C’è un’immagine che oggi ha attraversato i telegiornali italiani: il presidente del Consiglio Giorgia Meloni a tavola, a pranzo con alcuni membri del suo governo. Un’immagine studiata, costruita, trasmessa non per raccontare la quotidianità di un pranzo, ma per mandare un messaggio simbolico: la famiglia come nucleo identitario, la famiglia come radice della nazione.
L’occasione è quella di promuovere la candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’UNESCO.
Questa rappresentazione, ormai, è diventata stucchevole e ipocrita, perché riduce una realtà complessa a una cartolina da propaganda. Non è una novità: la destra di Meloni — ma in generale molta politica che si richiama a valori cattolici tradizionali — ha fatto della famiglia una bandiera da esibire, senza interrogarsi su cosa davvero significhi viverla.
La famiglia come mito politico
L’uso politico della famiglia è antico: nella retorica fascista era il cuore della “romanità”; nel cattolicesimo politico del dopoguerra divenne la cellula della società cristiana. Oggi Meloni riprende lo stesso schema: la famiglia “naturale” come unico modello legittimo, opposta a tutte le altre forme di convivenza che vengono bollate come degenerazioni.
Ma qui si annida l’equivoco: l’idea che la famiglia tradizionale sia buona per definizione. Come se bastasse il matrimonio religioso, i figli, la convivenza stabile per garantire amore, rispetto, crescita. La realtà, al contrario, mostra che proprio nelle famiglie tradizionali possono consumarsi i peggiori drammi: violenze domestiche, maltrattamenti, abusi sessuali.
Secondo l’ISTAT, oltre il 60% degli episodi di violenza in Italia avviene proprio tra le mura domestiche. Ma di questo si parla poco, perché incrinerebbe l’immagine rassicurante della “famiglia baluardo dei valori”.
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L’ipocrisia cattolica e il silenzio sociale
La pressione sociale cattolica, specie negli ambienti più conservatori, spesso impedisce di nominare i fallimenti familiari. Una coppia che si separa è vista come un tradimento della fede; un figlio che denuncia i maltrattamenti rischia di essere accusato di “rovinare la famiglia”. Si preferisce il silenzio, il mantenimento dell’apparenza.
Hannah Arendt ci ricordava che il male più grande spesso si annida nella banalità del quotidiano, nel conformismo, nell’incapacità di dire ciò che è. Nelle famiglie, questo conformismo si traduce in un tacito accordo: non raccontare mai i conflitti, non mostrare mai le crepe. Non mancano esempi di persone che amano ripetere quanto “la famiglia sia stata fondamentale” nella loro vita, salvo poi vivere rapporti costantemente conflittuali con i propri cari, al punto da logorare profondamente l’equilibrio emotivo e il sistema nervoso.
Eppure le conseguenze psicologiche sono devastanti. La psicoterapeuta francese Marie-France Hirigoyen, nei suoi studi sulla violenza psicologica, ha messo in luce come i contesti familiari che si reggono sulla negazione del conflitto diventino terreno fertile per abusi invisibili, difficili da denunciare e da provare.

La Generazione Z e il coraggio di nominare i traumi
La Generazione Z rompe questo silenzio. Migliaia di giovani sui social raccontano pubblicamente i propri traumi familiari: padri autoritari, madri manipolatrici, ambienti religiosi oppressivi, abusi mai denunciati. Non per moda, ma per necessità: nominare ciò che si è subito diventa una forma di liberazione. La psicologia lo conferma: come spiega lo psicanalista Massimo Recalcati, la famiglia non è necessariamente un luogo di protezione, ma può trasformarsi in un luogo di trauma originario. Non basta il modello esterno, non basta la tradizione: ciò che conta è la capacità di trasmettere desiderio di vita e riconoscimento reciproco.
E qui la contraddizione diventa lampante: mentre la politica ostenta la famiglia come immagine perfetta, le nuove generazioni denunciano proprio quella perfezione come menzogna. Che a farsi paladini del modello di “famiglia tradizionale” siano proprio coloro le cui vicende familiari hanno ben poco di tradizionale rende l’intera operazione ancora più grottesca.
La scena stucchevole del pranzo istituzionale
L’immagine di Giorgia Meloni a pranzo con i ministri, in televisione, appare dunque non come gesto autentico, ma come teatro della politica. Una messinscena che cerca di incarnare l’idea di comunità, ma che in realtà rinforza lo stereotipo: “vedete, noi siamo la famiglia italiana”. Ancora una volta tutto va in onda in diretta sulla Rai — ormai ribattezzata da qualcuno “TeleMeloni” — dove cronisti compiacenti assecondano la presidente del Consiglio con domande preparate e scenari accuratamente studiati. E così, mentre a Gaza si consuma un genocidio e i conflitti si moltiplicano nel mondo, Giorgia Meloni preferisce apparire in televisione accanto a Sabrina Ferilli e Paolo Bonolis, intervistata da Mara Venier, non per affrontare questioni cruciali, ma per discutere di quale sia, a suo dire, il pranzo domenicale ideale in famiglia.
È un’operazione di marketing simbolico, non diversa dalle campagne pubblicitarie che mostrano sorrisi impeccabili attorno a una tavola imbandita. Ma la vita reale non è così: nelle famiglie si litiga, ci si separa, ci si fa del male. E spesso proprio per l’incapacità di accettare il fallimento, si finisce per generare tragedie.
Uscire dalla retorica: che cos’è davvero famiglia?
La domanda che resta aperta è radicale: cosa significa davvero oggi vivere i valori della famiglia? È sufficiente stare sotto lo stesso tetto per tutta la vita, anche a costo di violenza e silenzio? Oppure la famiglia è quel luogo dove ci si può amare anche nel conflitto, dove la separazione può essere scelta di salvezza, dove i fallimenti non sono vergogna ma possibilità di rinascita?
Lo scrittore Bauman, in Amore liquido, ricordava che la vera sfida contemporanea non è conservare la famiglia come istituzione, ma imparare a stare nelle relazioni senza possesso e senza paura. È qui che la retorica politica cade: invece di parlare della vita concreta delle persone, preferisce proporre un simulacro di perfezione.
L’immagine e la verità
La scena di oggi non mostra la realtà della famiglia italiana: mostra un ideale costruito, una narrazione identitaria. Ma la verità, se vogliamo affrontarla, è che molti traumi nascono proprio in famiglia e che i valori cattolici, se ridotti a ideologia, diventano gabbia, non liberazione. Non di rado uomini e donne conducono una doppia vita pur di alimentare la finzione di una famiglia perfetta. Non mancano ecclesiastici e laici cattolici che portano la responsabilità morale di aver taciuto su violenze domestiche in nome di una presunta unità familiare; così come non sono rari i contesti ecclesiali che spingono i giovani al matrimonio pur sapendo che non è davvero ciò che desiderano. Forse la vera sfida culturale e politica non è difendere la famiglia come slogan, ma liberarla dall’ipocrisia, riconoscendo la sua fragilità e aprendola alla possibilità di essere davvero luogo di crescita, e non di violenza taciuta.
p.S.D. e F.P.
Silere non possum