«Sapessi quello che ha fatto», «I superiori hanno deciso così perché c’erano cose indicibili», «Ci sono stati abusi», «Se Roma ha deciso un motivo ci sarà, no?». Negli ultimi tredici anni queste frasi sono diventate un linguaggio parallelo nella Chiesa cattolica: sussurri che non spiegano, ma archiviano; non chiariscono, ma sigillano. Il fenomeno, va precisato, non nasce il 13 marzo 2013. In ogni istituzione composta da relazioni strette e numericamente limitate - movimenti, seminari, curie diocesane, comunità locali - il pettegolezzo trova un terreno fertile. Ciò che è cambiato, nell’ultimo decennio, non è la comparsa della trama: è la legittimazione del metodo. La maldicenza non agisce più solo come tossina interna a mondi autoreferenziali; viene spesso percepita, accolta o tollerata come motivazione sufficiente per decisioni che segnano percorsi, vocazioni, ruoli, reputazioni.

Così la vita delle persone rischia di essere riscritta da una giustizia capovolta: non più fondata sulla verifica dei fatti, ma sull’allusione mai smentibile; non più sul diritto alla buona fama o al contraddittorio, ma su un giudizio diffuso per osmosi, senza atto formale né difesa possibile. È dentro questo spazio indefinito - il “sentito dire” innalzato a criterio - che l’autorità, quando non vigila su sé stessa e sulle parole altrui, può generare ferite reali, profondissime, spesso irreversibili.

In troppe comunità ecclesiali la trama si ripete con rigidità di copione: a un certo punto si dice che qualcuno sia “problematico”. Non serve provare, non serve circostanziare. Basta insinuare. E la formula più efficace degli ultimi anni è una parola-chiave che funziona come timbro: abuso. Di coscienza, psicologico, relazionale, perfino fisico. Poco importa la definizione reale, importa l’effetto: delegittimare la persona che si vuole neutralizzare.

L’abuso, che dovrebbe nominare una ferita e aprire un processo di verità, diventa così un’etichetta preventiva, sparsa a bassa voce o amplificata a mezzo stampa, utile più a colpire che a proteggere. Un capo d’imputazione lanciato nel vuoto, irrefutabile proprio perché mai formalizzato. Non descrive ciò che è accaduto: anticipa ciò che si vuole far accadere alla reputazione dell’altro. E spesso riesce. Perché le voci, quando non incontrano anticorpi istituzionali e franchezza evangelica, hanno il potere inquietante di fare più danni di un atto scritto. Non c’è un procedimento, non c’è un confronto leale. Ci sono frasi sussurrate nei corridoi: “Non è equilibrato…”, “ha problemi di obbedienza…”, “non è sicuro lasciarlo con i giovani…”. Nel giro di pochi mesi quella persona viene isolata, privata di incarichi, resa sospetta. Nessuno sa bene perché; tutti “sanno” che qualcosa non va. Qui non siamo semplicemente davanti a pettegolezzo o conflitto caratteriale. Quando chi alimenta queste voci occupa una posizione di autorità spirituale - superiore, vescovo, responsabile di un movimento, formatore - e usa il linguaggio della fede per screditare e togliere di mezzo un presunto “nemico”, siamo nel campo preciso dell’abuso spirituale.

Che cos’è l’abuso spirituale

Il monaco certosino p. Dysmas de Lassus, nel volume Schiacciare l’anima, definisce l’abuso spirituale come il frutto di una “potenza spirituale sviata” che nasce dall’incontro tra una psiche egocentrica e un potere religioso esercitato male. Commentando il lavoro di una commissione d’inchiesta, egli osserva che tra le varie forme di abuso (sessuale, di coscienza, di potere) esiste spesso un “sistema di abuso”, nel quale «un abuso genera altro abuso» e anche chi non è personalmente aggressore finisce per funzionare come tale se rimane dentro quel sistema. In una pagina dura e lucidissima, de Lassus nota che il clericalismo - inteso in senso ampio, come ogni forma di potere religioso che si esercita sui fedeli e non per i fedeli - è un ambiente favorevole all’abuso, ma non ne esaurisce la radice. La radice non è più un’identità di stato, ma un metodo di dominio: l’uso della relazione spiritualedirezione, obbedienza, appartenenza comunitaria – per piegare l’altro alle proprie convenienze, alle proprie insicurezze, alle proprie difese.

Per questo il termine clericalismo non basta più. Evoca un potere legato al clero e costringe lo sguardo su una categoria specifica, i sacerdoti, mentre il fenomeno reale lo ha già scavalcato: l’abuso di linguaggio religioso e di ruoli spirituali, oggi, prospera soprattutto tra i laici. Movimenti, fondazioni, equipe di governo, organismi pastorali: sono ambienti in cui l’autorità non deriva dall’ordinazione, ma dalla gestione delle relazioni, delle narrazioni interne, dei processi formativi. Ed è proprio lì che l’atteggiamento clericale - inteso come potere che si fa padre, non come padre che serve - diventa contagioso. Il paradosso del nostro tempo è evidente: con l’aumento dei laici in posizioni decisionali non è diminuita la tentazione, è cambiato il volto del rischio. E questo conferma ciò che da tempo qualcuno denunciava: l’abuso non nasce dal ministero ordinato ma dall’uomo, dal peccato. Dove ieri c’era un paternalismo a volte ingenuo, ma riconoscibile e limitato, oggi c’è un paternalismo spirituale laicale più sottile, più esteso, più difficile da smentire perché non regolato da un proprio “corpo giuridico” chiaro. E spesso peggiore per impatto di quello del passato: meno vincolato da tradizioni di disciplina personale, più legittimato dal consenso interno, più protetto dal linguaggio dell’“interprete del carisma”. Così l’autorità diventa possesso, non mandato; la cura diventa controllo; la vulnerabilità dell’altro diventa occasione. E il potere, quando si fa voce impersonale di decisioni indiscutibili («ho fatto discernimento e ho deciso così», «lo Spirito mi ha mostrato», «c’erano motivi indicibili»), non esercita un servizio: esercita una pressione. Una pressione che non si limita a governare gli spazi, ma che rischia di schiacciare le coscienze. Quando questo accade, il danno non è solo psicologico: viene colpita la fede stessa della vittima. Molti testimoni – spiega padre Dysmas - descrivono il crollo della loro immagine di Dio, «sfigurata» dal comportamento di chi, in nome di Dio, li ha manipolati.

La “cultura della menzogna”

Una delle pagine più utili per leggere ciò che avviene in certi movimenti o ambienti ecclesiali è quella in cui De Lassus parla di cultura della menzogna. Descrive così il meccanismo: all’esterno tutto appare luminoso, centrato sul Signore, obbedienza alla Chiesa. Ma, nella pratica, si seleziona con estrema cura ciò che si mostra e ciò che si tace; gli eventi esterni vengono filtrati attraverso il linguaggio interno della comunità, fino a non corrispondere più alla realtà. Scrive: «Si finisce per presentare verso l’esterno le cose in modo tale da prendere le distanze dalla realtà, dalla verità… si può parlare a buon diritto di cultura della menzogna». La menzogna, in questi contesti, non è un incidente: diventa una virtù funzionale alla sopravvivenza del sistema. Non si deve mai “dare scandalo”, non si può “far male al carisma”, non si può “mettere in difficoltà il fondatore” o il leader, il vescovo. Chi osa parlare viene facilmente etichettato come rancoroso, instabile, poco spirituale.

Emblematica la testimonianza riportata da De Lassus: «Di fronte alla notorietà del nostro ‘movimento’, nessuno osa aprire bocca, perché sappiamo che la gerarchia ecclesiale non ci crederà mai». Quel “mai” è l’indice più chiaro dell’abuso: il sistema ha convinto le vittime che nessuna autorità li ascolterà, perché la reputazione pubblica della comunità conta più della verità.

Gaslighting in versione ecclesiale

Il linguaggio della psicologia aiuta a nominare ciò che accade sotto la superficie. Il gaslighting è il tentativo di manipolare la realtà dell’altro, fino a fargli dubitare della propria memoria, delle proprie percezioni, del proprio giudizio. Il gaslighter, spiegano gli psicologi, inizia inserendo piccole bugie in fatti veri, in modo che la vittima cominci a pensare di “essersi dimenticata qualcosa”. Poi mette in discussione la sua capacità di valutare la realtà: “sei troppo sensibile… esageri… ti inventi le cose”.  Progressivamente, la vittima arriva a non fidarsi più di sé stessa, si sente confusa, si domanda se non sia davvero “malata”, e sviluppa una dipendenza emotiva dall’aggressore, percepito come l’unico che può darle approvazione e sicurezza.

Se trasferiamo questo schema nella vita ecclesiale, le frasi cambiano, ma la logica resta identica:“Sei tu che non hai fede”, “Non puoi dubitare di chi è legittimamente messo lì”, “Queste sono tentazioni contro l’obbedienza”, “Lo ha detto la Chiesa”,“Non capisci il carisma, per questo soffri”,“Se fosse davvero volontà di Dio, saresti in pace”. Qui il gaslighting non si limita a mettere in dubbio la sanità mentale della persona: mette in dubbio la sua relazione con Dio, facendole credere che anche il malessere che prova sia segno di peccato, non di ingiustizia subita.

Perché è abuso spirituale, non solo psicologico

Potrebbe obiettarsi: in tutti gli ambienti umani esistono cordate, gelosie, giochi di potere. Che cosa rende specificamente ecclesiale questo tipo di violenza?

Tre elementi emergono con chiarezza sia nell’analisi di De Lassus sia negli studi psicologici:

Il ricorso al sacro. Nell’abuso spirituale il potere viene giustificato con motivazioni religiose: volontà di Dio, carisma del fondatore, obbedienza alla Chiesa. La persona non contraddice solo un superiore: ha la sensazione di contraddire Dio.

L’uso della coscienza come campo di battaglia. Il confine tra foro interno ed esterno viene violato: ciò che nasce in confessione o direzione spirituale viene usato per orientare decisioni comunitarie, valutare idoneità, costruire dossier informali.

Il danno alla fede. Come nota De Lassus, molti di coloro che escono da una comunità abusante hanno bisogno di anni per ricostruire l’immagine di Dio, incrinata da rapporti di autorità trasformati in controllo delle coscienze. E spesso non riescono più a fidarsi della Chiesa Cattolica, vista non come madre che accoglie, ma come istituzione che ha lasciato campo a un potere senza trasparenza né verifica. Lo sottolinea in Schiacciare l’Anima, dove la ferita non è relegata al singolo caso, ma riconosciuta come possibile esito di un sistema spirituale malato, capace di isolare e screditare sull’onda del sentito dire, fino a spezzare percorsi di vita e fede che non dovevano rompersi. In questo scarto tra ruolo spirituale e servizio della verità si annida il punto critico: non l’errore umano, ma l’assenza di meccanismi che tutelino la libertà interiore dell’altro e il suo diritto alla buona fama, soprattutto quando non ha strumenti reali per difendersi.

In questo senso, l’abuso spirituale non è una categoria “di moda”, ma un modo preciso di violare il secondo comandamento: usare il nome di Dio per giustificare il male.

Movimenti, nuove comunità, strutture diocesane: un problema di sistema

L’analisi del priore generale dell’ordine certosino insiste su un punto: non basta concentrarsi sui singoli casi. Esistono sistemi cristiani abusanti, in cui tanti, pur non avendo intenzioni malvagie, finiscono per partecipare a dinamiche di violenza.

Questo accade:
quando la critica è vietata o scoraggiata (“non parlare male dei superiori”, “non mettere in discussione le scelte del presidente”);
quando l’unità è vissuta come uniformità obbligata, non come armonia di differenze;
quando la fedeltà al fondatore o al carisma viene elevata a “voto implicito”, che rende impossibile denunciare deviazioni gravi;
quando i membri coinvolti in movimenti o realtà ecclesiali non sanno a chi rivolgersi in caso di abuso, perché la struttura non è chiaramente inserita nel diritto della Chiesa.

De Lassus parla in questo contesto di “sistema immunitario” dell’Ordine o della comunità: come un organismo vivente, anche una istituzione ecclesiale deve avere anticorpi - regole, procedure, formazione - per riconoscere e fermare i comportamenti devianti, soprattutto quando toccano i più vulnerabili.

Il diritto alla buona fama e gli adulti “vulnerabili”

Molti casi di abuso spirituale non riguardano minori, ma adulti: sacerdoti, seminaristi, consacrati, laici in percorsi di formazione. Il motu proprio Vos estis lux mundi di Papa Francesco considera “persone vulnerabili” non solo chi ha una fragilità oggettiva (malattia, deficit), ma anche chi si trova, per ragioni di dipendenza o di potere, nell’impossibilità di resistere efficacemente a un abuso.

Un seminarista la cui ordinazione dipende dal giudizio del rettore, una consacrata legata da voti a una fondatrice, un sacerdote che è legato a una comunità, un dipendente di curia il cui futuro lavorativo dipende dal vescovo: sono tutti, in questo senso, “vulnerabili”.

L’abuso che viene commesso anche solo partendo dal pettegolezzo - la diffusione di voci mirate a distruggere la reputazione – viola esplicitamente il diritto canonico e la dottrina morale della Chiesa, ma spesso non lascia tracce scritte: è una violenza senza documento, che si consuma nelle confidenze “spirituali”, nelle telefonate informali, nelle lettere mai notificate all’interessato. Il nostro ambiente, peraltro, è uno di quelli nei quali se chiami le persone a rispondere di ciò che ti hanno detto poco prima. sono pronte a rinnegarlo senza alcun problema.

Che cosa si può fare: alcune piste

De Lassus e altri studi psicologici offrono almeno tre linee di lavoro concrete.

Formazione e consapevolezza
Il Priore Generale insiste sulla necessità di una formazione solida, teologica e umana, sia iniziale che permanente, che dia ai futuri responsabili strumenti per riconoscere i meccanismi abusanti e per esercitare l’autorità come servizio. Alcuni psicologi sottolineano l’importanza di aiutare le potenziali vittime a riconoscere i segnali del gaslighting: quando qualcuno ti fa dubitare sistematicamente della tua memoria, ti fa sentire “pazzo”, ti isola dagli altri e ti fa credere che senza di lui tu non abbia valore, c’è un problema. Trasposto nella Chiesa, questo significa insegnare - nei seminari, nei noviziati, nei movimenti, nei percorsi di formazione laicale - che non è normale:
che un superiore ti squalifichi costantemente davanti ad altri;
che ti impedisca di parlare con l’autorità superiore;
che usi elementi del foro interno per giustificare decisioni pubbliche;
che ti faccia sentire colpevole solo per aver chiesto chiarezza.

Strutture di tutela e “vie di uscita”
De Lassus mostra come alcune comunità siano riuscite ad avviare percorsi di riforma proprio perché hanno accettato uno sguardo esterno: visite canoniche, commissioni indipendenti, pubblicazione di rapporti.

Occorre che:
in ogni diocesi e realtà ecclesiale siano note e accessibili le istanze di ricorso;
chi denuncia non venga automaticamente percepito come “nemico della Chiesa” o “nemico del movimento”;
vengano previste modalità per ascoltare non solo la presunta vittima, ma anche chi è stato messo ai margini da campagne di discredito.

Le visite, però, devono essere compiute da persone realmente esterne ed indipendenti non da “amici” del leader.

Conversione personale: smettere di partecipare al gioco

Infine c’è un livello che nessuna struttura potrà sostituire: la metanoia personale di ciascun battezzato nel proprio modo di parlare. Il primo atto di giustizia è semplice e difficilissimo: rifiutarsi di ascoltare o rilanciare voci su persone che non possono difendersi, e chiedere con calma: “questo che mi stai dicendo, lo hai detto anche a lui/lei? È stato avviato un percorso serio di verifica? Ci sono le prove di ciò che dici?”.

Ricominciare dalla verità

Il monaco certosino parla dell’abuso spirituale come di una ferita che spesso “schiaccia le ali” di chi aveva consegnato a Dio, con entusiasmo, la propria vita.  Quando queste due dimensioni si sovrappongono - manipolazione psicologica e tradimento spirituale - il risultato è devastante. Ma proprio per questo, affrontare con lucidità il fenomeno non è un atto “contro” la Chiesa: è un atto di amore alla Chiesa, perché la libera da ciò che la sfigura.

La promessa evangelica rimane: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Non una verità astratta, ma la verità concreta dei fatti, delle persone, delle storie, anche quando costringe a riconoscere che la nostra comunità che amiamo ha permesso - e talvolta favorito - dinamiche di potere che hanno schiacciato l’anima di molti. Solo ripartendo da qui sarà possibile costruire comunità dove la parola “padre”, “vescovo”, “formatore” non faccia paura, e dove nessuno debba temere che, dietro un sorriso spirituale, si nasconda la lama sottile di un pettegolezzo assassino.

d.S.L.
Silere non possum