Qualche tempo fa ho terminato la lettura di un libro di Arthur Miller e non ho potuto fare a meno di tracciare un parallelismo con ciò che accade nella Chiesa da oltre vent’anni. Nella storia dell’umanità, vi sono stati periodi in cui l’isteria collettiva ha prevalso sulla ragione, sacrificando la ricerca della verità sull’altare del sospetto. Nel suo dramma "The Crucible", Miller ritrae con lucidità come la paura possa trasformarsi in un’arma distruttiva, capace di travolgere vite e istituzioni senza il supporto di prove concrete. Oggi assistiamo a una dinamica analoga all’interno della Chiesa, con una sistematica persecuzione dei sacerdoti cattolici attraverso accuse infondate di abuso.

Negli ultimi decenni, la Chiesa Cattolica ha dovuto confrontarsi con scandali reali legati agli abusi sessuali, eventi drammatici che hanno gettato ombre su tutto il clero. Tuttavia, accanto ai casi veri e accertati, si è sviluppata una pericolosa tendenza: l’uso strumentale delle accuse per colpire figure scomode, vendicarsi per storie concluse, indebolire l’autorità ecclesiastica e alimentare una narrativa anticattolica.

Molti sacerdoti, talvolta privi di adeguate garanzie processuali, si sono ritrovati travolti da accuse infamanti, spesso costruite su testimonianze inconsistenti o su ricordi manipolati da pressioni esterne (madri, in modo particolare). In molti casi, la diocesi non ha fornito alcuna assistenza a questi sacerdoti durante questi momenti difficili; anzi, alcune realtà ecclesiastiche hanno direttamente allontanato i preti accusati senza preoccuparsene, lasciandoli soli nel loro dolore e nell'incertezza. L’impatto mediatico di un'accusa – indipendentemente dalla sua veridicità – è spesso sufficiente a distruggere la reputazione di un presbitero, relegandolo all’isolamento e al sospetto perpetuo. Questa situazione mette in luce una drammatica contraddizione nel modo in cui, come cattolici – e in particolare come sacerdoti – viviamo il Vangelo. Parliamo incessantemente di apertura, dialogo e accoglienza, ripetendo lo slogan del “todos, todos, todos”, ma nei fatti dimostriamo una profonda ipocrisia. Quando l’accoglienza diventa scomoda, quando stare accanto a qualcuno comporta il rischio di essere criticati, allora facciamo marcia indietro. Invece di sostenere chi è nel dolore e nell’incertezza, preferiamo prendere le distanze per paura di compromettere la nostra immagine.

Eppure, l’esempio di Cristo è ben diverso. Gesù non si è mai preoccupato di “cosa avrebbe pensato la gente” quando toccava i lebbrosi o sedeva a tavola con i pubblicani. Non ha evitato chi era nel bisogno o nell’errore, anzi, si è chinato per rialzarlo. Noi, invece, spesso non vogliamo sporcarci le mani: predichiamo il Vangelo quando è facile, ma ci tiriamo indietro quando seguirlo implica un costo personale.

La giustizia sommaria

Un parallelo inquietante con il "Crogiuolo" di Miller emerge nell’atteggiamento delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Nella Salem del XVII secolo, l’accusa di stregoneria bastava per condannare una persona senza bisogno di prove concrete. Oggi, seppur tronfi delle nostre conquiste europee, il solo sospetto di abusi è sufficiente per infangareun sacerdote, ancor prima che possa essere celebrato un equo processo o una valutazione imparziale dei fatti. La presunzione di innocenza, principio cardine di ogni società civile, viene calpestata da una macchina mediatica che agisce come tribunale sommario.

In questo clima, chi osa sollevare dubbi o chiedere maggiore prudenza nell'accettare accuse diventa automaticamente un complice o un insensibile. Molti vescovi che hanno chiesto di attendere l’esito dei processi prima di prendere provvedimenti sono stati immediatamente contattati da Roma, con l’ordine di agire tempestivamente, pena l'accusa di negligenza. Recentemente, in una riunione della conferenza episcopale locale, alcuni vescovi si sono interrogati su quali prospettive possano esserci per quei sacerdoti falsamente accusati e diffamati, nonché per coloro che, avendo commesso tali delitti, hanno intrapreso un percorso di guarigione, anche psicologico, per poter rientrare nella comunità. La comunità cristiana, infatti, deve ancora maturare su un aspetto, in modo particolare: se da un lato la giustizia è imprescindibile, dall’altro è necessario comprendere che la salvezza è un diritto di tutti, anche di chi ha sbagliato.

Quando Papa Francesco ricorda che il perdono è per tutti, e giustamente tutti applaudono, bisogna ricordarsi che qualunque errore un uomo o una donna possano aver commesso, hanno diritto a quel perdono. Non ci sono peccati di serie A o di serie B. Oltre ad un insegnamento evangelico, infatti, la riabilitazione del reo è anche un principio giuridico.

Un’idea distorta di perdono

Inoltre, quando emerge che le accuse erano in realtà calunnie, molti vescovi preferiscono invitare i sacerdoti coinvolti a tacere e sopportare in silenzio, piuttosto che denunciare l’ingiustizia subita. Questo atteggiamento rischia di offrire una distorta idea del perdono cristiano, confondendo la carità con la passiva accettazione dell’ingiustizia. La paura di difendere un sacerdote innocente è la stessa che, nella Salem di Miller, impediva a molti di schierarsi contro la follia collettiva.

Questo non significa negare i crimini realmente commessi  sminuire la sofferenza delle vittime, ma è fondamentale distinguere tra giustizia e caccia alle streghe, tra giustizia e vendetta. La Sposa di Cristo ha il dovere di affrontare questa sfida con rettitudine: prevenendo questa piaga, perseguendo i veri colpevoli, tutelando e proteggendo le vittime, accompagnando i colpevoli in percorsi di guarigione e favorendo la riabilitazione e il reinserimento nella comunità di entrambi. Questo cammino deve essere percorso con la consapevolezza che la verità non si piega alla pressione dell’opinione pubblica, ma alla fine emerge sempre, anche nelle prove più ardue.

d.L.A.
Silere non possum