Ascoli Piceno - Nelle ultime ore la diocesi di Ascoli Piceno ha scelto una strada che ricorda da vicino il legalismo dei farisei, ignorando non solo le norme penali ma anche la più elementare deontologia della comunicazione. Vi sembra un déjà-vu? È difficile non scorgere l’ombra di Angelo De Donatis e dei suoi “figli” ecclesiastici. Chi non ricorda il comunicato, goffo e sbrigativo, con cui tentò di liquidare il caso Rupnik nella diocesi di Roma? Qui, però, l’emotività permalosa di Gianpiero Palmieri si è fusa con l’impreparazione di don Giampiero Cinelli, portavoce diocesano noto per il disprezzo – nemmeno troppo velato – con cui cita Silere non possum agli incontri del clero. Il vescovo non è da meno: frecciatine puntuali, accolte da sorrisetti pietistici dei presbiteri di San Benedetto del Tronto e di Ascoli Piceno.
Un quotidiano online locale, Cronache Picene, nei giorni scorsi, ha rilanciato alcune nostre notizie, inserendole in un quadro più ampio sulla diocesi. Nulla di strano, verrebbe da dire: la diocesi resta, il vescovo ne è solo custode pro tempore. Possibile che chi è stato “silurato” dal Vicariato di Roma proprio a motivo della sua emotività non l’abbia ancora capito? Ciò che accade in diocesi – opera del vescovo in carica, del predecessore o dei suoi preti – ricade sempre su chi la governa. Onori e oneri: perché pretendere solo i primi?
Si sfoggiano maniche corte e croce pettorale nel taschino come segni di presunta vicinanza al popolo di Dio, ma guai a sfiorare il potere sociale. Contraddirli resta, a quanto pare, peccato mortale.
I rapporti fra diocesi e giornalisti
Quante volte, su Silere non possum, abbiamo messo in luce i legami – talora fin troppo stretti – fra certi cronisti e le istituzioni? Non è raro vederli stringersi a coorte, a mo’ di confraternita ferita, ripetendosi il solito adagio: “mal comune mezzo gaudio”. Ma di che cosa si consolano, se non delle gaffe che le nostre inchieste portano a galla – le loro e quelle di chi governa? Vien da chiedersi: davvero i rapporti fra giornalisti e diocesi sono regolati dal reciproco rispetto, come si ostinano a credere gli ingenui? O, più modestamente, quel rispetto dura finché la penna rimane innocua? Interrogate alcuni sacerdoti e vescovi e vi accorgerete di un equivoco di fondo: confondono l’ufficio stampa – chiamato a diffondere ciò che l’ente desidera rendere pubblico – con il giornalismo vero e proprio, che invece setaccia, verifica, spesso scopre ciò che il potere preferirebbe sepolto.
Forse è proprio questa differenza, così elementare eppure così incompresa, a irritare chi teme la luce più della polvere sotto il tappeto. Questo è ciò che Gianpiero Cinelli non ha capito molto spesso, come quando ha tolto dalla newsletter della diocesi quelle testate che non agivano secondo i suoi desiderata. Non dimentichiamo che Cinelli è anche consigliere dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche, il che è tutto dire.
La vicenda Cronache Picene
Il quotidiano online ha pubblicato un articolo riprendendo le domande che Silere non possum aveva sollevato il 21 giugno 2025 in merito alla nota vicenda “Ivan Bresciani e Marko Ivan Rupnik” e al comportamento impulsivo ed emotivo comunemente attribuito all’Arcivescovo-Vescovo. Una scelta che Gianpiero Palmieri non ha gradito. Finché certe questioni restano confinate a Silere non possum, alcuni vescovi tirano un sospiro di sollievo: si innesca infatti quella dinamica ben nota, più volte denunciata, secondo cui — sì, certo, Silere non possum è letto da tutti — ma è anche quel portale scomodo, che non risparmia nemmeno i vaticanisti; quindi, solitamente gli altri media non riprendono mai la notizia. E così la vicenda resta confinata lì, nella bolla clericale. Tanto, ragionano certi ‘pastori’, il pubblico di Silere non possum è composto in gran parte da chierici e religiosi, ovvero persone che — in un modo o nell’altro — dipendono dal nostro potere. E quindi, di fatto, non possono permettersi di opporsi.
Ma quando questo giochetto si inceppa, scatta la reazione isterica. È il caso di Giampiero Cinelli, che ha ben pensato di inviare un comunicato a Cronache Picene nel quale si limita a diffamare Silere non possum, senza però smentire nulladi quanto pubblicato — né da Cronache Picene, né, tantomeno, da Silere non possum. Il copione, ormai, è sempre lo stesso. E sempre più imbarazzante. L’accusa? Che Silere non possum non sarebbe una testata giornalistica registrata in Italia — come se l’Italia fosse il baricentro della salvezza eterna, un Paese che, vale la pena ricordarlo, non figura neppure tra i primi 40 nella classifica mondiale sulla libertà di stampa. E poi, ovviamente, il solito ritornello: Silere non possum sarebbe un blog di pettegolezzi. Con questa brillante linea argomentativa, la Diocesi di Ascoli Piceno si guadagna il primato di essere chiamata in giudizio per diffamazione. Perché — è bene ricordarlo — se un “blog” scrive sciocchezze, la prassi minima in un comunicato stampa è smentire punto per punto ciò che è stato affermato. Con fatti, documenti, prove. Inoltre, si cita in giudizio provando che quelle considerazioni sono false. Non con tentativi maldestri di delegittimazione.
E invece? Giampiero Cinelli, consigliere dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche (sic!), ha deciso di bollare Silere non possum come un “blog di pettegolezzi” e di attribuire a Cronache Picene fantomatici “secondi fini” mai chiariti. Ma l’incompetenza nella comunicazione ha un prezzo. E ora la diocesi dovrà risponderne in sede giudiziaria. Anche perché chi dirige Silere non possum è ben conosciuto, soprattutto da quei presbiteri — come lo stesso Cinelli — che impiegano il loro tempo a parlare della vita privata altrui, di chi sarebbe la fonte di questo o quell’altro giornale, di come è vestito chi fa il video, dove vive, ecc.. salvo poi ignorare che il portale opera nel pieno rispetto delle norme vigenti nei Paesi in cui ha sede e che il giornalismo non è ancora subordinato ai poteri ecclesiastici, per fortuna.

Ci dice molto di te, ben poco di noi
Quello che personaggi come Gianpiero Palmieri, Giampiero Cinelli e una schiera di megere da sagrestia ancora non hanno compreso è che, se si vuole rispondere a un’inchiesta o a una notizia, bisogna contestare il merito, non proiettare le proprie ossessioni personali. Quando Silere non possum scrive che hai incardinato un religioso disobbediente, che ha abbandonato il suo ordine, che entra in diocesi e predica ai preti senza alcun merito e che, per di più, organizzi un ritiro con lui nella casa del Centro Aletti, non si tratta di “pettegolezzo”. Si tratta di fatti. Documentabili. Riscontrabili. Pubblici. I quali, peraltro, vengono confermati dai preti che, a differenza di ciò che afferma Cinelli, non apprezzano proprio nulla.
Il pettegolezzo, semmai, lo fa chi — come don Cinelli (per fortuna non tutti sono così, sic!) — leggendo l’articolo si mette a spiare, indagare, sospettare: “Chi glielo avrà detto? Chi ha parlato? Chi scrive su questo sito? Di chi sono quelle iniziali? A chi corrispondono?” o addirittura chi si improvvisa Cencini e vorrebbe spiegare che chi ricerca la Verità e non ha paura di dirla avrebbe secondi fini o vecchie frustrazioni, dimenticando che i frustrati sono coloro che rivestono dei panni che non gli si addicono, non chi svolge il proprio mestiere serenamente e ha il proprio centro di interessi ben lontano dalle logiche dei corridoi di curia o delle ambizioni dei silurati.
Ecco, questa è la mentalità da megera di sagrestia, quella che mastica a sbuffo alle sagre di Monticelli e poi passa il tempo a indovinare le firme degli articoli invece di rispondere nel merito. Ma non è Silere non possum a fare questo gioco: è chi legge con malizia, non chi scrive con rigore. E qui vale un principio basilare — anche per chi, come Cinelli, si fregia di titoli e vuole impartire lezioni di giornalismo: siamo responsabili di ciò che scriviamo, non delle elucubrazioni e delle turbe mentali di chi legge.
E, a giudicare da certe reazioni, nemmeno qualcuno riesce a controllare o comprendere le proprie turbe. Silere non possum non ha mai ricevuto smentite o condanne per aver affermato il falso, anzi, chi ha tentato goffamente di avanzare comunicati stampa come questo ha semplicemente confermato ciò che abbiamo scritto attaccando il messaggero e non il messaggio. Peraltro, si tratta dell’atteggiamento tipico dei farisei: «Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!» Perché concentrarsi sul merito, era troppo difficile anche per loro.
Il nodo Rupnik (e dintorni)
Sul merito, in realtà, c’è ben poco da aggiungere: il comunicato non smentisce nulla, anzi conferma esattamente quanto Silere non possum ha rivelato, facendo quel peccaminoso mestiere chiamato giornalismo. Che scandalo, davvero! Non siamo passacarte: che disdetta per qualcuno! Vale la pena sottolinearlo con chiarezza: l’attacco — e il maldestro tentativo di delegittimazione — è diretto contro l’unico portale di informazione che ha avuto il coraggio di svelare in esclusiva la questione centrale nella vicenda Marko Ivan Rupnik. Fu proprio Silere non possum, infatti, a rendere pubblici elementi che nessun altro possedeva né poteva avere, mentre altri giornali si limitavano a raccogliere — e spesso ignorare — le doglianze delle presunte vittime, senza mai pubblicare nulla. Silere non possum non solo diede voce ai fatti, ma recuperò direttamente gli atti del Dicastero per la Dottrina della Fede, offrendo un quadro documentato e completo.
Ed è qui che emerge l’ipocrisia: mentre la Chiesa Cattolica dichiara di voler affrontare il tema degli abusi sessuali, tenta di screditare proprio quei giornalisti che rivelano gli abusi di potere. È facile accanirsi contro sacerdoti deboli e isolati, magari invisi a un vescovo, accusandoli senza prove. Ma quando ad essere chiamato in causa è un personaggio potente, con prove concrete, allora si alzano i muri. E l’unica strategia diventa delegittimare chi ha il coraggio di denunciare. È evidente che ci troviamo di fronte alla cortina di protezione che avviò Angelo De Donatis in Vicariato — l’uomo che ha plasmato Gianpiero Palmieri — attorno a Marko Ivan Rupnik e a tutti coloro che ne hanno garantito l’impunità. Nel suo comunicato, Giampiero Cinelli prova goffamente a confondere le carte, affermando che “le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli”. Curioso, davvero, che Ivan Bresciani venga definito “figlio” di Rupnik — ma che le colpe debbano ricadere sui figli è un’accusa mai formulata né da Silere non possum né da Cronache Picene.
Ma il punto è un altro: non servono le colpe di Rupnik, perché Bresciani ha le sue, ben documentate. In qualità di vicedirettore del Centro Aletti, non ha mai esercitato alcuna vigilanza su Rupnik, né ha denunciato alla Compagnia di Gesù le ripetute violazioni delle restrizioni imposte. Chi riceveva le comunicazioni ufficiali relative ai divieti imposti a Rupnik? Proprio Ivan Bresciani. Divieti precisi: non celebrare pubblicamente, non uscire dal Lazio, non svolgere attività artistiche.
Eppure, se Silere non possum non avesse denunciato pubblicamente che Rupnik concelebrava la Messa nella Basilica di Santa Prassede a Roma, né Bresciani né De Donatis si sarebbero mai mossi. Anzi, continuavano a difenderlo a spada tratta. Solo dopo la pubblicazione dell’articolo da parte di Silere non possum, l’Abate Generale dell’Ordine dei Vallombrosani telefonò a De Donatis dicendogli: “Adesso basta.”

La cortina attorno a Ivan Bresciani
Molti presbiteri delle diocesi di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto e di Ascoli Piceno dovrebbero iniziare a chiedersi: la diocesi si spenderebbe con la stessa veemenza anche per difendere noi, se fossimo al centro di una narrazione scomoda? Abbiamo seri dubbi. Ma procediamo.
È legittimo, a questo punto, porsi una domanda: se davvero “le colpe dei padri non devono ricadere sui figli”, perché il Centro Aletti — e in particolare Ivan Bresciani — ha lasciato la Compagnia di Gesù proprio in dissenso con la gestione del caso Rupnik? Perché Bresciani ha deciso di abbandonare l’ordine e chiedere l’incardinazione nella diocesi di Ascoli Piceno? Una domanda scomoda ma necessaria: la vocazione di Ivan Bresciani dipende forse da Marko Ivan Rupnik? Nel suo comunicato, Giampiero Cinelli afferma che alcuni sacerdoti “sono stati temporaneamente incardinati in altre diocesi, tra cui quella di Ascoli Piceno, in attesa che si risolva la ‘questione’ relativa a don Marko Rupnik”. Ora, è quantomeno curioso che, dopo aver richiamato il principio secondo cui “le colpe dei padri non devono ricadere sui figli”, sia lo stesso Cinelli a legare direttamente la vicenda di Ivan Bresciani alla risoluzione del caso Rupnik. Una contraddizione evidente. Ma c’è di più: viene da chiedersi se Palmieri e Cinelli abbiano chiara la nozione di incardinazione dal punto di vista ecclesiologico e canonico. Da quando, infatti, si parla di incardinazione “temporanea”? Che siamo diventati un ufficio di collocamento ecclesiastico?
Il Codice di Diritto Canonico, ai canoni 267-268, prevede che l’incardinazione avvenga secondo criteri ben definiti: trasparenza, discernimento, e soprattutto un radicamento reale nel presbiterio locale. È previsto un periodo di prova, sì — che può durare fino a cinque anni — ma il fine è sempre e solo l’incardinazione definitiva, non una peregrinazione strategica a seconda delle convenienze personali. Un presbitero non può pensare di spostarsi a piacimento, scegliendo la diocesi che più gli aggrada in base al contesto più comodo. Tanto meno dovrebbe ergersi a maestro, salendo in cattedra a predicare ai sacerdoti che da anni svolgono il loro ministero con serietà e fedeltà, come se spettasse a lui impartire lezioni. Quando, in realtà, ha dato prova soltanto di disobbedienza e di una certa propensione alla fuga di fronte alle proprie responsabilità.
Un monito per il futuro
In ogni caso, Silere non possum ha da tempo scelto di non tacere più, nemmeno quando si tratta di questioni che lo riguardano direttamente. Non sui social — dove siamo stati costretti per molto tempo a bloccare i commenti per arginare l’isteria di alcune “ragazzine irrisolte” - né altrove. Qualsiasi dichiarazione diffamatoria, scritta o pronunciata, sarà affrontata nelle sedi giudiziarie competenti. È giunto il momento che qualcuno comprenda ciò che Silere non possum ripete da anni: la buona fama dei presbiteri va tutelata, e questa tutela vale in ogni ambito.
Per chiarezza: Silere non possum non è un portale italiano, e quindi non è soggetto ad alcun obbligo di registrazione— obbligo che, peraltro, non sussiste neppure in Italia per chi vuole fare informazione online. Chi vi scrive è regolarmente appartenente alla categoria di giornalista nei Paesi in cui svolge il proprio lavoro e in ogni caso, la registrazione non è indice di serietà, ma semmai uno strumento di controllo, utile solo a chi vuole fare pressioni indebite. Un esempio? Giampiero Cinelli, che gestisce la newsletter della diocesi secondo criteri personali, inserendo o escludendo le testate destinatarie a proprio piacimento, in base all’allineamento ideologico.
Oggi la polemica coinvolge la Diocesi di Ascoli Piceno, che, con il proprio atteggiamento, finisce per rivelare — in modo indiretto ma eloquente — le ragioni per cui l’Arcivescovo ha avuto vita breve al Vicariato di Roma. Ma soprattutto ci restituisce uno spaccato limpido di una Chiesa in cui certe malattie strutturali vengono sistematicamente rimosse, ignorate, o, peggio, protette. E tuttavia, non possiamo non ricordare che decine di migliaia di lettori — vescovi, presbiteri, religiosi e laici — seguono ogni giorno Silere non possum. Ne riconoscono lo spirito, ne apprezzano la serietà, e comprendono che non si tratta soltanto di fare informazione, ma di offrire una vera opera di [in]formazione, che chiama ciascuno a mettersi in discussione. Perché — a partire da chi scrive — siamo tutti in cammino, e tutti bisognosi di conversione.
d.G.M.
Silere non possum
Nota dell’Editore
Viene da chiedersi perché certi “Arcivescovi-Vescovi” e alcuni presbiteri non sembrino affatto infastiditi da quei veri blog di pettegolezzi, dove si calunniano confratelli, si parla di pizzi e merletti, e si alimentano ossessioni omofobe al punto da essere oscurati per incitamento all’odio. Forse perché, in fondo, quelle falsità fanno comodo a qualcuno che vive sulle calunnie ai danni dei propri preti. Perché, a disturbare davvero, non sono i pettegolezzi, ma la verità. Soprattutto quando questa tocca nervi scoperti e smaschera dinamiche di potere che molti preferirebbero mantenere nell’ombra.