’idea che Tardelli ha accolto con ironia, commentando semplicemente: «Non credo che si possa fare, ma vabbè».

Una frase che, dietro la leggerezza del tono, riflette una consapevolezza giuridica profonda: quella dei limiti strutturali del diritto canonico rispetto a certe soluzioni “creative” che, pur animate da buone intenzioni pastorali, finiscono per contraddire la logica istituzionale della Chiesa. Il fatto che l’arcivescovo Lojudice affronti con tale superficialità questioni che toccano il cuore dell’ordinamento canonico desta preoccupazione, soprattutto alla luce del ruolo di rilievo che egli ricopre in Vaticano come Giudice della Corte di Cassazione.

Mons. Tardelli ha ragione. Il Consiglio presbiterale, definito dal can. 495 §1, è un “senato del vescovo”, formato da sacerdoti che rappresentano il presbiterio diocesano e lo coadiuvano nel governo della diocesi. Il can. 498 §1 specifica con chiarezza che ne fanno parte: «tutti i sacerdoti secolari incardinati nella diocesi» e, in casi particolari, «i sacerdoti non incardinati nella diocesi che, dimorando nella diocesi, esercitano in suo favore qualche ufficio».

Ne consegue che un presbitero appartenente a un’altra diocesi non può far parte del consiglio, poiché esso rappresenta il presbiterio di quella sola diocesi. Un consiglio “metà e metà” sarebbe quindi un organismo ibrido e irregolare, senza base canonica. È un punto che rivela la competenza giuridica e la lucidità di Tardelli, e che mostra come il diritto non sia un ostacolo, ma una garanzia di comunione ordinata.

Il confine tra norma e realtà

Le dimissioni di mons. Tardelli non sono un semplice atto amministrativo, ma il riflesso di una crisi sistemica. Un vescovo si trova a lasciare prima del tempo non per motivi particolari ma per esaurimento di equilibrio: quello personale, e quello istituzionale di un sistema che chiede troppo e ascolta poco. Il diritto, da solo, non basta a spiegare. Dietro ogni canone, c’è una persona; dietro ogni rinuncia, una storia di fatica ecclesiale. E forse, più che un segno di debolezza, quella di Tardelli è una lezione di onestà: sapere quando è tempo di fermarsi, per il bene della Chiesa e della propria coscienza.

d.M.G.
Silere non possum