Città del Vaticano - In queste ore, scorrendo le pagine dei quotidiani e perfino i grandi e valorosi siti della Santa Sede, sembra che il concetto di “influencer cattolico” abbia subito un curioso, quanto preoccupante, svuotamento semantico. Titoli altisonanti, fotografie patinate, sorrisi a favore di camera, e la consueta iniezione di retorica digitale fanno da cornice a un evento che si sta celebrando tra la disillusione e l’imbarazzo: il cosiddetto “Giubileo dei missionari digitali e influencer cattolici”.


Ma chi sono, esattamente, questi “influencer” che la Santa Sede decide di invitare e promuovere? Su quali criteri si fonda la decisione e la scelta? Davvero bastano una manciata di video su TikTok, due balletti virali (magari eseguiti direttamente sul presbiterio davanti al Santissimo Sacramento con parrucca) e qualche frase generica sull’amore universale per ottenere il bollino di “evangelizzatori digitali”?

Perché se si guarda alla realtà, quella fatta di centinaia di sacerdoti, religiosi e laici che ogni giorno condividono meditazioni sul Vangelo, spiegazioni del catechismo, riflessioni teologiche — spesso raggiungendo migliaia di persone — ci si accorge che questi nomi non compaiono mai sui grandi giornali o sui media vaticani. Nessuna menzione per chi, con discrezione e fedeltà alla Chiesa, usa i social per parlare di Dio e non di sé. Nessun invito per chi preferisce il silenzio dell’adorazione e la profondità della Scrittura alle luci abbaglianti del palcoscenico digitale.

Allora viene da chiedersi: per i giornalai della disinformazione, chi è davvero un influencer cattolico?

È forse chi si rende ridicolo a cinquant’anni indossando parrucche e la talare sull’altare, finendo regolarmente deriso anche da quei giovani che si vorrebbero tanto attrarre? Oppure è chi, con parole semplici e fedeli al Magistero, tenta ogni giorno di far incontrare Cristo anche attraverso un reel o una meditazione sul Vangelo postata in Youtube?

La selezione di questi volti, sponsorizzati come modelli di “evangelizzazione 2.0”, sembra dire molto di più su chi li promuove che non su di loro. L’impressione è che l’algoritmo davvero decisivo non sia quello di Instagram, ma quello — ben più opaco — dell’opportunismo ecclesiale: funziona solo per chi fa parte del circoletto giusto, quello dei giornalai compiacenti. Chi ripete con zelo le parole d’ordine care ai mentori della disinformazione — ecologia integrale, sinodalità, Papa Francesco — viene immediatamente certificato come “influencer cattolico”. Gli altri, semplicemente, non esistono.

Del resto, difficile dimenticare quando il sacerdote incaricato dal Papa di occuparsi della spiritualità all’interno del Dicastero per la Comunicazione — un ambiente dove regna un ateismo imbarazzante e un anticlericalismo ormai strutturale — si trovava a predicare nel vuoto. Le meditazioni spirituali, pensate per offrire un momento di riflessione e preghiera, erano seguite da appena cinque o sei persone, sempre le stesse, tutte appartenenti alla “vecchia guardia”.

Il dato è eloquente: di Dio non interessa nulla ad Andrea Tornielli, Paolo Ruffini, Andrea Monda e Matteo Bruni. La loro attenzione è rivolta altrove: a confezionare l’articoletto sgrammaticato, quello che intercetta le parole d’ordine del momento — guerra, ambiente, sinodalità, laicato prepotente — purché allineato con l’agenda culturale del Partito Democratico. Il Vangelo? Se compare, è solo come sfondo decorativo.

E allora la vera domanda è un’altra: quale fede stanno davvero “influenzando” questi influencer? E, soprattutto, verso chi conducono i cuori che li seguono?

Finché non avremo il coraggio di porci queste domande — fuori dai circoli autoreferenziali e dai teatrini di un Dicastero che fa perdere migliaia di euro ogni anno ma non porta alcun frutto — continueremo a confondere la missione con la messinscena.

E chi cerca Dio sui social, troverà solo la caricatura dei suoi profeti.

d.S.V.
Silere non possum