C’è un momento, nel fluire della giornata, in cui le parole si rivelano inadeguate. Non perché manchi qualcosa da dire, ma perché la verità comincia proprio dove il linguaggio tace. Il silenzio, allora, non è un vuoto da colmare, bensì la soglia su cui Dio si rivela. Quando cessiamo di giustificarci, di spiegarci, di riempire il tempo con le nostre voci, la coscienza si apre come un tempio: si lascia visitare.
Nel silenzio, tutto ciò che è accessorio cade, e ciò che è essenziale si mostra nella sua forma più pura. Non è assenza, ma presenza disarmata; non è fuga, ma ritorno all’Origine che parla senza bisogno di parole. Se il silenzio fosse solo tacere, basterebbe chiudere la bocca. Ma la tradizione spirituale ha imparato che non è sufficiente tacere: bisogna diventare silenzio. Il deserto, prima di essere luogo, è un assetto interiore: uno spazio liberato in cui la persona disinnesca l’urgenza di reagire, l’ansia di apparire, l’istinto di giustificarsi. Lì, dove cessa il frastuono dell’io, il cuore torna abitabile e Dio può essere ascoltato.
L’episodio evangelico di Marta e Maria, così spesso evocato, rischia di essere ridotto a una semplice parabola morale. In realtà, non oppone l’azione alla contemplazione, ma insegna l’ordine interiore delle priorità. Maria, seduta ai piedi del Maestro, rappresenta l’ascolto che precede ogni agire; Marta, affaccendata e inquieta, l’attività che si consuma quando dimentica la sua sorgente. Il Vangelo non svaluta il servizio, ma ricorda che senza il silenzio dell’ascolto anche il fare diventa sterile agitazione. La “parte migliore” scelta da Maria non è quietismo o fuga, ma la decisione di lasciare che l’essenziale illumini ogni gesto prima di compierlo.
Questo criterio non riguarda solo il “privato” della devozione. Tocca la liturgia, dove la parola vive se è nutrita da intervalli di densità: un’alternanza colta tra parola e silenzio che restituisce spessore al Mistero. Le opere decisive di Dio maturano senza clamore: la Chiesa osa dire che la trasformazione del pane e del vino avviene nel più sacro silenzio; la voce del ministro si ode, ma l’azione è di Dio e accade nella profondità, invisibile agli occhi e refrattaria al rumore. Di fronte all’iperproduzione di suoni, opinioni, notifiche, la terapia non è l’afasia, ma un’ascesi della parola: imparare quando tacere perché la carità non richiede di parlare, e quando parlare perché tacere sarebbe vigliaccheria. Chi custodisce il silenzio non disprezza la parola: la purifica. E, sì, occorre dirlo con franchezza: la chiacchiera — pubblica, ecclesiale, anche digitale — corrode la vita interiore, fino a svuotare anche i gesti sacri.
Il monachesimo ha dato nome a questa disciplina: il grande silenzio della notte, l’intervallo custodito in cui il volto si fa trasparente e lo sguardo torna a reggere la luce. Non tutti abitano una certosa, ma a ciascuno è chiesto di costruire un chiostro interiore, un “muro e bastione” dove ritirarsi per un faccia a faccia con Dio. È privilegio solo di chi ne ha il coraggio, perché il silenzio converte e rialza senza adulare.
Qui, oggi, la Chiesa e la società si giocano la credibilità. Non serve invocare “più comunicazione”: serve verità nella comunicazione, cioè silenzio che precede, accompagna e segue la parola. Anche l’offertorio — spesso vissuto come snodo logistico — è il momento in cui il popolo si offre nel silenzio insieme a Cristo: non una pausa tecnica, ma un atto, un clima, un passaggio interiore.
In questa solennità, un nome mette carne a queste righe: San Bruno. Maestro stimato a Reims, vide riconoscimenti, onori e attese; ma quando comprese che il Vangelo esigeva un’altra fedeltà, scelse la via che non fa rumore. Con pochi compagni e con l’amicizia di un vescovo, si inoltrò nel deserto di Certosa per restituire purezza alla vita contemplativa. Poi, obbediente, accettò di servire a Roma; e ancora preferì la quiete di Calabria, dove poté consegnare ai suoi figlie e figli un carisma fatto di sobrietà, misura, amicizia con Dio nella solitudine. Morì il 6 ottobre 1101, dopo aver professato la sua fede, con quella discrezione che il suo Ordine ha sempre custodito.
Bruno non fu un romantico del silenzio. Fu un realista dello spirito. Nelle sue lettere parla di uomini che “vegliano” in cella aspettando il Maestro, di una pace che il mondo ignora, di un “ozio laborioso” dove la quiete non è inerzia ma lavoro fine dell’anima. Sono immagini paradossali: dicono che il silenzio non è la foglia di fico dell’inerzia, bensì la condizione dell’opera più alta, quella che nessun algoritmo può misurare.
Eppure questo non è un elogio intimista. Il silenzio fa spazio: alla voce di Dio e alla voce dell’altro. È giustizia — perché impedisce di ridurre l’altro a oggetto del nostro commento — ed è carità — perché concede al dolore di parlare senza essere subito interpretato. È perfino politica — nella misura in cui sottrae il discorso pubblico alla tirannia dell’immediatezza e restituisce alla coscienza il tempo di discernere. Thomas Merton leggeva nel rumore un sintomo dei nostri peccati sociali: propaganda, aggressività, dispersione; e chiedeva silenzio non come culto del vuoto, ma come riparazione. Che cosa resta, allora, da fare?
Tre gesti, sobri e esigenti. Primo: una razione quotidiana di silenzio per definire i contorni dell’azione successiva — dieci minuti veri valgono più di mille notifiche. Secondo: un chiostro interiore da edificare, con porte che non si spalancano a ogni stimolo. Terzo: nella liturgia, restituire spazi di raccoglimento che non siano intermezzi ma atti rituali; perché il Mistero non si offre alla fretta.
San Bruno, da Colonia a Reims, da Grenoble a Roma, fino alla Calabria, ha tracciato un cammino senza clamore che continua a giudicarci: non perché opponga silenzio e parola, ma perché ci obbliga a chiedere da dove nasce la nostra parola. Se non nasce dal silenzio, essa non persuade, schiaccia. Se nasce dal silenzio, essa non urla, illumina. Forse è questo il compito consegnato a noi oggi: scegliere la parte migliore non una volta per tutte, ma ogni volta che siamo tentati di riempire l’assenza con il rumore. È lì che il silenzio, lungi dall’essere fuga, diventa forza. E, a sera, quando il mondo si placa, torna la voce più discreta: una Presenza che non ha fretta, e che — proprio per questo — salva.
F.P.
Silere non possum