Nella Chiesa cattolica contemporanea si respira un clima malato, nel quale il diritto è diventato un’illusione e l’accusa di “abuso” è ormai una scorciatoia per colpire, vendicarsi, distruggere. Ci troviamo di fronte a una vera e propria psicopatia sistemica, dove ogni relazione viene letta in chiave patologica e ogni sacerdote è un potenziale mostro. Non serve più alcuna prova, non occorrono elementi oggettivi: basta una parola, un racconto confuso, spesso impregnato di livore, e la macchina inquisitoria si mette in moto.
Ci sono vicende ben note, specialmente in Sicilia, che mostrano con sconcertante chiarezza quanto sia degenerato il sistema. Ragazzi omosessuali, coetanei o quasi di giovani sacerdoti, hanno accusato questi ultimi di abusi sessuali. Ma in realtà, in moltissimi casi, si è trattato di rapporti consenzienti tra adulti. Il problema vero, però, è un altro: la gelosia, l’odio, il risentimento di chi è stato rifiutato o escluso. Senza dimenticare l'incapacità di accettarsi di determinati personaggi. In più di un processo è emersa questa dinamica: i denuncianti erano spesso persone cacciate dal seminario o figure orbitanti intorno alla parrocchia, frustrate per non aver avuto l’ascendente e il riconoscimento del giovane sacerdote.
Le loro testimonianze sono illuminanti, nel senso peggiore del termine: “Era solo un seminarista, ma si comportava come un prete”; “Era amato da tutti e faceva queste cose con tutti”. Che tradotto significa: non faceva queste cose solo con me. Non si tratta di abuso, in quanto erano entrambi adulti, ma di una forma elementare di gelosia possessiva. E poco importa se il rapporto si era creato proprio per determinate avance fatte da loro. Quello che disturba questi soggetti è che l’altro sia diventato prete, che abbia un ruolo, che sia stimato. Il fatto stesso che abbia detto “no” a ulteriori attenzioni viene vissuto come un affronto personale.
Qui non si entra nel merito morale, che è un aspetto che non importa alla giustizia statale. Ma dal punto di vista penale, un rapporto sessuale consenziente tra un presbitero e un adulto non costituisce reato. Eppure, nei tribunali italiani, sempre più spesso si assiste alla sospensione del diritto. I giudici, spesso ignari di come funzionino davvero le dinamiche ecclesiali, si lasciano trasportare dalla narrazione dominante: quella del sacerdote come predatore, dell’abuso onnipresente, del clericalismo come crimine. In questo clima, non serve portare prove: l’accusa basta.
Si arriva persino ad aggravare la posizione del sacerdote in quanto “autorità religiosa”, come se ogni fedele fosse ipso facto un soggetto manipolabile, fragile, vittima designata. Quando, invece, molti si avvicinano al sacerdote con ben altri scopi: economici, affettivi, persino erotici (pensiamo a quei giornalisti del Fatto Quotidiano che mandano messaggi ai preti ad orari improbabili della notte e quando vengono rifiutati li diffamano). E in certi casi, i denuncianti non appartenevano nemmeno alla vita parrocchiale, ma si presentavano al prete come semplici adulti in cerca di qualcosa — che certo non era accompagnamento spirituale.
Il risultato è che nella Chiesa si è instaurata una psico-polizia, dove basta la parola di un soggetto espulso dal seminario, incapace di accettare la propria omosessualità e mosso da puro spirito di vendetta, per rovinare la vita di un presbitero. Nessuna tutela minima del diritto di difesa. E guai a chi prova a raccontare un’altra versione dei fatti: viene subito delegittimato, attaccato, isolato.
La "vittima" che diffama e fa terra bruciata
È ciò che è accaduto, pochi giorni fa, a un avvocato che aveva difeso un sacerdote falsamente accusato da un ragazzo omosessuale. Questo legale è stato messo nel mirino, trattato come un complice, un fiancheggiatore. Ma da quando in qua un avvocato dev’essere assimilato al suo cliente? Se uno difende un mafioso, significa che è mafioso? No, ma evidentemente la logica si è persa. Questi sedicenti “vittime” — spesso ossessionati dal denaro, dalla visibilità, e soprattutto dalla vendetta — hanno passato al setaccio la vita di quell’avvocato, cercando su internet qualsiasi cosa potesse infangarlo.
È una prassi frequente: quando mancano argomenti reali contro l’imputato, si colpisce il difensore. E spesso queste finte vittime trovano la loro perfetta sponda in alcune avvocate che sono peggiori di loro. La deontologia è diventata un optional. Ma se seguiamo questa logica, allora anche una legale che difende un bugiardo patologico dev’essere considerata bugiarda patologica. Tanto più se non sa nemmeno esprimersi in lingua italiana e si rifugia nel dialetto, perché la laurea l’ha conquistata con i punti delle merendine. Ma il modus agendi di queste sedicenti "Dame del Diritto" lo abbiamo visto quando Silere non possum ha tirato su il velo di omertà su questi personaggi che cercano di fare soldi sulla pelle della Chiesa. Il metodo che utilizzano è quello mafioso, quello che si addice più a loro: delegittimare e infangare. Proprio come fanno con i colleghi avvocati.
Ciò che rende la vicenda ancora più surreale è che l’avvocato in questione era stato scelto dall’imputato in un momento drammatico della sua vita: quando, ingiustamente allontanato dalla propria diocesi, si trovava confinato nel nord Italia e addirittura sottoposto agli arresti domiciliari. Una condizione di isolamento e vulnerabilità in cui è naturale che un sacerdote si rivolga a una figura competente e vicina all’ambiente ecclesiale, capace non solo di fornire assistenza legale, ma anche di comprendere il contesto in cui maturano certe accuse.
Questo avvocato, infatti, è anche membro del Servizio di Tutela Minori di una diocesi. Una qualifica che, in un sistema razionale, dovrebbe essere considerata un merito, perché attesta competenza, esperienza e conoscenza della materia. Invece no: apriti cielo. È bastato questo dettaglio perché partissero immediatamente accuse, insinuazioni, campagne d’odio. La diocesi si è vista costretta persino a rimuovere il suo nome dal sito ufficiale, nel tentativo – vano – di fermare l’ondata di insulti e minacce fomentata dai soliti noti.
Gli stessi insulti, le stesse accuse sguaiate, le stesse campagne diffamatorie che queste finte vittime continuano a riversare da anni contro il vescovo, contro i sacerdoti, contro chiunque non si pieghi alla loro narrazione. Il risultato? Un clima avvelenato che ha di fatto paralizzato la vita della diocesi e reso impossibile il normale svolgimento della pastorale e della vita comunitaria. Ovviamente la magistratura non ha chiaro cosa sia l'articolo 405 del codice penale.
Ma ciò che è emerso con disarmante chiarezza in questo processo è anche un altro aspetto: il modo in cui operano certi agenti della Polizia di Stato in Sicilia. Basta avere il cognome giusto, essere parenti di qualcuno dentro il corpo, e le indagini partono automaticamente – senza coordinamento, senza il minimo controllo da parte della magistratura. Ognuno agisce per conto proprio, come se fosse il padrone del codice penale. La legge, in questo contesto, è ridotta a una decorazione formale: un orpello da sventolare solo quando fa comodo.
Ma dov’è il nesso logico? Per quale motivo un avvocato, che difende nel rispetto della legge un sacerdote, non potrebbe far parte del Servizio di Tutela Minori? Non esiste alcun motivo valido. Semplicemente, si pretende che dentro questi servizi ci siano solo figure che danno per scontata la colpevolezza sulla base di racconti pieni di rabbia, contraddizioni e desiderio di rivalsa.
E sarebbe interessante sapere cosa c’entrano gli abusi sessuali con le “doti” di un seminarista. A meno che il punto non sia proprio questo: colpire chi, in un certo momento, ha semplicemente avuto il coraggio di dire no.
d.A.G.
Silere non possum