Diritto di difesa e processo canonico
Giovanni Paolo II fece uno splendido discorso alla Rota Romana il 26 gennaio 1989, tutto incentrato sul principio del diritto di difesa e sulle sue principali manifestazioni pratiche. Diceva il Papa, fra l'altro: «si può ricavare dal canone 1598, § 1, il seguente principio, che deve guidare tutta l'attività giudiziaria della Chiesa: "Ius defensionis semper integrum maneat"».
«Non si può concepire un giudizio equo senza il contraddittorio, cioè senza la concreta possibilità concessa a ciascuna parte nella causa di essere ascoltata e di poter conoscere e contraddire le richieste, le prove e le deduzioni addotte dalla parte avversa o "ex officio"».
Perché a Bose Francesco ha scelto di intervenire apponendo la firma al decreto singolare e rendendo così quella decisione un atto autoritario a cui non concedere alcun appello? Forse sarebbe emerso, durante un possibile dibattimento, che Bianchi è innocente?
I diritti umani non sono negoziabili, anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, lo ha capito. Non è forse quello di Giovanni Paolo II un linguaggio sufficientemente ecclesiale?
A qualche religioso, il quale probabilmente non rammenta più neppure quale sia il suo carisma, forse non è chiaro che il diritto non è un' opzione e probabilmente il semplice baccalaureato in teologia non è sufficiente nel 2021 per poter vivere in una società come quella odierna. Parlare del decreto del Papa senza avere alcuna competenza canonistica è puro gossip da salotto, peggio ancora se poi ci si nasconde dietro al "linguaggio ecclesiale". Fermo restando che probabilmente di linguaggio ecclesiastico chi scrive ne sa molto di più di coloro che vanno in giro vestiti come gli scappati di casa, le sentenze e le decisioni che hanno carattere giuridico non possono essere "aleatorie". L'uso insistente del termine grave e gravità senza essere corroborato da prove e motivazioni, sia ai sensi del diritto canonico sia ai sensi del diritto penalistico italiano, configurano il delitto/reato di cui al can. 1390 §2 CJC e all'art. 368 c.p. Favorire considerazioni di questa natura sui mezzi di stampa configura il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 comma 3. Ricordo agli "ecclesiastici" che sono sottoposti alla legge dello stato italiano fino a quando qui risiederanno.
Nessun accesso agli atti
Nessuno ha reso note le prove a favore delle accuse formulate contro Bianchi e i fratelli. Nessun monaco ha fornito dichiarazioni firmate che sono confluite in fascicoli della Santa Sede. Il canone 1598, § 1, dispone che, acquisite le prove, il giudice deve permettere alle parti e ai loro avvocati, sotto pena di nullità, di prendere visione degli atti loro ancora sconosciuti presso la cancelleria del tribunale. Si tratta di un diritto sia delle parti sia dei loro avvocati. Il medesimo canone prevede anche una possibile eccezione: nelle cause che riguardano il bene pubblico il giudice può disporre, per evitare pericoli gravissimi, che qualche atto non sia fatto conoscere a nessuno, garantendo tuttavia sempre ed integralmente il diritto alla difesa. Riguardo alla menzionata possibile eccezione è doveroso osservare che sarebbe uno stravolgimento della norma, nonché un grave errore d'interpretazione, se si facesse della eccezione la norma generale. A Bose, Francesco, ha scelto di non applicare il diritto. Una scelta molto misericordiosa.
La Verità
Sulla vicenda, diversi soggetti si sono spesi. Nessuno ha cercato di conoscere i documenti e quindi di trovare la Verità. Questo dovrebbe già classificare chi si pronuncia. L'ultimo discorso alla Rota Romana di San Giovanni Paolo II fu incentrato sulla verità come fine del processo. Il Papa usava parole forti, rivolte a quanti sono costituiti in autorità e devono prendere decisioni nelle quali il margine di discrezionalità è minimo perché sono molto pregnanti le esigenze di giustizia implicate in una causa, come, ad esempio, in quelle di nullità del matrimonio o penali, senza che tale decisione secondo verità possa essere condizionata dal timore di dispiacere le persone implicate (il coniuge che è convinto della validità o della nullità del proprio matrimonio, la vittima che vuole veder condannato l'aggressore anche quando quest'ultimo riesce e dimostrare di non aver commesso il crimine di cui viene sospettato, ecc.):
«La deontologia del giudice ha il suo criterio ispiratore nell'amore per la verità. Egli, dunque, deve essere innanzitutto convinto che la verità esiste. Occorre perciò cercarla con desiderio autentico di conoscerla, malgrado tutti gli inconvenienti che da tale conoscenza possano derivare. Bisogna resistere alla paura della verità, che a volte può nascere dal timore di urtare le persone. La verità, che è Cristo stesso (cfr. Gv 8, 32 e 36), ci libera da ogni forma di compromesso con le menzogne interessate. Il giudice che veramente agisce da giudice, cioè con giustizia, non si lascia condizionare né da sentimenti di falsa compassione per le persone, né da falsi modelli di pensiero, anche se diffusi nell'ambiente. Egli sa che le sentenze ingiuste non costituiscono mai una vera soluzione pastorale, e che il giudizio di Dio sul proprio agire è ciò che conta per l'eternità» (n. 5).
E la nozione di "giusto processo" ha una certa indeterminatezza di contorni e di contenuti. Le diverse espressioni convergono però sostanzialmente nel sottolineare l'esigenza che l'ascolto delle diverse ragioni delle parti nel processo, da parte di chi deve giudicare, sia ispirato a correttezza, lealtà, equità. Se questo caso fosse stato affrontato con giustizia si sarebbe partiti da una denuntiatio all'ordinario. Nel processo giudiziale penale, il Vescovo diocesano ha la completa disponibilità dell'azione penale (che richiede un particolare fumus boni iuris emerso dall'indagine previa o dall'evidenza del delitto) e, nella generalità delle cause, può essere anche il giudice monocratico (can. 1425 § 1 n. 2) a giudicare il caso.
F.P.
Silere non possum