Cardinal Mauro Piacenza presided over Holy Mass at the Sacro Speco in Subiaco.

Il 21 marzo del 547, a Montecassino, moriva il monaco Benedetto da Norcia. Gregorio Magno, suo illustre biografo, scrisse di lui: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina”.

Il santo Pontefice e dottore della Chiesa, scrisse la vita di Benedetto a cavallo tra il V e il VI secolo. In quel periodo la società stava vivendo una crisi di valori e delle istituzioni causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Il Pontefice presentò il Santo Monaco come “astro luminoso”, come esempio da seguire. La Regola di Benedetto è la guida di numerosissime comunità, ancor oggi.

La vita monastica è il cuore pulsante della Chiesa di Dio. I santi come Benedetto, Antonio, Bruno e Bernardo, ci insegnano che solo nella contemplazione "cor ad cor loquitur" si può avere un assaggio di quella che sarà il paradiso. Per questo motivo è molto importante coltivare quei germi di vocazione che il Signore ci dona, anche all'interno delle nostre parrocchie. Dio chiama molti giovani e molte giovani a vivere questo speciale tipo di consacrazione. Forse, il nostro orecchio, è spesso impegnato ad ascoltare voci più rumorose. Quella del Signore, però, è molto lieve e dolce.

Tutte le comunità che si sono formate sull'esempio di Benedetto, hanno ispirato contribuito a formare quel volto che l’Europa ha raggiunto. Dopo la caduta dell’unità politica creata dall’Impero Romano, attorno alla Regola nacque una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. In questo modo è nata l’Europa.

Sacro Transito

Il 20 marzo 2023 nel Sacro Speco, S.E.R. il Sig. Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere maggiore, ha presieduto la solenne celebrazione eucaristica in memoria del Sacro Transito di San Benedetto.

Alla celebrazione ha assistito il Rev.mo Dom Mauro Meacci, O.S.B., Abate ordinario di Subiaco. Con il Penitenziere Maggiore hanno concelebrato il Rev.mo Dom Roberto D. Dotta, O.S.B., Abate emerito dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura; il Rev.mo Dom Beda Umberto Paluzzi, O.S.B., Abate Ordinario emerito di Montevergine e i sacerdoti della comunità.

Nell'Omelia, il porporato ha detto: “La chiesa di Cristo esiste esattamente perché il mondo creda che il Padre ha mandato il suo figlio per la salvezza di molti”.

“Rifulge come perla preziosa, come diamante purissimo quel gigante che fu San Benedetto, uomo di Dio che brillò su questa terra. Quanto abbiamo bisogno, in questo nostro tempo, di uomini che brillino. Quando abbiamo bisogno di luce, della luce di Cristo per poter continuare a credere ad esistere, a costruire la civiltà dell’amore in un contesto che appare, da più parti, sempre più disumano e disumanizzante”, ha sottolineato.

“Anche oggi - ha continuato - reduci da una pandemia globale e con alle porte dell’Europa, anzi in Europa una vera e propria guerra, rischiamo di addentrarci, anzi forse ci siamo già addentrati in una profonda notte oscura. Anche oggi San Benedetto e la sua regola si rivelano apportatori di novità e rinnovamento. Possono essere fermento spirituale perchè il mondo creda che tu mi hai mandato”.

Poi la preghiera alla Vergine e l'importante invocazione per il dono di vocazioni sante alla vita contemplativa: Concludo implorando dalla Beata Vergine, primo fermento della fede nel mondo, una rinnovata fioritura della vita monastica nella Chiesa. Talvolta si pensa, erroneamente e soggiogati da una mentalità utilitaristica e funzionalistica, che i monaci servono a ben poco perchè non farebbero nulla, secondo chi capisce nulla e vede niente. In realtà essi fanno ciò che vi è di più essenziale che ci sia nella vita della Chiesa e del mondo: tendono le mani alzate verso il cielo e mantengono il mondo aperto verso Dio. Preghiamo per l’autenticità della vita monastica, certi che i monaci pregano per noi e per l’intera società fasciandola dell’orazione con la divina officiata e le buone opere”.

A tale invocazione si è unito anche il Padre Abate che, nel ringraziare Sua Eminenza, ha sottolineato l'importanza della preghiera per le vocazioni monastiche.

Benedetto e la vocazione monastica

In questa solenne circostanza, torna alla mente un passo molto bello della vita di Benedetto raccontata da Gregorio Magno. Si tratta del momento in cui, proprio vicino al Sacro Speco, l’anziano monaco venne chiamato a presiedere una comunità di monaci “libertini”.

Racconta Gregorio I: “Non molto lontano dallo speco viveva una piccola comunità di religiosi, il cui superiore era morto di recente. Tutti insieme questi uomini si presentarono al venerabile Benedetto e lo pregarono insistentemente perché assumesse il loro governo. Il santo uomo si rifiutò a lungo, con fermezza, soprattutto perché era convinto che i loro costumi non si sarebbero potuti mai conciliare con le sue convinzioni. Ma alla fine, quando proprio non poté più resistere alla loro insistenza, acconsentì. Li seguì dunque nel loro monastero.

Cominciò subito a vigilare attentamente sulla vita regolare e nessuno si poteva permettere, come prima, di flettere a destra o a sinistra dal diritto sentiero dell'osservanza monastica. Questo li fece stancare e indispettire, e, stolti com'erano, si accusavano a vicenda di essere andati proprio loro a sceglierlo per loro abate; la loro stortura cozzava troppo contro la norma della sua rettitudine. Si resero conto che sotto la sua direzione le cose illecite non erano assolutamente permesse e d'altra parte le inveterate abitudini non se la sentivano davvero di abbandonarle: è tanto difficile voler impegnare per forza a nuovi sistemi anime di incallita mentalità! È cosa purtroppo notoria che chi si comporta male trova sempre fastidio nella vita dei buoni, e così quei malvagi si accordarono di cercar qualche mezzo per togliergli addirittura la vita. Ci furono vari pareri e infine decisero di mescolare veleno nel vino, e a mensa, secondo una loro usanza, presentarono all'abate per la benedizione il recipiente di vetro che conteneva la mortale bevanda. Benedetto alzò la mano e tracciò il segno della croce. Il recipiente era sorretto in mano ad una certa distanza: il santo segno ridusse in frantumi quel vaso di morte, come se al posto di una benedizione vi fosse stata scagliata una pietra. Comprese subito l'uomo di Dio che quel vaso non poteva contenere che una bevanda di morte, perché non aveva potuto resistere al segno che dona la vita. Si alzò sull'istante, senza alterare minimamente la mitezza del volto e la tranquillità della mente, fece radunare i fratelli e disse semplicemente così: "Io chiedo al Signore che voglia perdonarvi, fratelli cari: ma come mai vi è venuto in mente di macchinare questa trama contro di me? Vi avevo detto che i nostri costumi non si potevano accordare: vedete se è vero? Adesso dunque basta così; cercatevi pure un superiore che stia bene con la vostra mentalità, perché io, dopo questo fatto, non me la sento più di rimanere con voi". E se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo con sé stesso, sotto gli occhi di Colui che dall'alto vede ogni cosa”.

Gregorio Magno spiega, poi, che diversi monaci giovani e aspiranti andarono alla ricerca di Benedetto perché coglievano davvero ove era la vita austera e la ricerca di Dio. Questo breve racconto è più che mai attuale. Oggi, nella Chiesa tutta, possiamo notare questa deriva. Ci sono diverse realtà che vanno, sempre più, perdendo vocazioni e rifiutano quelle serie ambizioni di vita vissuta con serietà. Molti ordini, ad esempio, neppure si preoccupano del loro futuro, delle vocazioni. Quando bussano alla porta nuovi giovani, sembrano un fastidio.

Al contrario, quelle realtà dove vi è un abate serio, timorato di Dio ed una comunità esemplare, attirano numerose vocazioni e l’invidia di chi non riesce a fare altrettanto.

Lo stesso Gregorio, a Pietro che chiedeva spiegazioni, dice: “io ritengo che se in un gruppo di persone cattive ve ne sia qualcuna cui si possa portar dell'aiuto, allora è bene che si sopportino con serena pazienza. Ma quando non si vede neanche l'ombra di un buono da cui sperare un po' di frutto, allora è proprio tempo e lavoro sprecato tutto quello che si fa per i cattivi, specialmente poi se vi siano a portata vicina altre attività che giovino maggiormente alla gloria di Dio.

Su chi sarebbe rimasto a vigilare il santo, quando vedeva che tutti senza eccezione eran d'accordo a perseguitarlo? E poi dobbiamo anche tener presente questo: che spesso i santi, quando si accorgono che ove sono lavorano inutilmente, maturano nell'anima la deliberazione di andarsene altrove, in luogo più fecondo alle fatiche dell'apostolato. Persino Paolo, quel nobilissimo predicatore che bramò di morire per vivere con Cristo, per il quale la vita era Cristo e la morte un guadagno, il quale non solo bramò la sofferenza e la lotta per sé, ma ne infervorò anche gli altri, ebbene anche lui, perseguitato in Damasco, per poter evadere dalle mura cercò una fune e una sporta e di nascosto volle esser calato fuori. Avremmo il coraggio di sostenere che Paolo abbia avuto paura della morte, mentre lo sentiamo affermare di desiderarla per amore di Cristo? Certamente no. Fu invece così, che, prevedendo in quel luogo ben poco frutto con grandi fatiche, volle conservare la vita per altro luogo con fatiche più fruttuose. Quel forte campione di Dio sdegnò rimanere chiuso di dentro le mura e andò in cerca del campo di battaglia all'aperto”.

Le parole del santo dottore della Chiesa, oggi, suonano quantomai attuali: “È cosa purtroppo notoria che chi si comporta male trova sempre fastidio nella vita dei buoni” e, purtroppo, anche nella Chiesa abbiamo chi tenta in tutti i modi, spesso alimentando il “chiacchiericcio”, per poter eliminare chi lavora bene.

Nella Regola, Benedetto scrive: “Come vi è uno zelo cattivo e amaro che allontana da Dio e conduce all'inferno, così c'è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. In questo zelo i monaci devono esercitarsi con amore vivissimo; e perciò si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza le infermità fisiche e morali degli altri, si prestino a gara obbedienza reciproca. Nessuno cerchi il proprio utile, ma piuttosto quello degli altri, amino i fratelli con puro affetto, temano Dio, vogliano bene al proprio abate con sincera e umile carità. Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo e così egli, in compenso, ci condurrà tutti alla vita eterna”.

F.P.

Silere non possum

Omelia di S.E.R. il Sig. Cardinale Mauro Piacenza

«Perché il mondo creda che tu mi hai mandato».

Questa preghiera del Signore Gesù, riportata nel testo denominato “preghiera sacerdotale”, del Vangelo secondo Giovanni - che abbiamo appena ascoltato - rappresenta l’orizzonte teleologico, il grande scopo, di tutta l’opera bimillenaria della Chiesa. La Chiesa di Cristo esiste esattamente perché il mondo creda che il Padre ha mandato il suo Figlio per la salvezza di molti.

In quest’opera bimillenaria, rifulge come perla preziosa, come diamante purissimo, quel gigante che fu San Benedetto, uomo di Dio che: “Brillò su questa terra”, come afferma San Gregorio Magno nei suoi dialoghi. (Dial. II, 36).

Quanto abbiamo bisogno, in questo nostro tempo, di uomini che brillino! Quanto abbiamo bisogno di luce, della luce di Cristo, riflessa nella realtà di ogni giorno, per poter ancora continuare a credere, a resistere, a costruire la civiltà dell’amore, in un contesto che appare, da più parti, sempre più disumano e disumanizzante!

Al tempo di San Benedetto, tra il quinto e il sesto secolo, il mondo allora conosciuto era sconvolto da una profondissima crisi, sia istituzionale sia culturale e di valori: era il crollo dell’impero romano, con l’invasione di nuovi popoli e una generale decadenza dei costumi. San Benedetto rappresentò, per il suo tempo, “una luce”, che permetteva di intuire la via d’uscita da un momento molto scuro della storia umana. L’attualità del Santo non è certamente venuta meno! Anche oggi, reduci da una pandemia globale e con alle porte dell’Europa, anzi in Europa, una vera e propria guerra, rischiamo di addentrarci - anzi forse già siamo - in una profonda notte oscura.

Certamente lo siamo da molto tempo dal punto di vista culturale e valoriale! E allora, ancora oggi, San Benedetto e la sua Regola si rivelano apportatrici di una grande possibilità di rinnovamento, possono essere fermento spirituale perché ancora oggi: “Il mondo creda che tu mi hai mandato”. Spesso si ribadisce che San Benedetto è stato uno dei più autorevoli e determinanti costruttori di quell’idea spirituale e culturale che noi chiamiamo Europa. E mai si sottolineerà abbastanza il fatto che l’Europa non è un insieme di accordi economici, politici o, peggio, militari. L’Europa è una unità spirituale e culturale e, prescindendo da essa, non sarà possibile preservarne l’identità e custodirne la realtà. Ciò non di meno, San Benedetto non ebbe alcuna intenzione di edificare l’Europa: egli semplicemente vuole affermare il primato assoluto di Dio! Dio prima di tutto! E lo affermò prima nella propria esistenza personale, soprattutto nei tre anni passati in eremitaggio, qui a Subiaco; e poi nella vita dei suoi discepoli, con la santa Regola e la fondazione dei suo monasteri.

Solo affermando il primato di Dio con tutto se stessi è possibile, nel tempo e con grande pazienza, costruire qualcosa, nella propria vita e nella società! Una società che non riconosca il primato di Dio o che addirittura tenda ad espellere Dio dal mondo, è destinata, irrimediabilmente al tracollo e - Dio non voglia - all’estinzione.

Qui a Subiaco San Benedetto visse per tre anni completamente solo nella grotta che costituisce il “cuore” di questo Sacro Speco. La solitudine con Dio è, per San Benedetto e per tutti noi, sempre un tempo di maturazione.

Egli vinse qui, lottando eroicamente contro se stesso, le tentazioni dell’autoaffermazione, del desiderio di porre se stesso al centro, dell’istintività e della vendetta. Come è attuale e moderna l’esperienza di Benedetto!

Quanto abbiamo oggi bisogno tutti di vincere queste tre costanti tentazioni dell’animo umano.

La tentazione dell’antropocentrismo, che fa ripiegare l’uomo talmente su se stesso, da renderlo incapace di vedere altro da sé, di riconoscere la realtà, di riconoscere gli altri intorno a sé; la tentazione dell’istintività, che soffoca l’autentica libertà umana, impedendo addirittura all’uomo di utilizzare la facoltà più nobile che Dio gli ha dato: la ragione, unita alla libertà e alla volontà; la tentazione della vendetta, che inquina costantemente i rapporti umani, sia a livello personale che a livello sociale, e addirittura nelle relazioni tra le nazioni, come la guerra in atto drammaticamente dimostra. È urgente e necessario recuperare, anche e soprattutto guardando l’esperienza di San Benedetto, quell’aureo dominio di sé, nobile eredità della cultura classica, e ripreso ed approfondito dal cristianesimo, fondandolo sul rapporto con Cristo e sulla indispensabile grazia soprannaturale che da Cristo scaturisce.

Vogliamo davvero continuare a distruggere noi stessi e la società, con questa terribile auto-centratura, che esclude Dio dal mondo? Che porta alla universale rovina? Vogliamo davvero proseguire in questa strada senza uscita?

Siamo davvero convinti che concentrandoci solo su noi stessi ed escludendo Dio, costruiremo qualcosa di buono?

«Perché il mondo creda che tu mi hai mandato».

In San Benedetto, soprattutto nella sua Regola, troviamo uno straordinario equilibrio tra il personale cammino di conversione e di vittoria su se stessi, e l’elemento comunitario e sociale di questo cammino.

La regola di San Benedetto rappresenta, da questo punto di vista, ancora oggi, un chiarissimo esempio di traduzione sociale e pubblica del cammino personale.

Ciò che ciascuno compie personalmente, può anche diventare cammino comune, in una reciprocità, che oggi noi chiameremo “sussidiarietà”, tra il soggetto singolo e la comunità, tra la persona e la comunità in cui essa vive; e tale reciprocità si rivela imprescindibile nel vivere sociale: non c’è società senza attenzione e rispetto per il singolo e non c’è maturazione e crescita della persona senza una società sana.

Non è un mistero, d’altronde, che perfino molte aziende di livello internazionale e di grande impatto economico, si ispirino a San Benedetto e alla sua Regola per imparare a gestire i rapporti all’interno della medesima istituzione, e, in essa, le relazioni gerarchiche. San Benedetto è - e rimane - ancora dopo tanti secoli, straordinario maestro di leadership e costruttore di comunità.

Egli insegna che l’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (cf. Regola 2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi e nel contempo chiamato ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (Ivi 27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (Ivi 64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (Ivi 2,12).

Quanto descritto per l’Abate, vale oggi, con straordinaria attualità, per ogni autorità, sia ecclesiastica sia civile, che, nell’esercizio del compito assegnato dalla divina Provvidenza, voglia davvero contribuire al bene comune ed alla dilatazione del Regno di Dio. Addirittura, quando la Regola afferma che l’Abate deve ascoltare “il consiglio dei fratelli” (3,2), ne vediamo tutta la sorprendente modernità anche in questo nostro tempo ecclesiale, segnato dal tema della sinodalità.

Un uomo posto in responsabilità pubblica, anche in piccoli ambiti, deve sempre essere capace di ascoltare e, soprattutto, di imparare da quanto ascolta.

“Perché il mondo creda che tu mi hai mandato”.

È questa la grandezza di San Benedetto, è questa la ragione per cui noi, dopo 14 secoli, siamo ancora qui a celebrare questo gigante della santità cristiana e della storia e della civiltà umane!

Da San Benedetto è scaturito il vero recupero della classicità greca e latina, è fiorito l’amore del bello nelle arti e nella musica; la liturgia ha assunto quel nobile splendore che le è proprio, nella sobrietà del rito latino. San Benedetto ci mostra come la conversione di un solo uomo, possa determinare un cambiamento epocale, al quale guardiamo con commossa e grata ammirazione.

Concludo implorando dalla Beata Vergine Maria, primo fermento della fede del mondo, poiché perfetta era la fede di Maria, una rinnovata fioritura della vita monastica nella Chiesa. Talvolta si pensa, erroneamente soggiogati da una mentalità utilitaristica e funzionalistica, che i monaci e le monache servano a poco, perché “non fanno nulla”. In realtà essi fanno ciò che di più essenziale ci sia nella vita della Chiesa e del mondo: tengono le mani alzate verso il cielo, e mantengono il mondoaperto verso Dio!

Preghiamo per l’autenticità della vita monastica, certi che i monaci e le monache pregano per noi e per la società intera, fasciandola nella orazione con la divina ufficiatura e con le buone opere.

Imploriamo dal Signore e dalla Vergine Madre, una rinnovata fioritura della vita monastica per l’Italia e per l’Europa, perché solo attraverso il rinnovarsi del primato di Dio, potranno rinnovarsi questo nostro mondo e questa nostra società!

“Perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Amen.