Roma – “Più di questo preferisco non commentare”, “In Africa per confermare nella fede e per andare sui luoghi di Sant’Agostino”, “Credo molto nel segreto del Conclave”. La prima conferenza stampa di Leone XIV sull’aereo è un manifesto per la stampa che è stata abituata in questi anni ad uscite come “Frociaggine”, “Abbaiano alle porte della Russia”, “Se offendi la mia mamma ma ti aspetta un pugno”, “In Conclave è successo che…”. Il Pontefice americano cambia il registro e riporta il Papato in uno spazio di prudenza, spiritualità e garbo. 

Si è concluso da poco il primo viaggio apostolico internazionale di Leone XIV, con il decollo dal Libano, ultima tappa di una visita segnata da gesti pubblici di cura e da un messaggio di speranza rivolto ai fedeli libanesi. Tra Beirut, Annaya e Harissa, il Papa ha incontrato comunità ferite – pregando anche davanti al memoriale della grande esplosione dell’agosto 2020 – e ha culminato il suo percorso celebrando la Santa Messa e consegnando al popolo un invito alla fraternità possibile, oltre ogni confine nazionale e confessionale. In Turchia, l’accoglienza delle Chiese ha dato al viaggio un respiro ecumenico concreto, mentre in terra libanese, soprattutto tra i giovani, l’entusiasmo è stato fisico, corale, impossibile da trattenere: migliaia di ragazzi hanno circondato il Pontefice come si fa con chi riapre il futuro, non solo con la parola, ma con la presenza. Leone XIV ha attraversato questi giorni visibilmente commosso, non per un trionfo personale, ma per l’evidenza di un’appartenenza: un popolo che non chiede un simbolo, ma si riconosce in un padre.

Il comportamento della stampa

La stampa internazionale ha accolto l’evento con un’attenzione sorprendentemente fredda, a tratti distratta, lontana dal coinvolgimento che solitamente accompagnava le uscite pubbliche del Papa negli ultimi tredici anni. Anche il passaggio del Papa in Moschea è stato segnato da un comportamento mediatico tipico di quei cronisti che sono più intenti alla manipolazione che alla cronaca. 

Da una parte, c’è stato chi ha cercato di piegare le parole del Pontefice in chiave anti-Islam; dall’altra, chi ha preferito tacere, o ha persino messo in dubbio la veridicità delle dichiarazioni riportate dall’Imam. Ma Silere non possum conferma senza margini di approssimazione che l’unica risposta del Papa, all’invito dell’Imam a unirsi a una preghiera, è stata un «No, grazie»: una risposta lineare, priva di sottintesi polemici, seguita dalla scelta esplicita di proseguire la visita nel luogo di culto musulmano.

Quel diniego pacato, contestualizzato, non indica chiusura, ma coerenza ecclesiologica e rispetto interreligioso. Nella tradizione islamica, infatti, la preghiera di un non musulmano in Moschea può essere percepita come un gesto improprio o strumentale, persino come una parodia involontaria del sacro. Leone XIV, da capo della Chiesa Cattolica, ha scelto dunque una postura non mimetica, evitando gesti che potessero apparire inautentici, ma compiendo al contempo un atto di presenza dialogante reale, proseguendo l’incontro con i fedeli musulmani come segno non negoziabile di considerazione, non di confusione religiosa.

I momenti di gioia, anche leggeri e persino ironici, hanno scandito più tappe del viaggio, vissuti dal Papa con una semplicità autentica che ha conferito agli incontri un clima di serenità evidente, mai costruito a tavolino. Leone XIV è apparso in più occasioni visibilmente commosso per la densità delle testimonianze ricevute e per la portata reale delle sue parole, andate oltre la cornice protocollare, penetrando nel nucleo evangelico dei suoi discorsi: parole vere, aderenti alla vita, capaci di produrre un effetto riconoscibile sulle persone incontrate.

Il Papa ha offerto ai giovani spunti concreti per il quotidiano della fede: non slogan generici, ma suggestioni operative per la vita quotidiana di fede, radicate nelle domande esistenziali che segnano la loro generazione. Un approccio che aggiorna il linguaggio della prossimità pastorale senza dissolvere la coerenza dottrinale, parlando di Vangelo incarnato, non di astrazioni spirituali.

Eppure, la stampa internazionale ha scelto, in larga parte, un risalto mediatico minimo, decisamente inferiore a quello riservato alle uscite di Papa Francesco, con cui molti inviati avevano costruito un rapporto economicamente redditizio ed emotivamente gratificante. Nel volo apostolico, al seguito del Pontefice, hanno trovato posto numerosi vaticanisti embedded, la cui presenza appare spesso determinata non dalla competenza professionale, ma dai legami consolidati - personali o redazionali - che le rispettive testate intrattengono da anni con la Sala Stampa Vaticana. Un dettaglio significativo: sono sempre più numerosi i giornalisti che scelgono di non salire più sul volo, non solo per un clima interno asfissiante, ma anche per un modello operativo che ha poco di giornalistico e molto di logistica preconfezionata. Gli spostamenti durante i viaggi apostolici avvengono in gruppo, su pulmini organizzati dalla Santa Sede, e i pernottamenti si consumano in hotel di lusso convenzionati, scelti a partire da criteri di comodità e embeddedness sistemica, più che di autonomia professionale. Sebbene gli inviati accedano agli eventi papali da punti privilegiati, nei pezzi pubblicati lo sguardo autonomo resta un’eccezione. La copertura si riduce spesso a un calco redazionale - un copia e incolla delle informazioni diffuse dalla Sala Stampa Vaticana - producendo un racconto privo di emozioni e incapace di restituire una lettura genuina dei fatti. Il confronto con il passato è stridente: se un tempo qualunque starnuto di Papa Francesco otteneva un’enfasi mediatica amplificata, oggi non trova spazio neppure una notizia di servizio. Questo modello - comodo per chi lo pratica, poco utile per chi legge - produce un effetto collaterale noto ad ogni newsroom: l’assuefazione al privilegio logistico genera linguaggio difensivo e talvolta risentimento narrativo quando il protagonista smette di alimentare quel bisogno di esclusività. Il problema, dunque, non è la critica al pontificato, che anzi è legittima e necessaria se nasce dai fatti, ma il tono reattivo che emerge quando il racconto non nasce più da una relazione funzionale, ma da una perdita di rendita simbolica. Resta il nodo più profondo: se il racconto del Papa diventa “noioso”, non è per l’assenza di contenuti, ma per l’impoverimento dello sguardo giornalistico, che preferisce la funzione al fenomeno, il posizionamento all’incontro, la comodità del formato alla complessità della realtà. Ma il giornalismo, quando smette di testimoniare e si limita a replicare, non diventa più rigoroso: diventa soltanto eco del potere.

In volo verso Roma: i puntini sulle i

Anche sul volo di ritorno verso Roma, come dicevamo in apertura, Leone XIV ha fatto saltare i riferimenti consolidati dei vaticanisti, abituati per anni alle sortite da gossip di Papa Francesco: dalle confidenze improvvisate sulla politica allo sdoganamento di frasi da bar, dal discusso passaggio sugli omosessuali sul volo apostolico al celebre “se mi offendi la mamma ti do un pugno”. Alla domanda della vaticanista Cindy Wooden - fortunatamente prossima alla pensione, mentre già si auspica un arrivo di un vaticanista americano giovane e soprattutto cattolico - che chiedeva dettagli sul Conclave, Leone ha replicato riportando tutto su un altro piano: «Sul Conclave, credo assolutamente nel segreto del Conclave, anche se so che ci sono state interviste pubbliche in cui alcune cose sono state rivelate». Non il gancio sperato, non l’indiscrezione, ma un richiamo ai limiti, ai paletti, al senso di un’istituzione che non si seziona per farne intrattenimento.

Più di una risposta: una rottura deliberata dello schema mentale di chi negli anni scorsi ha speculato su ogni sillaba papale. Leone ha ribaltato la postura del Pontificato davanti ai “predatori di microfoni”, la schiera di sciacalli dell’informazione che - disposti a schiacciare persone e bene ecclesiale pur di corsivare un’impressione - si sono ritrovati spiazzati da un Papa che non recita il loro copione. 

Quando gli viene chiesto del prossimo viaggio apostolico, Leone non abbozza un’ipotesi geopolitica né concede brandelli di dietrologia: dice Africa. Ma, soprattutto, ne esplicita la ragione smarrita dai radar vaticanologi: “per confermare nella fede”. Non per assecondare le fumisterie dei giornalai atei che popolano la Sala Stampa della Santa Sede, ma per riaffermare l’unico mandato di un Papa: essere custode di fede, non combustibile di cronaca impressionista. E aggiunge, con la precisione di chi ha davvero una sua spiritualità: «Vorrei andare in Algeria, partire dall’Algeria per visitare i luoghi di Sant’Agostino». Prevost resta ancorato ad Agostino, uomo che ha seguito fin dagli inizi della sua chiamata. Perfino l’ironia diventa lama quando incontra il giornalismo autoreferenziale. Il Papa spiega: «Non so se ho detto “wow” ieri sera. Il mio viso è molto espressivo, e mi diverto spesso nel vedere come i giornalisti interpretano il mio volto. A volte prendo grandi idee da voi, perché credete di leggermi nel pensiero o dal volto. Ma non avete sempre ragione. Non avete sempre ragione». Una chiara frecciatina per quei giornalai che in questi mesi, fin da quando è stato eletto, hanno giocato a inserirlo nelle loro categorie a seconda di come si vestiva, come parlava, come si esprimeva. Prevost si dimostra un uomo spirituale forte, che rifiuta di farsi manipolare. Il Papa chiude le quinte del gossip e riapre la scena di ciò che il Successore di Pietro è sempre stato - e che molti cronisti avevano interesse a far dimenticare - un uomo di preghiera, paternità spirituale, conferma nella fede. Un Papa, non un opinatore a bordo pista.

d.G.V.
Silere non possum