Roma - Nella sesta parte dell’inchiesta abbiamo affrontato la lettera che diede inizio a tutto. Abbiamo messo in evidenza quel tentativo di distruggere, con accuse neppure formulate, un nemico che si è individuato autonomamente e scelto di far fuori per motivi “politici” e per via del fatto che invitava a vivere il carisma in modo ben diverso da quanto qualcuno avrebbe voluto.
Per don Luigi Giussani, la parola esperienza non indica un accumulo di sensazioni né un vissuto emotivo indistinto. È una categoria rigorosa, decisiva, che riguarda il modo con cui l’uomo entra in rapporto con la realtà e ne riconosce il significato. Nel Il senso religioso Giussani chiarisce il punto in modo netto: «L’esperienza coincide col giudizio dato su ciò che si prova. Senza giudizio non c’è esperienza». Non basta dunque “fare” o “sentire”: l’esperienza accade quando la persona comprende ciò che vive, quando la ragione è chiamata a riconoscere il senso delle cose. Per questo può affermare che «ciò che caratterizza l’esperienza è l’intelligenza del senso delle cose», non il semplice impatto immediato con i fatti. Questa impostazione ritorna e viene approfondita dal fondatore di CL in All’origine della pretesa cristiana, dove l’esperienza diventa il criterio con cui si verifica la fede. La fede cristiana non nasce da un ragionamento astratto, ma dall’incontro con un fatto storico che regge davanti alla vita. Giussani lo dice: «Non è il ragionamento astratto che fa crescere, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta». L’esperienza è il luogo in cui l’avvenimento di Cristo mostra la sua corrispondenza con le esigenze profonde dell’uomo.
Infine, ne Il rischio educativo, Giussani fa assumere a questa concezione una portata educativa. Educare significa introdurre alla realtà, non sostituirsi alla libertà dell’altro. L’adulto può proporre un’ipotesi di senso, ma solo l’esperienza personale - cioè il giudizio maturato vivendo - può renderla vera per chi la riceve. Per questo l’educazione è un rischio: perché passa attraverso la libertà e la responsabilità del soggetto. Per Giussani, dunque, l’esperienza è sempre un fatto serio: coinvolge la ragione, la libertà e il tempo. È il luogo in cui la verità si mostra come adeguata alla vita, oppure si rivela incapace di reggerne il peso. Non un rifugio soggettivo, ma il banco di prova dell’umano. Don Julián Carrón chiarisce che l’esperienza è il luogo in cui la fede viene messa alla prova nella vita concreta, senza scorciatoie spiritualistiche o protezioni ideologiche. Riprendendo un’espressione di Giussani, afferma che la fede «non può barare, perché è in qualche modo legata alla tua esperienza: è come se dovesse comparire davanti al tribunale della tua esperienza».
L’esperienza, dunque, non è un sentimento privato né una convinzione interiore autoreferenziale. È il punto in cui ciò che si crede mostra se è in grado di reggere davanti alle esigenze reali dell’umano: il lavoro, gli affetti, il dolore, il tempo. Carrón insiste sul fatto che una fede che non passa da questa verifica produce una fragilità profonda del soggetto, una debolezza che non è anzitutto morale, ma antropologica. Per questo, scrive in La bellezza disarmata, la fede si verifica quando dimostra la sua capacità di illuminare la ragione, sostenere l’affetto e rendere possibile l’esercizio della libertà. Se questa verifica viene elusa, la fede resta un discorso corretto, ma non diventa esperienza capace di generare un io adulto. L’esperienza è quindi il banco di prova della verità cristiana: non un rifugio soggettivo, ma il luogo esigente in cui la promessa della fede si misura con la vita così com’è, senza difese e senza alibi.

Il Dicastero usato per ottenere il potere
Come abbiamo ricostruito, il Dicastero finisce per farsi guidare da una narrazione costruita ad arte: da un lato, con il Papa si insinua che «Carrón ha chiuso CL nelle sagrestie e ci ha resi autoreferenziali»; dall’altro, negli interlocutori del Dicastero si sposta l’attenzione su «Direttorio e Statuto che attribuirebbero troppo potere al Consigliere ecclesiastico dei Memores». Ma quando si rilegge l’intero testo alla luce della documentazione resa pubblica da Silere non possum, l’impressione cambia: le contestazioni appaiono disallineate, i passaggi non tornano e diventa difficile non riconoscere che, in questa ricostruzione, qualcosa non quadra.
Come abbiamo spiegato, infatti, il fine è un altro. In questo modus agendi del Dicastero si registra un atteggiamento difficile da decifrare: da un lato sembra quello di chi non comprende fino in fondo che cosa si voglia davvero ottenere; dall’altro dà l’impressione che si sia arrivati a un punto in cui tornare indietro renderebbe evidente il gioco. Dentro questa cornice riemerge una dinamica che, purtroppo, ritorna spesso in contesti diversi (Abbazie, Diocesi, Comunità): si ignora un dato ormai sotto gli occhi di tutti, cioè che don Julián Carrón si è ritirato volontariamente a vita privata e non ha mai pronunciato una sola parola né contro la Chiesa, né contro il Papa, né contro il nuovo Presidente di CL. Noi ricostruiremo, proseguendo l’inchiesta, tutti i passaggi che hanno portato fino alle sue dimissioni e spiegheremo anche cosa è accaduto dopo; nel frattempo, però, c’è chi guida il movimento alimentando una contronarrazione martellante: «quanto accaduto nei dieci anni passati va cancellato», «i precedenti presidenti erano “cattivi”», fino a promuovere uscite di articoletti, post sui social e messaggini in chat che affermano il falso e colpiscono l’ex Presidente ma non solo, anche tutti coloro che vengono etichettati come «vicini a Carrón». Questa strategia, più che chiarire, finisce per svelare che qualcosa non torna. Se il problema fosse stato davvero tecnico - norme sbagliate, correzioni necessarie, aggiornamento e avanti - non ci sarebbe alcun bisogno di un lavaggio del cervello in stile George Orwell, con la ripetizione ossessiva del ritornello: “prima tutto brutto, oggi tutto bello”. È la postura tipica di chi agisce per insicurezza, e cerca di neutralizzare chi percepisce come competitor, riscrivendo il passato per legittimare il presente. Non è questo il comportamento che la Chiesa può permettersi di assumere. Anche qualora vi fossero stati degli errori - e qui non vi è alcuna traccia che lo dimostri - il Vangelo indica un criterio diverso di giudizio e di azione, non quello che oggi viene applicato.
Il comportamento del Dicastero
Va riconosciuto che l’atteggiamento iniziale del Dicastero poteva anche essere letto come espressione di una preoccupazione reale. Ma quella preoccupazione avrebbe dovuto fermarsi davanti a due evidenze: da un lato il decreto e la lettera del Pontificio Consiglio per i Laici, approvati prima della nascita dell’attuale Dicastero; dall’altro la possibilità - mai seriamente percorsa - di ascoltare tutti i Memores Domini, non uno sparuto gruppo di persone, per verificare se i rischi ipotizzati si fossero mai concretizzati. E la verifica avrebbe portato a una conclusione semplice: quei rischi, pur astrattamente immaginabili, non si sono mai verificati. Lo confermano, peraltro, le stesse poche persone che si rivolsero al Dicastero le quali parlano di valutazioni e supposizioni del tipo “potenzialmente potrebbe essere…”.
Qui riemerge un nodo che negli ultimi anni si è ingigantito - anche alla luce di quanto è emerso ed emerge nel dibattito attorno a Vos estis lux mundi — e che non riguarda Comunione e Liberazione. Non si possono costruire colpe retroattive imputando alle persone di non aver applicato criteri, procedure o categorie giuridiche che all’epoca dei fatti (o quando sono avvenuti o quando bisognava approvare delle scelte, delle norme, ecc…) non esistevano, oppure non erano ancora qualificate come illecito. Lo abbiamo già visto in diverse diocesi: a vescovi e responsabili si contestano omissioni sulla base di standard successivi, come se allora fosse possibile prevedere ciò che non era previsto né tipizzato. Lo stesso schema viene proiettato nell’affrontare la vicenda dell’Associazione dei Memores Domini. Se l’obiettivo del Dicastero fosse stato davvero la tutela delle persone, la strada corretta era una sola: intervenire sulle norme, correggere il testo, rafforzare i contrappesi. Non giustificare ed avvallare una campagna contro chi quelle norme le aveva approvate insieme agli altri membri del Consiglio Direttivo, con intenzioni che non avevano nulla a che vedere con l’abuso - e lo dimostra un dato essenziale: in cinque anni di vigenza di quel Direttorio non è emerso alcun abuso. Se nel 2018 si riteneva che esistesse un rischio strutturale nell’impianto normativo, la via lineare era ridurre quel rischio con una modifica del Direttorio e dello Statuto, delimitando i poteri e restringendo i margini di azione. Ciò che non è accettabile è trasformare in capri espiatori coloro che hanno esercitato quelle funzioni sulla base di quei testi senza aver commesso illeciti.

Carrón come Consigliere Ecclesiastico
Sono numerose le testimonianze raccolte da Silere non possum prima dell’avvio di questa inchiesta che convergono su un punto: don Julián Carrón non ha mai esercitato la guida come imposizione della propria volontà. Più di una persona, anzi, ricorda come soprattutto nei primi tempi del suo mandato gli venisse rimproverato l’opposto: «Si sentiva dire spesso: “non prende mai decisioni” e che era troppo spirituale e non ti diceva cosa fare». Letto dall’interno del suo impianto educativo, però, quel modo di procedere aveva una logica precisa. Carrón ha sempre legato il momento della decisione alla libertà personale e al metodo dell’esperienza, chiarendo che la fede - e dunque le scelte che da essa scaturiscono - «non può barare» perché è «legata alla tua esperienza: è come se dovesse comparire davanti al tribunale della tua esperienza». Peraltro, Carrón ha ripreso semplicemente quanto detto da Don Giussani. La decisione, in questa prospettiva, matura come riconoscimento personale di ciò che regge nella vita, non come applicazione di una linea o adesione a uno schema. Per questo Carrón insiste sul fatto che la fede si verifica quando «mostra la sua capacità di illuminare la ragione, sostenere l’affetto e rendere possibile l’esercizio della libertà»: senza questa verifica, la scelta resta esteriore e non forma un soggetto adulto. Da qui discende anche una conseguenza operativa: l’autorità e la comunità sono chiamate ad accompagnare, non a sostituirsi alla coscienza, né ad anticipare la decisione dell’altro. In Abitare il nostro tempo la stessa impostazione viene ulteriormente esplicitata: decidere implica esporsi al rischio, attraversare l’incertezza, riconoscere che anche l’errore può entrare in un percorso autentico di maturazione.
La critica che per lungo tempo l’area legata a Tempi e alla Fraternità San Carlo ha rilanciato può essere riassunta così: «Proprio perché si può sbagliare, serve qualcuno che dica cosa fare. Cosa è giusto e cosa è sbagliato». È un’impostazione che, di fatto, presuppone un’autorità incapace di errore, come se il problema della fallibilità riguardasse sempre e solo la base e mai chi guida. Ma è la stessa logica che alimenta, fuori dal perimetro ecclesiale, la domanda di una politica “tutoria” chiamata a decidere al posto delle singole persone: un riflesso di paura che cerca sicurezza delegando la responsabilità. Il risultato, però, è una sottrazione di libertà e di maturità. Proprio per questo il messaggio di don Giussani, ripreso poi da Carrón, resta una ricchezza per la Chiesa ed è illuminante anche per chi non ha mai fatto parte del movimento: rimette l’essere umano al centro senza deresponsabilizzarlo. In questa prospettiva la decisione non viene dall’esterno come un comando, ma nasce da un giudizio personale reso possibile dagli elementi che ciascuno ha davanti; non è “qualcuno” a dover scegliere al tuo posto, sei tu che sei chiamato a farlo.
Memores, Fraternità e Movimento
Se questo è l’impianto, allora è chiaro che l’abuso è un’altra cosa. L’abuso comincia quando qualcuno martella senza sosta, riducendo tutto a un catechismo di consegne: «Questo è buono, quello no». E quando gli chiedi: «Perché?», la risposta non è un argomento, ma un’investitura: «Perché te lo dico io, che sono nominato dalla Chiesa». È così che si finisce per far passare affermazioni non dimostrate e per legittimare messaggi privi di evidenze. In Comunione e Liberazione, però, esiste anche un antidoto che a molti ha permesso di aprire gli occhi: una certa cultura del giudizio. In CL vivono giovani universitari, professori, persone abituate a misurarsi con il reale; e l’educazione ricevuta - prima con il Gius, poi con Carrón - li ha allenati a fare domande. Se qualcuno sostiene che un muro è giallo mentre lo vedono nero, non è gente che risponde: “Va bene, sarà giallo”. Chiede conto, chiede ragioni, chiede prove. E quando si sente replicare: «È nero perché lo dico io», non interrompe il dialogo per capriccio, ma perché capisce che non si sta più parlando la stessa lingua: quella in cui le cose si spiegano, si argomentano, si dimostrano; non si impongono.
Questa è la spina dorsale costruita in anni di lavoro, anche grazie a guide e sacerdoti capaci. Perché un conto è l’obbedienza alla Chiesa, un altro è la sottomissione cieca ad un gioco di potere. Il punto è che tale impostazione entra in crisi quando prevalgono interessi di ruolo, incarico, posizione: allora si piega la logica del metodo e si tenta di giustificare un vero e proprio “colpo di mano” con il lessico più comodo e più opaco - «non detti», «si dice», «forse», «gravi errori» mai circostanziati - cioè esattamente ciò che consente di colpire senza dover dimostrare. Nella Chiesa, del resto, dinamiche di questo tipo le abbiamo già viste più volte. Basti pensare al caso di Padre Pio, quando padre Agostino Gemelli arrivò a liquidarlo come uno “psichiatrico”. Negli ultimi anni, poi, in diverse abbazie e monasteri si è ripetuto un copione simile: piccoli gruppi, numericamente minoritari rispetto alla comunità, hanno cercato un varco facendo leva non sul confronto interno - spesso regolato da assetti realmente partecipativi - ma sulla possibilità di ottenere una “sponda” esterna, puntando su agganci e canali privilegiati fino ai livelli più alti. In altre parole: si cerca l’appoggio potente per ottenere dall’alto ciò che la struttura interna, proprio perché più equilibrata e condivisa, non concederebbe.
È una logica che ricorda quella di certi passaggi politici: invece di misurarsi con il consenso e con le elezioni, si prova a cambiare le regole per restare al governo più a lungo o per andare alla guida senza passare per le elezioni. Beh, in realtà non accade solo in politica. Anche in alcune Società di vita apostolica c’è chi interviene sugli statuti per allungare i propri mandati - non due anni ma tre - costruendo una legittimazione formale che copre un’operazione di potere. In quei casi, però, grazie alle protezioni e agli appoggi di cui si dispone, non si parla di violazioni né di abusi: i Dicasteri tacciono, e a pagarne il prezzo restano preti e seminaristi. Di questo, però, parleremo in un altro capitolo.
S.V. e M.P.
Silere non possum