Pope Francis meets Jesuits in Portugal
Il 5 agosto 2023, durante il suo viaggio apostolico in Portogallo in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, Papa Francesco ha incontrato i membri della Compagnia di Gesù presenti nella nazione. Circa novanta gesuiti.
Le innumerevoli interviste che Jorge Mario Bergoglio continua a rilasciare diventano, sempre di più, motivo di imbarazzo. D’altro canto, però, emerge sempre più chiara la sua forma mentis e questo ci permette di comprendere anche il suo agire.
Una cosa che Francesco non è capace a fare, lo abbiamo visto in questi anni, è accogliere le critiche. Alla prima domanda, rivoltagli da un giovane gesuita, Francesco è tornato sulla pornografia e sul discorso che fece in merito ai “preti che guardano la pornografia”. Francesco non si ferma, anzi, è una di quelle persone che, più gli dici di non fare una cosa, più loro la faranno. Durante il colloquio ha detto, ovviamente per incensarsi un po’, che gli è stato riferito che dopo quell’incontro “qualcuno” (chiaramente non dice chi) avrebbe detto “si vede che è stato in confessionale”. Sì, peccato che questo qualcuno non esista. Ciò che i preti hanno detto è ben diverso, ovvero “non sappiamo se sta parlando di sé stesso e di quello che guarda lui, ma dire determinate cose che riguardano la vita privata della gente, non è certamente pastorale”.
Ma Francesco continua a raccontare storie, in una realtà che è tutta sua. Il clero è ormai stanco di queste affermazioni lanciate per far ottenere qualche click ad Antonio Spadaro. Mentre i sacerdoti ogni giorno lavorano nelle parrocchie con fatica, ci sono questi gesuiti elitari che continuano a guadagnare migliaia di euro per scrivere due idiozie su il Fatto Quotidiano o sull’Osservatore Romano. Un quotidiano che era prestigioso, oggi diventa la vetrina di analfabeti come il messinese gesuita confuso.
A proposito di questo, il Papa parla anche di povertà nella Compagnia di Gesù.
Belle parole, quelle di Francesco. Non si è reso conto, però, che stava parlando di sé stesso e davanti a padre Tonino Spadaro. Ci potrebbe dire il Santo Padre quanto ci costa tenerlo in hotel da dieci anni? Ci potrebbe dire quanto costa il giornaletto La Civiltà Cattolica alla Compagnia di Gesù? I viaggi di Antonio Spadaro? Quanto costano? Le numerose assunzioni che Francesco ha fatto fare dei suoi amici? La creazione di uffici ad hoc per Zanchetta e molti altri? No, perchè parlare di povertà è tutto bello, ma nella pratica poi si vedono i risultati.
Ogni giorno sempre peggio
La teologia di Bergoglio, finissima e purissima, si esprime in frasi come questa: "quando uno è in alto l’unica cosa che mostra è il sedere. Questa è sapienza".
Non solo chimica ma anche pura teologia hanno educato il piccolo Jorge Mario negli anni. Teologia della strada, fatta dalla cugina che lo aiuta a trovare i vescovi e la nonna "vecchia saggia". San Tommaso, Sant'Agostino? Ma chi sono?
Non poteva mancare, qui, la teoria della cospirazione. Anche questa, chiaramente, pura teologia della strada. La vecchia argentina che dice a Bergoglio: «Le do un consiglio: se la fanno Papa, si compri un cagnolino». «Perché?», le ho chiesto. «Dia da mangiare al cagnolino per primo», mi ha replicato. La vecchia era povera, di una villa miseria, ma di fatti della Chiesa se ne intendeva…».
Capito? La vecchia se ne intendeva. Nessuno, però, ha detto a Jorge Mario Bergoglio che l'elezione si può rifiutare. Se una realtà mi fa così schifo, alzo i tacchi e me ne vado. Nessuno lo ha costretto.
Non manca la critica alla realtà americana. Fa sorridere che la critica giunga da un gesuita che si era preso un anno sabbatico. Siamo di nuovo al solito punto: il bue che da del cornuto all'asino. Lui si prende un anno sabbatico e poi si lamenta di coloro che vivono seriamente la loro vita ecclesiale. Il Papa non risponde ad una domanda, proprio come è solito fare, che riguarda la Compagnia di Gesù. Il religioso chiede: "E tanti accusano pure i gesuiti, che di solito sono una sorta di risorsa critica del Papa, di non esserlo più ora. Vorrebbero addirittura che i gesuiti la criticassero esplicitamente. Lei sente la mancanza della critica che i gesuiti erano abituati a fare nei confronti del Papa, del Magistero, del Vaticano?".
Francesco non si sofferma sul fatto che i gesuiti criticavano tutti ma, oggi, non criticano il Papa. Non spiega il perchè. Possiamo farlo noi, però. Perchè a criticare il Vaticano, la Chiesa e il Magistero precedente ora c'è il Papa stesso. Perchè scomodare i gesuiti? Inoltre, oggi, i gesuiti hanno trovato terreno fertile per le loro eresie. Come criticare un sistema che ci permette di dire le nostre idiozie e coprire i nostri abusatori?
Come mai Papa Francesco, così promotore della "tolleranza zero", non ha ancora fatto produrre un report sugli abusi di tutta la Compagnia di Gesù? Forse perchè il sistema è quello Rupnik? Che dire, la Compagnia non ha alcun motivo di criticare il Papa: gli copre le centinaia di abusi che vengono commessi nelle loro comunità, gli fa da vetrina per le loro attività.
Il Papa dice: "È uno dei pregi attuali che ha la Compagnia: non accantona i problemi, se ne parla, sia con il superiore sia tra di voi". Sì, in effetti il caso Rupnik ci dimostra questo. Probabilmente nessuno aveva paura di parlarne all'interno, ecco perchè siamo arrivati a tutto questo. Il problema è che il Papa tiene la sua mano potente sulla testa di chi vuole lui. Poi, sia chiaro, Rupnik i porno non li guardava mica, li metteva in atto direttamente. Ma erano porno eterosessuali, quindi state sereni.
Ma cosa vogliono di più i gesuiti? Il fatto che non abbiano vocazioni ma, anzi, ci sono molti che escono, non è un problema per il Papa. Dice: "Direi che per la vocazione di fratelli non bisogna cercare candidati – a questo penserà il Signore –, ma dobbiamo aprire le porte per scorgere in tanti giovani questa possibilità".
Penserà il Signore, chiaro? Noi, invece, apriamo. Non si sa cosa ma apriamo. Bergoglio non si rende conto che i giovani sono ormai schifati da questo pressappochismo e lui può continuare ad aprire quello che vuole ma, a parte il vento, non entrerà nulla. Anzi, usciranno.
Si balla il tango...
"C’è un tango argentino molto bello che s’intitola Barranca abajo, «giù per il burrone». Quando una persona comincia a scendere giù per il burrone, è perduta. Scivola giù, e da sotto ti attira, ti attira. Da qui l’importanza dell’esame di coscienza, affinché i demoni «educati» non ci entrino dentro senza fare rumore", ha detto il Papa ai gesuiti.
Poi, non poteva mancare la stoccata sulle vocazioni o sui candidati al sacerdozio. Francesco dimentica sempre di raccontare come una psicologa, laica e donna, aveva detto che lui non doveva essere ordinato. Però, utilizzando il solito sistema che utilizzano molti all'interno della Chiesa oggi, proietta sugli altri piuttosto che guardare a sé stesso. "Quando ero Provinciale - dice il Papa - i rapporti migliori in vista dell’ordinazione di uno scolastico me li davano i fratelli o le donne che lavoravano nella casa di formazione. Ricordo un fratello, vero uomo di Dio, che non parlava quasi mai, svolgeva i suoi compiti, sempre con il sorriso, pregava molto. Una volta gli chiesi di parlare di un caso. Venne a trovarmi e mi disse: «Guardi, non lo ordini quello scolastico. Non lo mandi via, ma non lo ordini, e stia a vedere». Sei mesi dopo lo scolastico in questione lasciò la Compagnia, perché non aveva sopportato di non essere stato ordinato nel tempo previsto. Era venuta fuori una vita affettiva molto confusa".
Chiaro? In questa frase Francesco spiega perchè lo cacciarono dall'Argentina come provinciale e lo spedirono in Germania. Perchè Jorge Mario era solito alimentare il chiacchiericcio. Piuttosto che valutare lui le vocazioni, utilizzava le civette per sapere i fatti altrui. Non si rende conto, pover'uomo, che ci sta dicendo che lui non era capace a valutare la vocazione di un candidato. Non sapeva valutarla dal punto di vista della preghiera, del servizio, del rendimento scolastico, del rapporto coi fratelli. Nulla. Assolutamente nulla. L'unico che se ne accorse era uno spione che rendicontava sulla "vita affettiva molto confusa". E vi sfidiamo a scoprire quale sarà stata questa vita affettiva confusa.
Eppure, i grandi maestri delle fede (non certo le vecchie argentine), ci insegnano che se una vocazione non è tale lo si evince dai risultati: preghiera, studio, vita fraterna. Non certo dalla "vita affettiva confusa". Ma per chi vive ogni giorno a Santa Marta queste sono solo conferme. Francesco non fa' lo stesso qui? Chiede alle megere di turno informazioni su tizio e caio. Poi, di conseguenza, agisce. La megera d'eccezione è anche la cugina, alla quale chiede i nomi dei futuri vescovi.
La grande Bugia
Infine, la questione del sinodo. Francesco lo definisce la sua gioia. E dice: "A questo proposito voglio ribadire una cosa: il Sinodo non è una mia invenzione. È stato Paolo VI, alla fine del Concilio, a rendersi conto che la Chiesa cattolica aveva smarrito la sinodalità. Quella orientale la mantiene. Allora disse: «Bisogna fare qualcosa», e creò la Segreteria per il Sinodo dei vescovi".
Santità, forse Lei è abituato a parlare con i giornalisti che non hanno idea di cosa Lei dice e quindi fungono da scrivani. Ma non venga a dirci che il Sinodo lo ha inventato Paolo VI perchè quel sant'uomo che abbiamo ingiustamente criticato, un vero e proprio martire, oggi si sta rigirando nella tomba. Lo abbiamo già spiegato qui, Paolo VI aveva previsto il sinodo e non era ciò che è diventato oggi grazie allo stupro normativo effettuato da Francesco.
Il Papa oggi sta giocando, ogni giorno sempre più, a ricoprire il ruolo del poliziotto buono demonizzando tutto ciò che è stato prima di lui. Tale tecnica è tipica del narcisista. In questo modo Francesco ha calpestato Apostolica Sollicitudo ma anche il Concilio Vaticano II. Anche in merito al sinodo, quindi, Francesco precisa: "Tempo fa, nel 2001, ho partecipato come Presidente delegato al Sinodo dedicato al vescovo come servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo. Nel momento in cui stavo preparando le cose per la votazione di ciò che era giunto dai gruppi, il cardinale incaricato del Sinodo mi disse: «No, questo non metterlo. Toglilo». Insomma, si voleva un Sinodo con la censura, una censura curiale che bloccava le cose".
Possibile che tutto l'agire di Francesco è mosso da una repressione per ciò che ha subito negli anni precedenti? Inoltre, nessuno si chiede perchè le cose gli venivano bloccate? Evidentemente un motivo c'era, no? Questo serva a futura memoria, anche per gli eminentissimi signori cardinali. Eleggere persone che hanno vissuto nella repressione delle loro "incredibili trovate" è un rischio. Se questo rischio lo si vuole correre poi non si vada a piangere nei pertugi delle Chiese dell'Urbe.
Noi, Santità, siamo stufi. Veda un po' Lei.
d.R.D.
Silere non possum
TRASCRIZIONE DELL'INCONTRO
Salve, Santo Padre, mi chiamo Vasco, studio Filosofia, sono il più giovane della Provincia, e per questo mi hanno chiesto di parlare per primo: gli ultimi saranno i primi… Vorrei farle una domanda. Davanti alle sfide della nostra generazione, guardando alla nostra società sessualizzata, consumista…, secondo la sua esperienza di gesuita, crede che la nostra formazione sia strutturata per affrontare queste sfide? E come possiamo curare sempre al meglio la nostra formazione di gesuiti a livello affettivo, sessuale, corporeo?
In realtà stai ponendo due domande, no? Anzi, un’affermazione e una domanda. Viviamo in una società «mondanizzata», che mi preoccupa molto. Mi preoccupa quando la mondanità si fa spazio nella vita consacrata. Proprio oggi è stata resa pubblica una lettera che ho scritto ai preti di Roma sul clericalismo, che è una forma di mondanità. Guardate che la mondanità spirituale è un tranello molto ricorrente. Bisogna imparare a distinguere: una cosa è prepararsi a dialogare con il mondo – come fate voi con il dialogo con il mondo dell’arte e della cultura –, altra cosa è compromettersi con le cose del mondo, con la mondanità.
Mi ha molto impressionato leggere la conclusione di un libro di padre de Lubac: dedica le quattro pagine finali di Meditazione sulla Chiesa – sono solo quattro pagine, leggetele – alla mondanità spirituale. Voi, che fate discernimento, vi siete mai interrogati ciascuno sulla propria personale mondanità spirituale? Io sono mondano, spiritualmente? È una domanda che vi lascio. E sapete che cosa dice de Lubac? Dice che questo è il peggior male che possa penetrare nella Chiesa, peggio ancora che l’epoca dei papi «libertini».
Però attenzione: bisogna dialogare con il mondo, perché non potete vivere sottaceto. Non dovete essere religiosi introvertiti, che sorridono verso dentro, parlano verso dentro, proteggono il proprio ambiente senza convocare nessuno. Dunque, bisogna uscire in questo mondo, con i valori e i disvalori che ha. E tu hai evidenziato un po’ il problema della vita facile, della vita borghese, anche «eroticizzata», come dici tu, ed è vero…
L’anno passato ho rivolto un discorso – o, meglio, ho pronunciato due o tre parole, e poi hanno fatto domande – a tutti i preti che lavorano nella Curia. Per la maggior parte sono giovani. E a un certo punto ho detto loro: «Qui c’è qualcosa che voi non dite, ovvero l’uso del cellulare e della pornografia sul cellulare. Quanti di voi guardano pornografia sul cellulare?». Dopo che l’ho detto, mi hanno raccontato che uno ha commentato: «Si vede che lui ha passato ore in confessionale».
Quando ero novizio, ci parlavano della castità, della santa castità. Ci chiedevano di non metterci a guardare foto un po’ audaci…, insomma, erano altri tempi. Tempi in cui i problemi non erano così acuti, e in cui per giunta venivano nascosti. Oggi, grazie a Dio, la porta è spalancata, e non c’è motivo che i problemi restino nascosti. Se tu nascondi i tuoi problemi, è perché scegli di fare così, ma non è colpa della società, e nemmeno della tua comunità religiosa. È uno dei pregi attuali che ha la Compagnia: non accantona i problemi, se ne parla, sia con il superiore sia tra di voi.
Oggi il problema serio riguarda i rifugi nascosti della ricerca di sé, che molte volte riguardano la sessualità, ma anche altro. Che fare? Io trovo aiuto nell’esame di coscienza, come chiedeva sant’Ignazio. Sant’Ignazio ne dispensava molto di rado. Ti dispensava dall’orazione se eri malato, se non potevi, ma non ti esimeva dall’esame, perché serve a vedere che cosa sta succedendo dentro di te. E ci sono persone consacrate che hanno il cuore esposto ai quattro venti, con le finestre aperte, le porte aperte. Insomma, non hanno consistenza interna.
A ciò che chiedi, rispondo: «Fatti una domanda: quale spirito mi muove? Qual è lo spirito che mi muove abitualmente, e quale mi muove oggi o mi ha mosso quel giorno?».
Io non ho paura della società sessualizzata, no; mi fa paura come ci rapportiamo con essa, questo sì. Ho paura dei criteri mondani. Preferisco usare il termine «mondani», piuttosto che «sessualizzati», perché il termine abbraccia tutto. Per esempio, la smania di promuoversi. L’ansia di risaltare o, come diciamo in Argentina, di «arrampicarsi». E pensare che chi si arrampica finisce per farsi male da solo.
Mia nonna, che era una vecchia saggia, un giorno ci disse: «Nella vita bisogna progredire», comprare un terreno, i mattoni, la casa… Parole chiare, venivano dall’esperienza dell’emigrante, anche papà era un immigrato. «Ma non confondete il progredire», aggiungeva la nonna, «con l’arrampicarsi. Infatti, chi si arrampica sale, sale, sale e, invece di avere una casa, di mettere su un’impresa, di lavorare o farsi una posizione, quando è in alto l’unica cosa che mostra è il sedere». Questa è sapienza.
Buonasera, Santità, ancora molte grazie. Mi chiamo Lorenzo e lavoro con bambini e ragazzi in un quartiere povero alla periferia di Lisbona. Lei ci ha parlato molte volte di quanto siano importanti la vicinanza e l’amicizia con i poveri e con i migranti. Vorrei chiederle che cosa possiamo fare noi, gesuiti, personalmente e nelle nostre comunità, affinché il nostro stile di vita e la nostra testimonianza siano sempre più un segno profetico, in modo che abbiamo un impatto maggiore nella vita dei più poveri. Grazie.
Il lavoro con i poveri, che nella Formula ignaziana è implicito, nella Compagnia ha però seguìto varie strade, varie piste; c’è stata anche qualche deviazione, ma è stata una ricerca molto intensa, soprattutto nel secolo scorso.
Ricordo che in Argentina – quando io ero studente – uno dei padri andò a vivere in una villa miseria, e lo guardavano un poco di traverso, un po’ come accadeva a padre Llanos a Madrid. Era considerato un pazzo. Ora non è più così. Oggi vediamo che la stessa spiritualità ci porta in quella direzione, verso un impegno con coloro che stanno ai margini: non solo al margine della religione, ma anche al margine della vita.
Poi, ai tempi di padre Janssens, sono nati i centri di ricerca e di azione sociale, che all’epoca hanno aperto un bel cammino di riflessione, e infine è arrivato l’«inserimento» diretto, la scelta di vivere con le persone povere. Perciò ho menzionato quel prete, uno di quelli che hanno avuto il coraggio di inserirsi. Oggi l’inserimento tra i poveri aiuta noi stessi, ci evangelizza. Sant’Ignazio ci fa fare un voto, quello di non cambiare la povertà nella Compagnia, se non per renderla più stretta. In questo c’è un’intuizione, uno spirito di povertà che credo dobbiamo avere tutti.
Insomma, che cosa c’è nella spiritualità ignaziana? Sì, c’è l’opzione per i poveri e di accompagnare i poveri. Ma forse è l’unico modo in cui si realizza la giustizia sociale? Non è il solo modo. Ci sono mille maniere di avvicinarci ai problemi sociali. L’inserimento, probabilmente, ha una splendida autenticità, perché significa condividere. E permette di conoscere e seguire la sapienza popolare.
Vi racconto una cosa. A me piaceva andare nelle villas miserias quando ero arcivescovo. Un giorno che ci andai, Giovanni Paolo II era molto grave. Presi l’autobus per andare a una delle villas e, quando arrivai, mi dissero che il Papa era morto. Celebrai la Messa con la gente, e poi ci siamo fermati a dialogare. Una vecchietta mi ha domandato: «Mi può dire come si elegge un Papa?». Io ho spiegato… «E lei, la possono fare Papa?». Ho detto: «Possono fare Papa chiunque». Mi ha risposto: «Le do un consiglio: se la fanno Papa, si compri un cagnolino». «Perché?», le ho chiesto. «Dia da mangiare al cagnolino per primo», mi ha replicato. La vecchia era povera, di una villa miseria, ma di fatti della Chiesa se ne intendeva…
È una cosa interessante. I poveri hanno una sapienza speciale, la sapienza del lavoro, e anche la sapienza di assumere il lavoro e la sua condizione con dignità. Quando il povero si «incattivisce» perché non sopporta la sua situazione – ed è comprensibile –, allora possono farsi strada il rancore e l’odio. Anche quello è il nostro lavoro: nell’accompagnarlo, bisogna evitare che il povero se ne faccia travolgere, nella prospettiva di aiutarlo a camminare, a progredire e a riconoscere la sua dignità. Nei quartieri poveri ci sono problemi seri, che non sono più seri di quelli che a volte ci sono nelle zone residenziali, salvo il fatto che questi restano nascosti.
Ci sono problemi seri, ma c’è anche molta sapienza, nelle persone che vivono del loro lavoro, che hanno dovuto emigrare, che soffrono, e lo si nota da come sopportano la malattia, come sopportano la morte. La pastorale popolare è una ricchezza, e quindi quelli di voi che sono chiamati a svolgerla, fatelo di cuore, perché è un bene per tutta la Compagnia.
Papa Francesco, vorrei farle una domanda come religioso fratello. Sono Francisco, l’anno scorso ho passato un anno sabbatico negli Stati Uniti. C’è stata una cosa che mi ha fatto grande impressione là, e che a volte mi ha fatto soffrire. Ho visto tanti, anche vescovi, criticare il suo modo di condurre la Chiesa. E tanti accusano pure i gesuiti, che di solito sono una sorta di risorsa critica del Papa, di non esserlo più ora. Vorrebbero addirittura che i gesuiti la criticassero esplicitamente. Lei sente la mancanza della critica che i gesuiti erano abituati a fare nei confronti del Papa, del Magistero, del Vaticano?
Hai verificato che negli Stati Uniti la situazione non è facile: c’è un’attitudine reazionaria molto forte, organizzata, che struttura un’appartenenza anche affettiva. A queste persone voglio ricordare che l’indietrismo è inutile, e bisogna capire che c’è una giusta evoluzione nella comprensione delle questioni di fede e di morale purché si seguano i tre criteri che indicava già Vincenzo di Lérins nel V secolo: che la dottrina si evolva ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. In altre parole, anche la dottrina progredisce, si consolida con il tempo, si dilata e si consolida e diviene più ferma, ma sempre progredendo. Il cambiamento si sviluppa dalla radice verso l’alto, crescendo con questi tre criteri.
Andiamo al concreto. Oggi è peccato detenere bombe atomiche; la pena di morte è peccato, non si può praticare, e prima non era così; quanto alla schiavitù, alcuni Pontefici prima di me l’hanno tollerata, ma le cose oggi sono diverse. Quindi si cambia, si cambia, ma con questi criteri. A me piace usare l’immagine «verso l’alto», vale a dire ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. Sempre su questa strada, che parte dalla radice con una linfa che sale e sale, e per questo il cambiamento è necessario.
Vincenzo di Lérins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite è errata.
Ma alcuni si chiamano fuori, vanno all’indietro, sono quelli che io chiamo «indietristi». Quando te ne vai all’indietro, formi qualcosa di chiuso, sconnesso dalle radici della Chiesa e perdi la linfa della rivelazione. Se non cambi verso l’alto, te ne vai indietro, e allora assumi criteri di cambiamento diversi da quelli che la stessa fede ti dà per crescere e cambiare. E gli effetti sulla morale sono devastanti. I problemi che i moralisti devono esaminare oggi sono molto gravi, e per affrontarli devono correre il rischio di cambiare, ma nella direzione che dicevo.
Tu sei stato negli Stati Uniti e dici che hai avvertito un clima di chiusura. Sì, avverto che si può sperimentare questo clima in alcune situazioni. Ma così si perde la vera tradizione e ci si rivolge alle ideologie per avere supporto e sostegno di ogni genere. In altre parole, l’ideologia soppianta la fede, l’appartenenza a un settore della Chiesa rimpiazza l’appartenenza alla Chiesa.
Voglio rendere omaggio al coraggio di Arrupe. Arrupe trovò una Compagnia che si era, per così dire, impantanata. Il generale Ledóchowski redasse l’Epitome… voi giovani sapete che cos’è l’Epitome? Neanche per sogno, dell’Epitome non resta niente! Era una selezione delle Costituzioni e delle Regole, tutto mescolato. Ma Ledóchowski, che era molto ordinato, con la mentalità dell’epoca, disse: «Lo compilo affinché i gesuiti abbiano chiaro per filo e per segno tutto quello che devono fare». E il primo esemplare lo mandò a un abate benedettino di Roma, suo grande amico, che gli rispose con un bigliettino: «Lei con questo ha ammazzato la Compagnia».
In altre parole, si formò la Compagnia dell’Epitome, la Compagnia che io ho vissuto nel noviziato, pure con grandi maestri, che erano di grande aiuto, ma taluni insegnavano certe cose che hanno fossilizzato la Compagnia. È quella la spiritualità che ricevette Arrupe, il quale ebbe il coraggio di metterla in movimento. Qualcosa gli sfuggì di mano, com’è inevitabile, come per esempio la questione dell’analisi marxista della realtà. Poi dovette mettersi a precisare alcune cose, ma lui è stato un uomo che ha saputo guardare in avanti. E con quali strumenti Arrupe ha affrontato la realtà? Con gli Esercizi spirituali. E nel 1969 fondò il Centro Ignaziano di Spiritualità. Il segretario di questo Centro, p. Luís Gonzalez Hernandez, fu incaricato di andare in giro per il mondo a dare Esercizi e ad aprire questo nuovo panorama.
Voi, i più giovani, non avete vissuto queste tensioni, ma quello che tu dici di alcuni settori negli Stati Uniti a me ricorda quel che abbiamo già vissuto con l’Epitome, che ha generato una mentalità tutta irrigidita e squadrata. Quei gruppi americani dei quali parli, così chiusi, si stanno isolando da soli. E anziché vivere di dottrina, della vera dottrina che sempre si sviluppa e dà frutto, vivono di ideologie. Ma quando nella vita abbandoni la dottrina per rimpiazzarla con un’ideologia, hai perso, hai perso come in guerra.
Santo Padre, lei per me è il Papa dei miei sogni dopo il Concilio Vaticano II. Che cosa sogna per la Chiesa del futuro?
A mettere in discussione il Vaticano II senza nominarlo sono in tanti. Mettono in questione gli insegnamenti del Vaticano II. E se guardo al futuro, penso che dobbiamo seguire lo Spirito, vedere che cosa ci dice, con coraggio. La settimana scorsa ho letto il documento che fa il punto sullo stato della Compagnia di Gesù, il De statu Societatis. Parla dell’oggi, ma sempre con apertura. Indica la possibilità di andare avanti, la necessità di proseguire su quella strada. Quindi, il mio sogno per il futuro è essere aperti a quello che lo Spirito va dicendoci, aperti al discernimento e non al funzionalismo.
Ho ben presente il «testamento» di Arrupe, quando in Thailandia si rivolse ai gesuiti che si occupavano di centri per rifugiati. Di che cosa parlò loro? Della preghiera. A quelle persone che erano impegnatissime nel lavoro con i rifugiati, parlò di preghiera. Nel viaggio di ritorno ebbe un ictus, quindi quello è stato il suo testamento.
Con la preghiera il gesuita va avanti, non ha paura di nulla, perché sa che il Signore gli ispirerà a tempo debito ciò che deve fare. Quando un gesuita non prega, diventa un gesuita disseccato. In Portogallo si direbbe che è diventato «un baccalà»…
Santità, la ringrazio molto per essere venuto qui da noi. Sono Federico, e da poco il Provinciale mi ha nominato Maestro dei novizi. Lei ha parlato degli Esercizi. Sant’Ignazio all’inizio li descrive come un momento per riordinare la vita, per non lasciarsi determinare da un affetto disordinato. Quali affetti disordinati crede siano più frequenti nella Chiesa, e soprattutto nella Compagnia?
Oggi è stata pubblicata la lettera sulla mondanità e sul clericalismo. Sono questi due punti che voglio evidenziare al nostro clero. Il clericalismo che s’insinua nei preti, ma peggio ancora quando s’insinua nei laici. I laici clericalizzati sono spaventosi. Ti rispondo con quei due spiriti, la mondanità e il clericalismo, che possono arrecare molto danno alla Compagnia.
Quale spirito mi ha mosso? Ho avuto un grande maestro spirituale, padre Fiorito, autore di molti libri. È stato lui a farmi conoscere le opere di un direttore spirituale del XVIII secolo, dello scolasticato di Chantilly, un gesuita, padre Claude Judde, al quale si deve uno scritto molto bello di discernimento sulle «parole motrici», vale a dire le parole che dico a me stesso per prendere una decisione, o quali mi orientano su una strada piuttosto che su un’altra.
Torno sull’argomento. La preoccupazione dei grandi gesuiti su quale spirito s’insinua può esserci di aiuto. Sì, oggi probabilmente sei guidato dal buono spirito, e devi ringraziare il Signore. Ma domani può insinuarsi quell’altro. Non dimenticate la parabola del Vangelo. Quando lo spirito cattivo esce da un uomo, si aggira nel deserto e si annoia. Intanto quell’uomo inizia la sua conversione, cambia tutto. Trascorso il tempo, lo spirito un giorno si dice: «Voglio rivedere la casa che avevo prima, vediamo in che condizioni è». Guarda dalla finestra e non crede ai suoi occhi: tutta in ordine, tutta pulita. Allora va a cercare sette peggiori di lui, e con quei diavoletti, con gli altri sette demoni, entra nella casa. Ma entra educatamente, senza farsene accorgere.
Quindi, un esame di coscienza serio deve mettere in guardia dai demoni che suonano il campanello, che chiedono «permesso», che paiono un nonnulla e poi si impadroniscono della casa. Gesù conclude che la condizione di quell’uomo alla fine è peggiore di prima. In altre parole, badate a non scivolare gradualmente. C’è un tango argentino molto bello che s’intitola Barranca abajo, «giù per il burrone». Quando una persona comincia a scendere giù per il burrone, è perduta. Scivola giù, e da sotto ti attira, ti attira. Da qui l’importanza dell’esame di coscienza, affinché i demoni «educati» non ci entrino dentro senza fare rumore.
Tante persone – ne avrete viste negli Esercizi, brava gente, zelante – dopo qualche tempo finiscono nella desolazione, finiscono col vivere in maniera mondana, in una maniera non cristiana. Come ci sono arrivate? Per questa carenza di introspezione, di esame di coscienza, che è stare all’erta per vedere se ci sono sette demoni, peggiori del primo.
Per questo vi raccomando: prendete l’esame sul serio, non lo trascurate, e siate onesti, perché non si tratta solo del peccato – quello lasciatelo alla confessione –, perché l’esame è una cosa di tutti i giorni: che cosa mi è successo nel cuore oggi? Non bisogna abbandonare questa pratica.
Caro Santo Padre, sono fratel José, il fratello più giovane nella Provincia del Portogallo. Ho 56 anni di età e 32 di Compagnia. La Compagnia di Gesù attraversa una grande crisi di vocazioni di fratelli, in tutto il mondo, particolarmente in Europa, e ovviamente anche in Portogallo. In questo momento, secondo le statistiche della Curia Generalizia, i fratelli costituiscono soltanto il 5% dei gesuiti della Compagnia. Vorrei domandarle: che cosa pensa che possa fare la Compagnia di Gesù, in campo vocazionale, per uscire da questa crisi e forse vivere in pace, in modo da avere più giovani che vogliono essere gesuiti fratelli?
L’anno scorso il Padre Generale mi ha invitato a parlare in una riunione di fratelli di tutto il mondo. Ed erano davvero entusiasti non soltanto di vivere da fratelli, ma anche di far conoscere questa vocazione. Sì, c’è stato un tempo in cui nella Compagnia i fratelli erano molti, molti.
Quando ero Provinciale, i rapporti migliori in vista dell’ordinazione di uno scolastico me li davano i fratelli o le donne che lavoravano nella casa di formazione. Ricordo un fratello, vero uomo di Dio, che non parlava quasi mai, svolgeva i suoi compiti, sempre con il sorriso, pregava molto. Una volta gli chiesi di parlare di un caso. Venne a trovarmi e mi disse: «Guardi, non lo ordini quello scolastico. Non lo mandi via, ma non lo ordini, e stia a vedere». Sei mesi dopo lo scolastico in questione lasciò la Compagnia, perché non aveva sopportato di non essere stato ordinato nel tempo previsto. Era venuta fuori una vita affettiva molto confusa.
I fratelli hanno buon occhio, sono in qualche modo la memoria della Compagnia, la memoria di tutti i giorni. A La Civiltà Cattolica da poco è morto il fratello Carlo Rizzo. Quanti anni aveva, Antonio? Ecco, 97! E quel sant’uomo sapeva tutto ciò che accadeva agli intellettuali con cui conviveva! Serviva in silenzio.
Direi che per la vocazione di fratelli non bisogna cercare candidati – a questo penserà il Signore –, ma dobbiamo aprire le porte per scorgere in tanti giovani questa possibilità.
Santo Padre, sono João, l’ho abbracciata a Roma qualche anno fa, ma allora non le dissi il mio nome perché ero troppo emozionato. Lavoro nel centro universitario di Coimbra. Voglio farle una domanda difficile. Nel suo discorso alla cerimonia di accoglienza di giovedì scorso, qui a Lisbona, lei ha detto che siamo tutti chiamati così come siamo, e che nella Chiesa c’è posto per tutti. Io svolgo tutti i giorni il lavoro pastorale con giovani universitari, e tra loro ce ne sono molti davvero buoni, molto impegnati nella Chiesa, nel centro, e molto amici dei gesuiti, ma che si identificano come omosessuali. Si sentono parte attiva della Chiesa, ma spesso non vedono nella dottrina il modo di vivere la loro affettività, e non vedono nell’appello alla castità una chiamata personale al celibato, ma piuttosto una imposizione. Dato che in altri ambiti della loro vita sono virtuosi, e che conoscono la dottrina, possiamo dire che sono tutti nell’errore, perché non sentono, in coscienza, che le loro relazioni sono peccaminose? E come possiamo, noi, agire sotto il profilo pastorale affinché queste persone si sentano, nel loro modo di vivere, chiamate da Dio a una vita affettiva sana e che produca frutti? Possiamo riconoscere che le loro relazioni hanno possibilità di aprirsi e di dare semi del vero amore cristiano, come il bene che possono compiere, la risposta che possono dare al Signore?
Io credo che sulla chiamata rivolta a «tutti» non ci sia discussione. Gesù su questo è molto chiaro: tutti. Gli invitati non erano voluti venire alla festa. E allora lui disse di andare ai crocevia e chiamare tutti, tutti, tutti. E affinché resti chiaro, Gesù dice «sani e malati», «giusti e peccatori», tutti, tutti, tutti. In altre parole, la porta è aperta a tutti, tutti hanno un loro spazio nella Chiesa. Come farà ciascuno a viverlo? Aiutiamo le persone a vivere in modo che possano occupare quel posto con maturità, e questo vale per ogni tipo di persona.
A Roma conosco un sacerdote che lavora con ragazzi omosessuali. È evidente che oggi il tema dell’omosessualità è molto forte, e la sensibilità a questo proposito cambia a seconda delle circostanze storiche. Ma quello che a me non piace affatto, in generale, è che si guardi al cosiddetto «peccato della carne» con la lente d’ingrandimento, così come si è fatto per tanto tempo a proposito del sesto comandamento. Se sfruttavi gli operai, se mentivi o imbrogliavi, non contava, e invece erano rilevanti i peccati sotto la cintola.
Dunque, sono tutti invitati. Questo è il punto. E occorre applicare l’atteggiamento pastorale più opportuno per ciascuno. Non bisogna essere superficiali e ingenui, obbligando le persone a cose e comportamenti per i quali non sono ancora mature, o non sono capaci. Per accompagnare spiritualmente e pastoralmente le persone ci vuole molta sensibilità e creatività. Ma tutti, tutti, tutti, sono chiamati a vivere nella Chiesa: non dimenticatelo mai.
Prendo spunto dalla tua domanda e voglio aggiungere un’altra cosa che invece riguarda le persone transessuali. Alle udienze generali del mercoledì partecipa una suora di Charles de Foucauld, suor Geneviève, che ha ottant’anni ed è cappellana del Circo di Roma con altre due suore. Vivono in una casa viaggiante a fianco del Circo. Un giorno sono andato a trovarle. Hanno la cappellina, la cucina, la zona in cui dormono, tutto ben organizzato. E quella suora lavora molto anche con ragazze che sono transgender. E un giorno mi ha detto: «Le posso portare all’udienza?». «Certo!», le ho risposto, «perché no?». E vengono sempre gruppi di donne trans. La prima volta che sono venute, piangevano. Io chiedevo loro il perché. Una di queste donne mi ha detto: «Non pensavo che il Papa potesse ricevermi!». Poi, dopo la prima sorpresa, hanno preso l’abitudine di venire. Qualcuna mi scrive, e io le rispondo via mail. Tutti sono invitati! Mi sono reso conto che queste persone si sentono rifiutate, ed è davvero dura.
Salve, Santità, sono Domingo, sto iniziando la tappa di formazione che è il «magistero». Lei ci chiede sempre di pregare per lei… Potrebbe condividere con noi ciò che le pesa di più sul cuore in questo periodo? Che cos’è che la fa soffrire di più? Da un lato, che cosa le pesa sul cuore e, dall’altro, quali gioie sta provando in questo periodo?
La gioia che ho più presente è la preparazione al Sinodo, anche se a volte vedo, in alcune parti, che ci sono carenze nel modo di condurla. La gioia di vedere come dai piccoli gruppi parrocchiali, dai piccoli gruppi di chiese, emergano riflessioni molto belle e c’è grande fermento. È una gioia.
A questo proposito voglio ribadire una cosa: il Sinodo non è una mia invenzione. È stato Paolo VI, alla fine del Concilio, a rendersi conto che la Chiesa cattolica aveva smarrito la sinodalità. Quella orientale la mantiene. Allora disse: «Bisogna fare qualcosa», e creò la Segreteria per il Sinodo dei vescovi. Da allora in poi c’è stato un lento progresso. A volte, in modo molto imperfetto. Tempo fa, nel 2001, ho partecipato come Presidente delegato al Sinodo dedicato al vescovo come servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo. Nel momento in cui stavo preparando le cose per la votazione di ciò che era giunto dai gruppi, il cardinale incaricato del Sinodo mi disse: «No, questo non metterlo. Toglilo». Insomma, si voleva un Sinodo con la censura, una censura curiale che bloccava le cose.
Sul percorso ci sono state queste imperfezioni. Erano molte, ma al tempo stesso era una via che si percorreva. Quando si sono compiuti i cinquant’anni dalla creazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, ho firmato un documento redatto da teologi esperti in teologia sinodale. Se volete vedere un bel risultato dopo cinquant’anni di strada, guardate quel documento. E negli ultimi 10 anni stiamo progredendo ancora, fino a raggiungere, credo, un’espressione matura di ciò che è la sinodalità.
La sinodalità non è andare in cerca di voti, come farebbe un partito politico, non è una questione di preferenze, di appartenere a questo o a quel partito. In un Sinodo il protagonista è lo Spirito Santo. È lui il protagonista. Quindi bisogna far sì che sia lo Spirito a guidare le cose. Lasciare che si esprima come fece al mattino di Pentecoste. Credo che quello sia il cammino più forte.
A proposito di preoccupazioni, ovviamente una cosa che mi preoccupa molto, senza alcun dubbio, sono le guerre. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in tutto il mondo le guerre sono state incessanti. E oggi vediamo che cosa sta accadendo nel mondo. Inutile che aggiunga parole.
La ringrazio molto, Santità, di essere venuto a Lisbona. Anch’io mi chiamo Francisco. Lei ha davvero cambiato l’ambiente di questa città e di questo Paese, e direi di tutto il mondo cristiano. Sono stato uno degli ultimi tre a fare gli ultimi voti. Avverto moltissimo la consapevolezza di lavorare al suo fianco. Per questo le domando: qual è la nostra missione in quanto Chiesa, in quanto Compagnia universale, e in quanto Provincia portoghese? Quale ruolo abbiamo nel raccogliere i frutti di questa Giornata Mondiale della Gioventù? Le cose stanno davvero cambiando, le persone si sono davvero entusiasmate: che dobbiamo fare per non perdere la grande opportunità che lei ci ha dato?
La Giornata Mondiale della Gioventù sta coinvolgendo molti giovani portoghesi. Voi dovete accogliere l’inquietudine dei giovani e aiutarli a svilupparla, affinché quell’inquietudine non si trasformi in un ricordo del passato. In altre parole, l’inquietudine deve potersi sviluppare a poco a poco. La Giornata Mondiale della Gioventù è una semina nel cuore di ogni ragazzo e di ogni ragazza. E quindi non può finire per diventare la memoria di una sensazione del passato. Deve approdare a un frutto, e non è cosa facile. Vi chiedo di proseguire, con i giovani che ci sono, ma anche con quelli che non hanno partecipato.Qui l’acqua è stata smossa per bene, e lo Spirito Santo ne approfitta per toccare i cuori. Ognuno di questi ragazzi ne esce diverso, questa «diversità» deve mantenersi. E ora tocca a voi: accompagnateli affinché si mantenga e cresca. È il momento di gettare le reti, nel senso evangelico della parola.
Grazie, Santo Padre, di essere venuto!
Incontro con la Compagnia di Gesù pubblicato da La Civiltà Cattolica.