Roma - L’uscita dei nuovi RayBan Meta è stata accolta come l’ennesima conquista della tecnologia: scattare, registrare, connettersi senza nemmeno estrarre lo smartphone dalla tasca. Tutto straordinario. Non lo nego: anch’io sono affascinato da queste innovazioni. Fin da bambino ho guardato con stupore ogni novità in questo campo. Ricordo quando, con un piccolo cellulare Nokia, riuscivo a collegarmi al grande computer fisso di casa per accedere a internet: un’esperienza che allora sembrava fantascienza. Oggi, invece, in redazione ci spazientiamo se la connessione in ufficio impiega qualche secondo in più a scaricare un file. Eppure, accanto a questa meraviglia, è inevitabile domandarsi: quali sono gli effetti collaterali di questa corsa all’innovazione?
Byung-Chul Han, filosofo coreano-tedesco, ci avverte che viviamo in una società della “trasparenza” e dell’“ipercomunicazione”, dove tutto è catturato, condiviso, esposto. Questi occhiali sembrano realizzare pienamente questa logica: lo sguardo non è più gratuito, ma finalizzato a produrre contenuto. Guardiamo per registrare, non per contemplare.
Eppure, come scriveva Merleau-Ponty, il corpo e la percezione sono il nostro modo primario di abitare il mondo: “il vedere non è mai possedere, ma aprirsi all’apparire dell’altro”. Se ciò che vediamo è già filtrato da algoritmi, cosa resta di quell’apertura? Non rischiamo di ridurci a spettatori del nostro stesso piccolo mondo, fatto di contatti prescelti, di “bolle” su misura, incapaci di stupirci? È, in fondo, lo stesso timore che Hannah Arendt aveva intravisto quando parlava della perdita della capacità di “iniziare qualcosa di nuovo”. Per lei l’azione umana nasceva dallo stupore, dall’imprevisto che scaturisce dall’incontro con l’altro. Ma se l’altro diventa soltanto un’immagine archiviata, catalogata, mediata da un visore, dove si nasconde la novità?
Quello che inquieta di più è la velocità con cui consumiamo ogni innovazione. Corriamo dietro all’ultimo iPhone – e lo ammetto, ieri anch’io mi sono catapultato in Apple Store – ma, poco dopo l’acquisto, la sorpresa si spegne e ci annoiamo. La tecnologia promette meraviglia, ma spesso ci lascia più inquieti che appagati.
Ricordo un’esperienza di qualche tempo fa: ero con alcuni amici, per nulla benevoli nei confronti del mondo cattolico, in un convento di religiosi. Lì hanno incontrato un ritmo diverso: il tempo scandito dalle campane, il silenzio, la natura, i momenti di fraternità e dialogo con gli altri. Uno di loro, alla fine, ha confessato: “All’inizio ti sembra strano, perché non sei abituato, ma poi ti affascina e non puoi farne a meno”. Forse la capacità di stupirci non è del tutto perduta: abbiamo solo dimenticato dove cercarla. Non saranno certo le aziende che guadagnano su di noi a offrirci uno sguardo autentico sull’altro. Il loro obiettivo è chiaro: tenerci sempre più legati a un dispositivo e a una piattaforma che ci sentiamo costretti a “coltivare” – perché, altrimenti, sembriamo non esistere – e dalla quale, intanto, loro ricavano profitto. La tradizione religiosa ci ricorda che lo sguardo autentico è quello che sa sorprendersi: “Alza gli occhi e conta le stelle” dice Dio ad Abramo (Gen 15,5). Lo sguardo biblico non cattura, non possiede, ma si lascia ferire e aprire dall’inatteso. Lo stesso Gesù, davanti a Zaccheo o alla Samaritana, non registra un contenuto, ma incontra un volto.
Oggi, quando ci capita di vivere qualcosa di bello, il primo impulso non è più quello di gustarlo fino in fondo, ma di trasformarlo subito in contenuto: una storia, un reel, una foto da condividere. Se entriamo in un museo, spesso non ci abbandoniamo all’atmosfera, non ci lasciamo interrogare da un quadro o catturare dalla sua forza silenziosa. Ci preoccupiamo piuttosto di scattare l’immagine migliore per i social, di produrre materiale da esibire, invece di lasciarci toccare dall’esperienza stessa.
Il rischio è che la tecnologia ci abitui a vivere senza epifanie, senza incontri che ci disarmano. Cammineremo tra gli altri con gli occhi fissi sul nostro microcosmo digitale, convinti di vedere tutto ma incapaci di vedere davvero. La domanda allora è inevitabile: saremo ancora capaci di stupirci, o abbiamo già smarrito la speranza di lasciarci sorprendere dal reale?
Marco Felipe Perfetti
Silere non possum