Roma – Nella Basilica di Sant’Anselmo all’Aventino, Papa Leone XIV ha presieduto la Santa Messa nel 125° anniversario della dedicazione del tempio, fondato per volontà di Leone XIII come cuore della rinnovata presenza benedettina a Roma e nel mondo. La celebrazione, animata dai monaci con il canto gregoriano, ha offerto uno dei momenti più intensi di questi sei mesi di pontificato: una liturgia solenne ma essenziale, nella quale si è percepita quella familiarità del Papa con la spiritualità monastica che da tempo caratterizza la sua vita interiore e il suo magistero.

Durante la celebrazione lo si è visto più volte sorridere, quasi compiaciuto, segno evidente di una consonanza profonda con quel mondo che vive di silenzio, preghiera e sapienza liturgica. Erano presenti numerosi abati benedettini, giunti da diversi Paesi per concelebrare; tra loro Dom Geoffroy Kemlin OSB, Abate di Solesmes, figura giovane ma autorevole, il cui equilibrio e la cui fedeltà alla tradizione hanno ridato vita all’abbazia francese, la quale è un punto di riferimento per la liturgia cattolica. A Solesmes, infatti, i monaci celebrano secondo il Vetus Ordo – la forma tradizionale del rito romano – non come gesto ideologico, ma come espressione coerente della loro spiritualità contemplativa e del loro amore per la preghiera. L’abate Kemlin ha raggiunto Roma appositamente per concelebrare con il Pontefice, e questo gesto, discreto ma eloquente, dice molto più di molte dichiarazioni: testimonia che la comunione ecclesiale non nasce dall’uniformità, ma dalla fedeltà condivisa a Cristo e al mistero che si celebra.

Dopo la Santa Messa, Leone XIV si è intrattenuto con i monaci. Ha visitato la Badia Primaziale, ha ascoltato il racconto della loro vita quotidiana, ha espresso riconoscenza per la cura della liturgia e per la custodia del gregoriano, e – in un gesto che è insieme umano e teologico – ha chiesto loro di pregare per lui.

Leone: il monachesimo come cuore pulsante della Chiesa

Nella sua omelia, il Pontefice ha offerto una riflessione teologica di grande profondità, centrata sul senso ecclesiale del monachesimo e sul legame tra liturgia, contemplazione e missione. Partendo dal versetto evangelico «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18), Leone XIV ha riletto la storia stessa di Sant’Anselmo come parabola della Chiesa universale: una casa costruita sulla roccia, dove la preghiera diventa architettura e l’unità si fa pietra viva.

Il Papa ha ricordato che Leone XIII volle l’edificazione di Sant’Anselmo e del Collegio internazionale benedettino per rafforzare la presenza dell’Ordine nella Chiesa e per promuovere la comunione fra i monasteri, istituendo l’Ufficio dell’Abate Primate come segno visibile di questa unità. Allora come oggi, osserva Leone XIV, il monachesimo è una “realtà di frontiera”, capace di piantare “focolai di preghiera, lavoro e carità” anche nei luoghi più desolati, trasformando il deserto – materiale e spirituale – in terreno fertile.

“Il monastero si è sempre più caratterizzato come luogo di crescita, di pace, di ospitalità e di unità, anche nei periodi più bui della storia.”

Questa frase, pronunciata con tono fermo e grato, è la chiave dell’omelia: per il Papa, la vocazione monastica non è una reliquia del passato, ma una forma profetica di presenza nella Chiesa contemporanea, tanto più necessaria in tempi di disorientamento e dispersione. Leone XIV non nasconde le difficoltà del presente: parla di “cambiamenti repentini”, di sfide inedite che provocano la fede e interrogano le istituzioni ecclesiali. Ma proprio in questo contesto – spiega – la via monastica appare come una risposta sapienziale e necessaria: radicare la vita in Cristo, mettere Lui al centro, tradurre la fede in preghiera, studio e vita santa.

“Come Pietro, Benedetto e tanti altri, anche noi potremo rispondere alla vocazione ricevuta solo mettendo Cristo al centro della nostra esistenza e della nostra missione.”

L’omelia si apre poi a una prospettiva ecclesiale ampia: il Papa descrive Sant’Anselmo come un cuore pulsante del mondo benedettino, un luogo dove la liturgia, la lectio divina, la ricerca teologica e la vita comunitaria convergono in una sinergia viva, conforme all’insegnamento di san Benedetto, che nel Prologo della Regola definisce il monastero come una “scuola del servizio del Signore”.

La metafora del cuore che pompa la linfa vitale nel corpo – tratta dalla Prima lettera ai Corinzi – si intreccia con quella del fiume che sgorga dal Tempio nel profeta Ezechiele: immagini di comunione e di nutrimento reciproco, di Chiesa come organismo vivente. “In questo alveare operoso di Sant’Anselmo”, ha detto il Papa, “ogni cosa deve partire e tornare a Dio per trovare verifica e conferma”.

La sapienza della fede e il dono dell’umiltà

Un altro passaggio centrale del discorso riguarda la conoscenza dei misteri divini: Leone XIV cita san Giovanni Paolo II, che nel 1986, visitando l’Ateneo, ricordò che la teologia non è conquista del genio umano, ma dono di Dio agli umili. Il Papa riprende questa intuizione, inserendola in una visione in cui l’intelligenza della fede nasce dall’ascolto e dall’adorazione, non dall’erudizione fine a sé stessa. È un messaggio che suona come una risposta discreta ma chiara a una certa cultura ecclesiale che rischia di smarrire il senso contemplativo della teologia.

La dedicazione di una chiesa, ha aggiunto il Pontefice, è “porta aperta verso l’eterno”, luogo in cui si incontrano “spazio e tempo, finito e infinito, uomo e Dio”. Qui Leone XIV cita Evangelii gaudium, ma lo fa in modo originale: non per ripetere un lessico, bensì per indicare la tensione tra limite e pienezza che attraversa la vita monastica. È in questa tensione, dice, che l’uomo ritrova sé stesso. Richiamandosi infine alla Sacrosanctum Concilium, il Papa rilegge la Chiesa nella sua doppia dimensione – “umana e divina, visibile e invisibile, attiva e contemplativa” – sottolineando che ciò che è umano deve essere “ordinato e subordinato al divino”. È qui, forse, il nucleo più alto del pensiero di Leone XIV: una teologia dell’armonia, non della contrapposizione.

Un messaggio per la Chiesa e per il mondo

In chiusura, il Papa richiama il celebre passo di san Pietro: “Siamo popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di Lui”. Il monastero – afferma – deve essere segno di questa luce che attraversa le tenebre, luogo dove si sperimenta la bellezza di condividere ciò che si è ricevuto gratuitamente. È un monito e una speranza insieme: che il monachesimo, anche oggi, possa essere luce nel mondo, radice di pace, grembo di cultura, luogo di discernimento e di libertà.

Nella penombra austera della Basilica, mentre il canto gregoriano saliva come respiro millenario, si è avuto il senso di una Chiesa che ritrova la propria sorgente: non nei numeri, non nelle strategie, non nella retorica delle porte aperte, ma in quell’“atto di fede che riconosce in Cristo il Figlio del Dio vivente”.

Leone XIV, che ha fatto della sobrietà il suo stile e del discernimento la sua cifra, non ha bisogno di proclamare rivoluzioni: gli basta celebrare con i monaci, ascoltare il silenzio, riconoscere la potenza della liturgia. E in questo, più che in mille documenti, si rivela il segno di un pontificato che vuole restituire alla Chiesa la sua anima orante. Forse per questo, al termine della visita, il Papa ha sorriso ancora una volta, salutando l’abate primate. Un sorriso semplice ma eloquente, che dice più di qualsiasi discorso: quello di un uomo che, mentre altri tentano di strumentalizzarlo sul piano politico o di ridurlo a un simbolo estetico da commentare, mantiene lo sguardo fisso su Cristo crocifisso. E, con la forza silenziosa dei segni, invita tutta la Chiesa a fare lo stesso, senza bisogno di troppe parole.

p.G.A.
Silere non possum