Nessuno vuole disturbare i magistrati. Gli avvocati tacciono, i cittadini si rassegnano, le istituzioni coprono. Eppure, se la giustizia canonica viene derisa perché “i preti si giudicano tra loro”, cosa dovremmo dire di un Paese dove le toghe si assolvono a vicenda? La verità è che la magistratura italiana è divenuta un corpo separato, autoreferenziale, protetto da un sistema disciplinare che somiglia più a una confraternita che a un tribunale.

Lo aveva già mostrato Stefano Zurlo nel Libro nero della magistratura: giudici che copiano sentenze, pubblici ministeri che dimenticano imputati in cella, toghe che picchiano le mogli o insultano agenti, eppure restano al loro posto. Non sono aneddoti: sono sentenze disciplinari del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma nessuno le legge. Nessuno le racconta. E nessuno paga.

Una casta che si autogiustifica

Nel suo secondo volume (Il nuovo libro nero della magistratura, 2024), Zurlo mostra il volto burocratizzato e immobile del potere giudiziario: «Un grande specchio - scrive - in cui si riflettono vizi e miserie delle toghe italiane». C’è il magistrato che si ubriaca e insulta i carabinieri. C’è il giudice che picchia la moglie. C’è la PM che non indaga sugli orchi. C’è il pubblico ministero che insegna nell’università privata e firma provvedimenti illegali ai danni del malcapitato denunciato dall’amica vicina all’istituzione per cui lui insegna. E poi, puntuale, arriva l’assoluzione o la sanzione simbolica: “ammonimento”, “perdita di un anno di anzianità”. Il sistema si giudica da sé. La Disciplinare del CSM - “il tribunale delle toghe” - decide sui colleghi. Il risultato è un moralismo di facciata e un corporativismo di sostanza. Sotto queste gravi inadempienze, però, c’è la vita delle persone. Nessun altro potere dello Stato gode di un’autotutela tanto blindata. Se nella Chiesa si grida allo scandalo quando un prete giudica un altro prete, in Italia nessuno si scandalizza se un magistrato giudica un altro magistrato. Eppure, la dinamica è identica: il controllo resta interno, la credibilità esterna si dissolve.

Gli avvocati: complici silenziosi

Il mondo dell’avvocatura, che dovrebbe essere il contrappeso naturale, è diventato un ceto di sopravvivenza. Gli avvocati “non vogliono infastidire i magistrati”: devono lavorare con loro ogni giorno, e temono ritorsioni. Molti non credono più nella giustizia, ma nel proprio tornaconto economico. Prendono incarichi, incassano parcelle, e si guardano bene dal denunciare l’arbitrio di forze dell’ordine, pubblici ministeri e giudici che non rispettano la legge e non assolvono i loro doveri.

La vicenda di Garlasco - con prove manomesse, indagini mal condotte, contraddizioni mai chiarite - resta un paradigma di come l’apparato giudiziario e le forze dell’ordine possano trasformare un’inchiesta in una farsa. La superficialità tecnica di molti avvocati e magistrati, come mostrano i concorsi pubblici e le stesse prove scritte, sfiora la tragedia. Candidati che ignorano le norme di base del procedimento penale superano concorsi e arrivano a indossare la toga. Il risultato è un sistema dove la mediocrità diventa quotidianità e la competenza eccezione.

La macchina inceppata delle procure

Nelle procure italiane, la scena è la stessa da decenni. Uffici che rispondono al telefono solo dalle 12 alle 13 — un’ora al giorno — mentre migliaia di cause e di persone restano in attesa. Cancellerie accessibili soltanto in fasce orarie ristrette, per pochi minuti; portali elettronici che spesso non funzionano o che richiedono mesi per erogare un servizio; faldoni che si accumulano su scrivanie imballate di pratiche inevase. Se presenti una denuncia invocando giustizia, ti rimane solo di aspettare — e sperare che, nell’attesa, non accada il peggio.

“Posti fissi” conquistati con concorsi opachi, come spiegava già Edward C. Banfield nella sua analisi sociologica della Lucania contadina: un mondo dominato dal familismo amorale, dove ognuno pensa solo alla propria sopravvivenza e mai al bene comune.

L’Italia, mezzo secolo dopo, non è cambiata. In Le basi morali di una società arretrata, Banfield descriveva una società dove nessuno agisce “per la comunità”, ma solo per “la propria famiglia o la propria cerchia”. È lo stesso meccanismo che regola oggi la giustizia italiana: procure trasformate in feudi, uffici in club di famiglia, carriere costruite per cooptazione. Chi denuncia un collega viene isolato. Chi tace, viene promosso.

Giudici e pubblici ministeri: onnipotenti e impuniti

L’anomalia più grave è la concentrazione di potere. Il pubblico ministero - titolare dell’azione penale e parte dell’accusa - appartiene allo stesso ordine del giudice. Sono “colleghi”. Frequentano gli stessi corsi, gli stessi uffici, a volte le stesse correnti. Quando il PM chiede una misura cautelare, il giudice la firma. Quando chiede un rinvio a giudizio, viene accontentato. Il controllo reciproco non esiste: prevale il riflesso corporativo. L’“autonomia” si è trasformata in autarchia morale. E la giustizia - nata per difendere i deboli - si è chiusa in un cerchio autoreferenziale che difende se stesso.

Il paradosso morale: la giustizia senza etica

Banfield lo aveva intuito: dove non esiste senso del bene comune, la legge si riduce a strumento di potere. Il suo familismo amorale non è solo un concetto sociologico, ma la fotografia della nostra civiltà amministrativa: ognuno agisce per evitare fastidi e per conservare la propria posizione. Nel microcosmo giudiziario italiano, questo significa che il magistrato evita di punire il collega perché “potrebbe toccare a lui domani”, l’avvocato evita di contestare il giudice perché “domani avrà un’altra causa davanti a lui” e il cancelliere evita di esporsi perché “non conviene”.

È la morale del quieto vivere, la forma più perversa della corruzione.

Quando la legge perde l’anima

La corruzione non è solo questione di tangenti: è un fatto spirituale, una degenerazione morale prima che giuridica. Quando un giudice copia una sentenza, o quando una procura ignora le prove perché “non ha tempo”, il danno non è solo al processo, ma all’idea stessa di giustizia. È l’idea - scrive Zurlo - di “una giustizia che non si vergogna più di essere ingiusta”.

Un Paese senza verità

La malagiustizia non è un incidente, ma un sintomo culturale. È l’eredità di un Paese che non ha mai imparato a distinguere il bene comune dall’interesse personale. Finché la magistratura continuerà a essere casta, gli avvocati mercanti e i cancellieri impiegati senza vocazione, la giustizia resterà un’illusione burocratica. E mentre i cittadini attendono processi che non arrivano, o verdetti che non spiegano, lo Stato continua a proclamare la propria fedeltà alla Costituzione. Ma quale Costituzione? Quella che recita che “la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano”? O quella, invisibile, che governa da decenni i palazzi del diritto: “Non disturbare le toghe”?

p.R.A.
Silere non possum