Dal 2 al 13 settembre 2024 Papa Francesco si è recato in Oceania ed Asia per compiere il 45° Viaggio Apostolico Internazionale. Mercoledì 11 settembre 2024 il Pontefice ha incontrato i gesuiti presenti a Singapore. 

Papa Francesco dice che nel marzo 2013 aveva lasciato le omelie preparate ed aveva già fatto il biglietto del ritorno per Buenos Aires. Nessuno ha ancora visto quelle omelie e il biglietto. Lo abbiamo detto già altre volte, questa ricostruzione purtroppo non è veritiera. Francesco sapeva che sarebbe stato eletto. Francesco riferisce che ha letto in un libro che al termine del conclave che lo elesse un porporato riferì: “Sarà un disastro”. Purtroppo non è stato solo un cardinale a riferirlo e con il tempo lo hanno ripetuto in molti ma, soprattutto, se ne sono convinti anche coloro che lo avevano votato. Non si tratta di cattiveria ma ci si è resi conto che le ideologie di Bergoglio non gli hanno permesso di governare la Chiesa affidandosi davvero allo Spirito Santo. Non dimentichiamo, poi, che molti non conoscevano alcuni lati del suo carattere per i quali, invece, era famoso a Buenos Aires. Il Papa rivela, poi, che sta facendo di tutto perchè Arrupe arrivi agli altari. Un uomo che fu richiamato dalla Segreteria di Stato e che ha trasformato la Compagnia di Gesù in un vero e proprio incubo. Arrupe, peraltro, non aveva neppure una buona considerazione di Bergoglio, ed è tutto dire.  Francesco ai gesuiti a Singapore, inoltre, racconta due cose. In primis dice di aver rifiutato due volte la nomina episcopale.  La motivazione per cui disse di no al Papa, nonostante i gesuiti abbiano il voto di obbedienza al Pontefice come lui tiene a specificare spesso, è che non voleva fare il “guardiano delle rovine”. Poi racconta che la seconda volta, quando era a Cordova, aveva il divieto di lasciare il Paese, questo è vero perchè nella Compagnia di Gesù ne combinò talmente tante che i superiori non sapevano più come fare. Allo stesso tempo, però, racconta una bugia e dice che padre Kolvenbach diede parere positivo alla sua nomina a vescovo. Questo non è vero, Kolvenbach si oppose e diede un giudizio pessimo di Bergoglio. Altrimenti perchè avrebbe avuto il divieto di lasciare il Paese? Come al solito Francesco cerca di riscrivere la storia come gli conviene ma per fortuna a Borgo Santo Spirito c’è chi parla nonostante Francesco abbia fatto sparire il suo fascicolo appena è stato eletto. 

Abusi di coscienza

Nelle parole di Papa Francesco emerge qualcosa che è molto grave ed è il preludio degli abusi di coscienza e psicologici. Afferma il Papa: «Anche il superiore deve parlare al suo superiore. Il rendiconto di coscienza è una grazia grande e anche una grande responsabilità per il superiore. Bisogna essere molto umili per accompagnare i fratelli nella loro vita. Qualcuno dice che il rendiconto di coscienza va contro la libertà. Non è così. Il rendiconto di coscienza è un gioiello: noi manifestiamo le nostre cose come stanno davanti a Dio, e il superiore, che è consapevole delle proprie deficienze, ti accompagna. E questa è la nostra fratellanza». 

Questa pratica è la porta verso il baratro dell’abuso spirituale. Il foro interno e il foro esterno non devono MAI e poi MAI mescolarsi. I propri errori, ovvero i propri peccati, si confessano al confessore che ha il dovere di mantenere il sigillo sacramentale. Al superiore o al vescovo non si parla del proprio foro interno, della propria coscienza! Si faccia attenzione a questo. Nella storia, infatti, spesso i Papi hanno posto l’occhio su questa pratica della Compagnia di Gesù che è diabolica. Il fatto che il Papa affermi queste cose oggi è ancora molto grave. Bisogna lavorare ad una riforma del Codice di Diritto Canonico che preveda pene severe per chi commistiona foro interno e foro esterno e bisogna rivedere anche le regole degli ordini religiosi perchè non vi sia mai questa possibilità. 



«Benvenuti! Benvenuti! Sono contento di incontrarvi. Abbiamo una buona ora per stare insieme. Cominciate a fare le domande! Il più coraggioso chi è? Si faccia avanti!» ha esordito il Papa. 

«Francesco, ti presento il gruppo», ha detto un gesuita rivolgendosi al Santo Padre in lingua spagnola. «Benvenuto a Singapore, la città dei leoni, innanzitutto! Sono un gesuita della Malesia e sono stato ordinato sacerdote da poco… Diciamo che sono un bebé…»

«Ah, sei il primo a parlare e pensavo fossi il padre Provinciale!» ha detto il Papa ridendo.

Vorrei presentarti la nostra regione. Siamo qui 25 gesuiti della regione Malesia-Singapore, incluso il Provinciale, che è qui, al mio fianco, e che si chiama Francesco come te. C’è anche un gesuita di Bangkok che appartiene alla provincia del Sud Africa e uno della Germania. In questa regione abbiamo 40 membri. L’età media è di 56 anni. 2/3 sono malesi e 1/3 di Singapore. Le vocazioni sono poche, e solo uno di noi ha meno di 40 anni. La media è di un novizio ogni due anni. Siamo pochi, ma appassionati nel servizio al Signore. Abbiamo due parrocchie molto vivaci e attive: una a Singapore, intitolata a sant’Ignazio; e una in Malesia, intitolata a san Francesco Saverio. Entrambe sono state fondate nel 1961. Abbiamo due centri di spiritualità, uno in Malesia e uno in Singapore, e un collegio in Malesia. Siamo felici di conoscerti personalmente come fratello e amico nel Signore. Grazie per il tempo che ci dedichi!

Il Papa ride e dice: «Lui sa vendere il prodotto! Fatemi ora le vostre domande!». Il dialogo è proseguito in lingua inglese con traduzione in italiano.

Padre, quale missione è importante per noi gesuiti in Asia?

Non conosco bene quali siano le linee generali della Compagnia universale, ma certamente il padre Arrupe insisteva molto sulla missione in Asia. Il suo addio è stato proprio in Asia, quando ha visitato il centro dei rifugiati a Bangkok. Padre Arrupe ha detto in quel momento due cose: lavorare con i rifugiati e non lasciare la preghiera. Un lavoro importante della Compagnia in Asia sono i centri sociali e l’apostolato intellettuale e dell’educazione. A volte si pensa che il gesuita moderno debba lasciare i collegi. Ma, per piacere, no! La Compagnia ha il compito di formare il cuore e la mente delle persone. Questo lo si fa bene con le scuole, e lo si fa anche avendo professori laici. Io credo che in questa regione dell’Asia sia necessario questo apostolato dell’educazione, insieme all’apostolato sociale. Voi avete qui qualche rivista in Asia? Perché anche le pubblicazioni gesuite sono un apostolato importante.

Vorrei sottolineare una cosa: il nostro lavoro è inculturare la fede ed evangelizzare la cultura. La cultura sia evangelizzata, la fede sia inculturata: questa è stata una bella intuizione dei primi gesuiti. Pensate ai gesuiti cinesi che hanno capito subito questa cosa! Poi a Roma si sono scandalizzati, hanno avuto paura. La cosa peggiore è avvenuta con le riduzioni in America Latina, che sono state chiuse a causa di un modo di pensare che veniva dall’alto, dall’autorità, ma che non era lo spirito di Gesù. Alla fine, che cosa è successo? Che ai gesuiti hanno tagliato la testa.

Sono felice che Lei voglia ascoltarci, e noi lo siamo ancora di più di ascoltare Lei. Sono stato inviato a lavorare nella Rete mondiale di preghiera del Papa. Lavoro con i giovani, e loro hanno prodotto dei fumetti che vogliono che Lei veda. Questo lavoro che era chiamato «Apostolato della preghiera» è stato fatto tradizionalmente con le persone anziane, e ora invece coinvolge anche i giovani. Questi giovani si impegnano tanto, però, quando arriva per qualcuno il momento di pensare a unirsi a noi nella Compagnia, è difficile per loro prendere una decisione.

E perché?

Loro ci ammirano, ma, quando arriva il momento di unirsi a noi, allora attendono, rinviano…

La vocazione è così. Ognuno di noi ha avuto resistenze nella vocazione. Dobbiamo aiutare i giovani non soltanto a pensare, ma anche a sentire e a lavorare. Per esempio, so di diocesi urbane che in alcune parrocchie hanno un lavoro pastorale notturno che si chiama «la notte della solidarietà». In quelle parrocchie i giovani sono entusiasti di aiutare i poveri, di dar loro da mangiare. Poi hanno i loro tempi di maturazione della fede. Non tutti vanno a Messa la domenica o sono credenti, ma si avvicinano e maturano impegnandosi. Ai miei tempi l’evangelizzazione si faceva con le conferenze. Oggi invece dovete prendere i giovani come sono. Dovete porre sfide di carattere sociale, educativo che sentono loro, e accompagnarli nella fede con parresia e prudenza.

Sull’apostolato della preghiera: non è una cosa superata, no! È molto legato al culto del Sacro Cuore. Nel mese prossimo pubblicherò una lettera sulla devozione al Sacro Cuore. E questa è una missione propriamente gesuita: il culto al Sacro Cuore. È una cosa davvero nostra.

Sono parroco della Chiesa di sant’Ignazio. Ecco la prima domanda: quando Lei è stato eletto, ho dato un’intervista in Tv e ho detto che era impensabile che un gesuita diventasse Papa.

«Si fanno sbagli a volte», dice il Papa ridendo. 

La mia domanda è: qual è la croce più grande che Lei porta come gesuita diventato Papa?

Essere Papa è una croce come lo è la tua. Ognuno ha la sua croce. Il Signore ti accompagna, ti consola, ti dà forza. E tante volte tu devi pregare tanto per avere la luce per le decisioni. Ma questo devono farlo tutti. Una cosa molto bella è vedere come il Signore ti parla attraverso la gente, ti parla attraverso coloro che sono in grado di pregare meglio, le persone semplici. Anche il parroco ha i suoi collaboratori, come li ha il Papa. E il Papa deve ascoltare molto. Cerco poi di non perdere il senso dell’umorismo. Questo è veramente importante. Il senso dello humor è salute. Forse esagero, ma fare il Papa non è più difficile né molto differente rispetto a fare il prete, la suora, il vescovo. Insomma, significa stare nel posto dove il Signore ti ha messo, seguire la tua vocazione: non è una penitenza.

Nel mio caso, sono andato al Conclave e ho fatto i miei calcoli, e ho pensato: «Il Papa sarà eletto presto e non prenderà possesso nella Settimana Santa, che poi sarebbe stata la successiva». Per questo ho preso il biglietto di ritorno il sabato prima della Domenica delle Palme, in modo da essere in diocesi per la celebrazione. Avevo lasciato le omelie per la Settimana Santa già preparate. Non me l’aspettavo, dunque. Così si fanno le cose, si va avanti, come il Signore vuole. In un libro del giornalista Gerald O’Connell ho letto che, quando sono stato eletto, un cardinale ha detto a un altro di me: «Questo sarà un disastro!». Il Signore dirà se sarò stato un disastro!

Lei ha cominciato a parlare di padre Arrupe. Io ho lavorato per più di 25 anni col «Jesuit Refugee Service» e adesso sto lavorando al nord con i rifugiati e anche con i Rohingya dal Myanmar. Sto lavorando anche sulla «Laudato si’» in Malesia. Una grande sfida per me è il collegamento tra fede e giustizia. Trovo molti fedeli legati alle devozioni, ma quando la fede si esprime in giustizia e cura del creato, allora la gente si allontana. Faccio molta fatica a parlare di come il Vangelo si deve tradurre in opere, scelte, vita quotidiana, al servizio dell’umanità sofferente e del creato. A volte mi sento scoraggiato…

Un grande «scandalo», diciamo così, nella Compagnia è stato il famoso Decreto IV della Congregazione Generale XXXII [Silere non possum ne ha parlato in questo articolo]. Io ero in quella Congregazione. Sì, ha provocato uno scandalo forte in un gruppo di gesuiti spagnoli che cercavano di screditare il padre Arrupe come se avesse tradito la missione della Compagnia. Ricordo anche che padre Arrupe fu richiamato dalla Segreteria di Stato a causa di una certa preoccupazione per il cammino che stava prendendo la Compagnia. E lui è stato sempre obbediente. Quello è stato un momento molto difficile. Ho conosciuto direttamente quella situazione, perché avevo nella Provincia argentina un gesuita coinvolto con coloro che facevano resistenza alla Congregazione Generale e al padre Arrupe. Erano gruppi molto militanti. Io l’ho chiamato. Una volta mi ha detto: «Il giorno più felice della mia vita sarà quando vedrò il padre Arrupe impiccato in Piazza San Pietro». Padre Arrupe soffriva con perdono e misericordia.

Quando san Giovanni Paolo II nominò delegato pontificio per la Compagnia il padre Paolo Dezza, che rimase in carica fino all’ele­zione del nuovo Generale, lui gli baciò la mano. Padre Arrupe è stato un uomo di Dio. Io sto facendo il possibile perché arrivi agli altari. È davvero un modello di gesuita: non aveva timore, mai sparlava degli altri, si è giocato per l’inculturazione della fede e per l’evangelizzazione della cultura. Alcune volte sono andato di nascosto al Gesù per pregare, e sono sempre passato dalla tomba di padre Arrupe. Evangelizzazione della cultura e inculturazione della fede: sono la missione fondamentale della Compagnia.

Santo Padre, sono parroco in Malesia. Sento che abbiamo l’obbligo di promuovere la nostra identità gesuita. E questo ci viene facile anche grazie a Lei, perché manifesta pubblicamente e visibilmente che cosa significa essere «uomo per gli altri». Noi attiriamo molti giovani, ma poi loro non entrano nella Compagnia, perché la formazione è molto lunga e ritengono che vi possano entrare solo le persone molto intelligenti. La mia questione è: come cambiare questa narrativa? Dobbiamo continuare a tenere standard alti e spendere molti anni nella formazione o, forse, dobbiamo cambiare?

Mai abbassare l’ideale! Si può rivedere il modo in cui lavoriamo con i giovani, certo, ma non si deve abbassare l’ideale. I giovani hanno sete di autenticità. Oggi, per esempio, prima di prendere il volo, ho avuto un incontro con i giovani di Timor Est: ho sentito che erano coraggiosi! Vogliono impegnarsi, e hanno bisogno di essere accompagnati nei loro ideali. Ho detto ai giovani stamattina: «Fate casino». La seconda cosa che ho detto è che devono prendersi cura degli anziani. Questo rapporto diretto tra giovani e anziani per me è davvero importante. Lavorare con i giovani è una cosa da inventare tutti i giorni. Ci vuole creatività. E non scoraggiatevi mai.

Una delle esperienze che ho fatto è che i vescovi diocesani non apprezzano le vocazioni religiose. Loro ci considerano come fossimo membri del clero diocesano. Non hanno il senso della vita religiosa come carisma dato alla Chiesa. Che fare?

Hai ragione, capisco. È un problema per tutta la Chiesa nel mondo. Una questione che collego a questa è quella dell’ordinazione di un gesuita come vescovo. Noi gesuiti dobbiamo dire «no». Ma se il Papa vuole, c’è il quarto voto e bisogna dire «sì». Io dico la mia esperienza: ho detto «no» due volte. Una volta mi è stato chiesto di essere vescovo nella zona delle rovine delle antiche missioni dei gesuiti al confine col Paraguay. Io ho risposto che volevo essere prete e non guardiano delle rovine. Un’altra volta ero a Cordova, e lì mi chiamò il Nunzio al telefono e mi disse che voleva parlare con me. Io avevo il divieto dei superiori di uscire dalla città: è stato un tempo molto doloroso per me. Allora il Nunzio mi ha detto che sarebbe venuto lui all’aeroporto e ci saremmo visti lì. Lì mi ha detto: il Papa ti ha nominato vescovo, e questa è la lettera del Padre Generale che lo permette. Così era già stato tutto deciso e lavorato. Il Generale allora era p. Kolvenbach, un uomo di Dio. Noi gesuiti dobbiamo obbedire alla Chiesa. Ignazio aveva scritto le regole per «sentire con la Chiesa». Se il Papa ti manda in missione, si deve obbedire. Ma per l’episcopato, il primo passo è sempre dire «no».

Qual è la sua visione della Chiesa del futuro alla luce della sinodalità? Qual è il rapporto tra la Chiesa locale e quella centrale?

Il Sinodo che stiamo portando avanti è sulla sinodalità. Il Sinodo dei vescovi nasce da una intuizione di san Paolo VI, perché la Chiesa occidentale aveva perso la dimensione della sinodalità, mentre quella orientale l’aveva preservata. San Paolo VI, alla fine del Concilio, ha creato il Segretariato per il Sinodo dei vescovi, perché tutti i vescovi avessero una dimensione sinodale di dialogo. Nel 2001 sono stato relatore per il Sinodo dei vescovi: raccoglievo il materiale e lo sistemavo. Il segretario del Sinodo lo esaminava e diceva di togliere questa o quella cosa che era stata approvata con votazione dei vari gruppi. C’erano cose che lui non riteneva opportune e mi diceva: «No, su questo non si vota, su questo non si vota…». Non si era capito che cos’era un Sinodo, insomma.

Un altro problema è se possono votare solamente i vescovi o anche i sacerdoti, i laici o le donne. In questo Sinodo, è la prima volta che possono votare le donne. Che significa? Che c’è stato uno sviluppo per vivere questa sinodalità. E questa è una grazia del Signore, perché la sinodalità si deve fare non solo a livello di Chiesa universale, ma anche nelle Chiese locali, nelle parrocchie, nelle istituzioni educative… La sinodalità è un valore della Chiesa a tutti i livelli. È stato un cammino molto bello. Questo comporta un’altra cosa: la capacità di discernere. La sinodalità è una grazia della Chiesa. Non è democrazia. È un’altra cosa, e richiede discernimento.

Padre, ho due domande. Sono un insegnante. Lei ha detto che dobbiamo sognare. Che sogno Lei ha per noi in Singapore? Poi le pongo un’altra domanda, perché non potrei prendere sonno stanotte se non gliela facessi: quando verrà canonizzato Matteo Ricci?

Matteo Ricci è una grande figura. Ci sono stati sempre problemi, ma la causa sta andando avanti e io voglio che vada avanti. Dobbiamo pregare perché ci siano le condizioni per fare la canonizzazione. Poi, non so quale sia il mio sogno! Io vado avanti. Per esempio: essere qui per me è un sogno! Ascoltare qui la Chiesa per meglio servirla è un sogno.

Pensando alla Compagnia, io la sogno unita, coraggiosa. Preferisco che si sbagli per il coraggio che per la sicurezza. Ma uno può dire: «Se siamo nei posti di lotta, sulle frontiere, c’è sempre il rischio di “scivolare”…». E io rispondo: «E scivolate!». Chi ha sempre paura di sbagliare non fa niente nella vita. Siate coraggiosi nelle situazioni difficili dell’apostolato! Coraggiosi, ma umili con piena apertura di coscienza. Poi la comunità, il Provinciale vi aiuteranno ad andare avanti! Noi abbiamo una grazia grande nel rendiconto di coscienza. Il gesuita che nasconde al superiore le cose finirà male.

«Ma io ho vergogna a dire al superiore i miei sbagli», potreste dire. Ma anche noi superiori sbagliamo: siamo fratelli. Anche il superiore deve parlare al suo superiore. Il rendiconto di coscienza è una grazia grande e anche una grande responsabilità per il superiore. Bisogna essere molto umili per accompagnare i fratelli nella loro vita. Qualcuno dice che il rendiconto di coscienza va contro la libertà. Non è così. Il rendiconto di coscienza è un gioiello: noi manifestiamo le nostre cose come stanno davanti a Dio, e il superiore, che è consapevole delle proprie deficienze, ti accompagna. E questa è la nostra fratellanza.

Forse l’insulto più brutto che noi riceviamo è quello di essere ipocriti. Lo trovi anche nel dizionario: «gesuita» significa anche «ipocrita». È una calunnia, perché la nostra vocazione deve essere il contrario dell’ipocrisia. Il rendiconto di coscienza è una grazia della Compagnia. Capito?

Ora abbiamo due cose per Lei: un pupazzo di sant’Ignazio innanzitutto!

Voi sapete che sant’Ignazio aveva senso dello humor? E aveva tanta pazienza. Pensate la pazienza che ha dovuto avere con Simão Rodrigues e tutti gli altri…

E poi abbiamo due pacchi di preghiere scritte dai fedeli della parrocchia di Singapore. Sono qua perché Lei le benedica.

Ma questa è una cosa che mi tocca il cuore! Grazie! Voi predicate la preghiera!

Al Papa sono stati portati i due pacchi con le preghiere. Lui, dopo aver imposto silenziosamente le mani, ha dato la benedizione.

«Grazie per quello che fate. Vi prometto che pregherò perché voi abbiate vocazioni. Adesso possiamo pregare insieme un’«Ave Maria» e poi vi darò la benedizione. Vi darò un rosario, salutandovi personalmente. Pregate per me! A favore, non contro! Questo ve lo dico perché una volta, dopo l’udienza generale a Piazza San Pietro, ho incontrato una vecchietta dagli occhi bellissimi. Era una donna umile. Mi sono avvicinato, l’ho salutata e l’ho guardata negli occhi bellissimi. Le ho chiesto: «Quanti anni hai?». E lei: «87». «Cosa mangi per stare così in forma?». E lei mi ha detto che fa dei buoni ravioli. «Prega per me!», le ho detto. «Lo faccio tutti i giorni», mi ha risposto. E io le ho chiesto: «Ma preghi a favore o contro?». La signora mi ha guardato e ha indicato il Vaticano e ha detto: «Contro di lei pregano lì dentro!» ha detto il Papa.