Venerdì 1° marzo 2024 il cardinale Raniero Cantalamessa ha rivolto alla Curia Romana la seconda predica di quaresima. Il Santo Padre Francesco non era presente. 

Il Predicatore della Casa Pontificia si è chiesto: « Cosa significa per noi, ora e qui, quella parola di Gesú: “Io sono la luce del mondo”». «L’espressione “luce del mondo” - ha risposto - ha due significati fondamentali. Il primo significato è che Gesú è la luce del mondo in quanto la sua è la suprema e definitiva rivelazione di Dio all’umanità. Il secondo significato è che Gesú è la luce del mondo in quanto fa luce sul mondo, cioè rivela il mondo a se stesso; fa vedere ogni cosa nella sua giusta luce, per quello che è davanti a Dio». 

Cantalamessa ha detto: «Abbiamo casi famosi nella storia del pensiero umano di persone in cui non si può dubitare di un’identica passione sia per la ragione che per la fede: Agostino di Ippona, Tommaso d’Aquino, Blaise Pascal, Søren Kierkegaard, John Henry Newman, e potremmo aggiungere Giovanni Paolo II , Benedetto XVI». 

E ancora: «Il discorso su fede e ragione, prima di diventare un dibattito tra “noi e loro”, tra credenti e non credenti, deve essere un dibattito tra gli stessi credenti. La teologia, soprattutto in Occidente, si è sempre più allontanata dalla forza dello Spirito, per affidarsi alla sapienza umana. Il razionalismo moderno esigeva che il cristianesimo presentasse il suo messaggio in modo dialettico, cioè sottoponendolo, sotto tutti gli aspetti, alla ricerca e alla discussione, affinché potesse inserirsi nello sforzo generale, filosoficamente accettabile, di una comune e sempre provvisoria comprensione del destino umano e dell’universo». 

«Il pericolo inerente a questo approccio alla teologia - sottolinea il religioso - è che Dio viene oggettivato. Diventa un oggetto di cui parliamo, non un soggetto con cui – o alla cui presenza – parliamo. Un “lui” – o peggio, un “esso” – mai un “tu”! È il contraccolpo di aver fatto della teologia una “scienza”. Il primo dovere di chi fa scienza è quello di essere neutrale rispetto all’oggetto della propria ricerca; ma può uno essere neutrale quando ha a che fare con Dio?» Le successive prediche di Quaresima avranno luogo venerdì 8, 15, e 22 marzo.



Seconda Predica di Quaresima

In queste prediche di Quaresima ci siamo proposti di meditare sui grandi “Io Sono” (Ego eimi) pronunciati da Gesú nel Vangelo di Giovanni. C’è però una domanda che si pone, a proposito di essi: sono stati davvero pronunciati da Gesú, o sono dovuti alla riflessione posteriore dell’Evangelista, come tante parti del Quarto Vangelo? La risposta che oggi praticamente tutti gli esegeti darebbero a questa domanda è la seconda. Io sono convinto, però, che tali affermazioni sono “di Gesú” e cerco di spiegare perché.
C’è una verità storica e una verità che possiamo chiamare reale o ontologica. Prendiamo uno di questi “Io Sono” di Gesú, per esempio quello che dice: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Se per qualche improbabile nuova scoperta si venisse a conoscere che la frase fu, di fatto e storicamente, pronunciata dal Gesù terreno, non è questo che la renderebbe “vera”. Si può sempre pensare, infatti, che chi la pronuncia sia un illuso e si inganni! (Tanti hanno creduto di essere la luce del mondo prima e dopo di lui!). Ciò che la rende “vera” è il fatto che – nella realtà e al di sopra di ogni contingenza storica – egli è la via, la verità e la vita.
In questo senso più profondo e più importante, tutte e singole le affermazioni che Gesù fa nel Vangelo di Giovanni sono “vere”, anche quella in cui dice: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Gv 8,58). La definizione classica di verità è “corrispondenza tra la cosa e l’idea che si ha di essa” (adaequatio rei et intellectus); la verità rivelata è corrispondenza tra la realtà e la parola ispirata che la proclama. Le grandi parole che mediteremo sono dunque di Gesú: non del Gesù storico, ma del Gesú che –come aveva promesso ai discepoli (Gv 16,12-15) – ci parla con l’autorità del Risorto, mediante il suo Spirito.

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Dalla sinagoga di Cafarnao in Galilea, passiamo oggi al tempio di Gerusalemme, in Giudea, dove Gesú si è recato in occasione della festa delle Capanne. Qui si svolge il dibattito con “i giudei”, in cui è inserita l’auto-proclamazione di Gesú che, in questa meditazione, vogliamo raccogliere:
Io sono la luce del mondo.
chi segue me, non camminerà nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita (Gv 8,12).

Questa parola è così pregnante e così bella che i cristiani, da subito, la scelsero come una delle designazioni preferite di Cristo. In molte basiliche antiche – come nel duomo di Cefalù e di Monreale in Sicilia – nel mosaico dell’abside, Gesú è rappresentato come il Pantocrator, o Signore dell’universo. Tiene un libro aperto davanti a sé e mostra la pagina dove sono scritte, in greco e in latino, proprio quelle parole: “Egô eimi to phôs tou cosmou – Ego sum lux mundi”: “Io sono la luce del mondo”.
Gesú luce del mondo: per noi, oggi, questo è diventato una verità creduta e proclamata, ma ci fu un tempo in cui essa non era soltanto questo; era una esperienza vissuta, come succede talvolta a noi, quando, dopo un blackout ritorna improvvisamente la luce, o quando, al mattino, aprendo la finestra, si è inondati della luce del giorno. La Prima Lettera di Pietro ne parla come di un essere “trasferiti dalle tenebre all’ammirabile luce” (1 Pt 2, 9; Col 1, 12 ss. ). Rievocando il momento della sua conversione e del suo battesimo, Tertulliano lo descrive con l’immagine del bambino che esce dall’utero buio della madre e si spaventa al contatto con l’aria e con la luce. “Uscendo –scrive – dal comune grembo di una stessa ignoranza, noi trasalimmo alla luce della verità”: ad lucem expa¬vescentes véritatis” .

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Ci poniamo subito la domanda: cosa significa per noi, ora e qui, quella parola di Gesú: “Io sono la luce del mondo”? L’espressione “luce del mondo” ha due significati fondamentali. Il primo significato è che Gesú è la luce del mondo in quanto la sua è la suprema e definitiva rivelazione di Dio all’umanità. Lo afferma nel modo più netto e in tono solenne l’incipit della Lettera agli Ebrei:
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo (Ebr 1, 1-2).
La novità consiste nel fatto unico e irripetibile che il rivelatore è lui stesso la rivelazione! “Io sono la luce”, non io porto la luce nel mondo. I profeti parlavano in terza persona: “Così dice il Signore!”, Gesú parla in prima persona: “Io vi dico!”. Nel 1964 Marshall McLuhan lanciò il famoso slogan : “Il mezzo è il messaggio”: The medium is the message”, volendo con ciò significare che il mezzo con cui viene diffuso un messaggio condiziona il messaggio stesso. Questo detto si applica in maniera unica e trascendente a Cristo. In lui, il mezzo di trasmissione è davvero il messaggio; il messaggero è il messaggio!
Questo, dicevo, è il primo significato dell’espressione “luce del mondo”. Il secondo significato è che Gesú è la luce del mondo in quanto fa luce sul mondo, cioè rivela il mondo a se stesso; fa vedere ogni cosa nella sua giusta luce, per quello che è davanti a Dio. Riflettiamo su ognuno dei due significati, partendo dal primo, cioè da Gesú come suprema rivelazione della verità di Dio.
Da questo punto di vista, la luce che è Cristo ha sempre avuto un agguerrito concorrente: la ragione umana. Ne parliamo non con intento polemico o apologetico, cioè per sapere cosa rispondere agli oppositori della fede, ma per confermarci nella fede. I dibattiti su fede e ragione – più esattamente, su ragione e rivelazione – sono affetti da una dissimmetria radicale. Il credente condivide la ragione con l’ateo; l’ateo non condivide la fede nella rivelazione con il credente. Il credente parla il linguaggio dell’interlocutore ateo; l’ateo non parla la lingua della controparte credente.
Per questo motivo il dibattito più giusto su fede e ragione è quello che avviene nella stessa persona, tra la propria fede e la propria ragione. Abbiamo casi famosi nella storia del pensiero umano di persone in cui non si può dubitare di un’identica passione sia per la ragione che per la fede: Agostino di Ippona, Tommaso d’Aquino, Blaise Pascal, Søren Kierkegaard, John Henry Newman, e potremmo aggiungere Giovanni Paolo II , Benedetto XVI…
La conclusione a cui ciascuno di loro è giunto è che l’atto supremo della ragione umana è riconoscere che c’è qualcosa al di sopra di essa. È anche ciò che più nobilita la ragione perché indica la sua capacità di trascendersi. La fede non si oppone alla ragione ma suppone la ragione, così come “la grazia suppone la natura”.
C’è un altro malinteso da chiarire riguardo al dialogo tra fede e ragione. La critica comune rivolta ai credenti è che essi non possono essere obiettivi, dal momento che la loro fede impone loro, fin dall’inizio, la conclusione a cui arrivare. In altre parole, agisce come una pre-comprensione e un pre-giudizio. Non si presta attenzione al fatto che lo stesso pregiudizio agisce, in senso opposto, anche nello scienziato o filosofo non credente, e in modo ancora più forte. Se si dà per scontato che Dio non esiste, che il soprannaturale non esiste e che i miracoli sono impossibili, anche la conclusione è predeterminata fin dall’inizio.
Un esempio tra tanti. Conoscendo la visione che Freud aveva della realtà, poteva egli ammettere che “l’amore universale” di Francesco d’Assisi avesse una componente soprannaturale chiamata grazia? Naturalmente no, e infatti egli fa di esso una “derivazione dell’amore genitale”. San Francesco è secondo lui –cito – “colui che è andato più lontano nell’usare l’amore a beneficio del suo sentimento interiore di felicità” . In altre parole, amava Dio, gli uomini, tutta la creazione e, in modo del tutto speciale, Cristo Crocifisso perché questo gli dava piacere e lo faceva sentire bene!
L’uomo moderno, invece della verità, pone la ricerca della verità come valore supremo. Lessing ha scritto: “Se Dio tenesse stretta nella sua destra tutta la verità, e nella sua sinistra solo l’aspirazione sempre viva alla verità, fosse anche a condizione di essere eternamente in errore, e mi dicesse: ‘Scegli!’, mi inchinerei umilmente verso sinistra dicendo: ‘Questa, Padre! La pura verità appartiene solo a te’” .
La ragione di ciò è abbastanza semplice. Finché sei in fase di ricerca, sei tu a condurre il gioco, il protagonista, mentre al cospetto della Verità riconosciuta come tale, non hai più scampo e devi prestare “l’obbedienza della fede”. La fede pone l’assoluto, mentre la ragione vorrebbe continuare senza fine la discussione. Come la bella Scheherazade di Mille e una Notte, la ragione umana ha sempre una nuova storia da raccontare per ritardare la sua resa.
Ci sono solo due soluzioni possibili alla tensione tra fede e ragione: o ridurre la fede “entro i limiti della pura ragione”, oppure rompere i limiti della pura ragione e “prendere il largo”. Un po’ come quando l’Ulisse di Dante raggiunse le “Colonne d’Ercole”, un tempo considerate il confine estremo della Terra, e decise di non fermarsi, e fare, piuttosto, dei remi, “ali al folle volo” .

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Devo però essere coerente con le mie stesse premesse. Il discorso su fede e ragione, prima di diventare un dibattito tra “noi e loro”, tra credenti e non credenti, deve essere un dibattito tra gli stessi credenti. Il peggiore tipo di razionalismo, infatti, non è quello esterno, ma quello interno alla teologia. San Paolo scriveva ai Corinzi:
La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,4-5).
E ancora: Le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni arroganza che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo (2Cor 10,3-5).
Ciò che l’Apostolo temeva si è spesso verificato tra noi. La teologia, soprattutto in Occidente, si è sempre più allontanata dalla forza dello Spirito, per affidarsi alla sapienza umana. Il razionalismo moderno esigeva che il cristianesimo presentasse il suo messaggio in modo dialettico, cioè sottoponendolo, sotto tutti gli aspetti, alla ricerca e alla discussione, affinché potesse inserirsi nello sforzo generale, filosoficamente accettabile, di una comune e sempre provvisoria comprensione del destino umano e dell’universo. Ma così facendo, l’annuncio sulla morte e risurrezione di Cristo viene sottoposto a un’istanza diversa, ritenuta superiore. Non è più un kerygma ma solo un’ipotesi fra tante.
Il pericolo inerente a questo approccio alla teologia è che Dio viene oggettivato.
Diventa un oggetto di cui parliamo, non un soggetto con cui – o alla cui presenza – parliamo. Un “lui” – o peggio, un “esso” – mai un “tu”! È il contraccolpo di aver fatto della teologia una “scienza”. Il primo dovere di chi fa scienza è quello di essere neutrale rispetto all’oggetto della propria ricerca; ma può uno essere neutrale quando ha a che fare con Dio? Questo fu il motivo principale che mi spinse, ad un certo punto della mia vita, ad abbandonare l’insegnamento accademico della teologia e a dedicarmi a tempo pieno alla predicazione. La conseguenza di quel modo di fare teologia, infatti, è che essa diventa sempre più un dialogo con l’élite accademica del momento, e sempre meno un nutrimento per la fede del popolo di Dio.
Da questa situazione si esce solo con la preghiera, parlando con Dio, prima ancora di parlare di Dio. “Se sei teologo pregherai veramente, e se preghi veramente sarai teologo”, diceva un antico Padre del deserto . Sant’Agostino fece la sua teologia più duratura – e, aggiungiamo, anche la più sicura – parlando a Dio nelle sue Confessioni. Aiuta in ciò anche la contemplazione e l’imitazione della Madre di Dio. Ella non ha mai avuto niente a che fare con idee astratte su Dio e su suo Figlio Gesú, ma solo con la loro realtà vivente.

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Ho accennato, sopra, a un secondo significato dell’espressione “luce del mondo”, ed è ad esso che vorrei dedicare l’ultima parte della mia riflessione, anche perché è quella che ci riguarda più da vicino. Si tratta, dicevo, del significato, per così dire, strumentale, in cui Gesú è luce del mondo: in quanto, cioè, fa luce su tutte le cose; fa, nei confronti del mondo, quello che fa il sole nei confronti della terra. Il sole non illumina e non rivela se stesso, ma illumina tutte le cose che sono sulla terra e far vedere ogni cosa nella luce giusta.
Anche in questo secondo senso, Gesú e il suo Vangelo hanno un concorrente che è il più pericoloso di tutti, essendo un concorrente interno, un nemico in casa. L’espressione “luce del mondo” cambia completamente di significato secondo che si prende l’espressione “del mondo” come genitivo oggettivo, o come genitivo soggettivo; a seconda, cioè, che il mondo sia l’oggetto illuminato, o invece il soggetto che illumina. In questo secondo caso, non è il Vangelo, ma il mondo che fa vedere tutte le cose alla propria luce. L’Evangelista Giovanni esortava i suoi discepoli con queste parole:
Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo (1 Gv 2, 15-16).
Il pericolo di conformarsi a questo mondo –la mondanizzazione – è l’equivalente, nell’ambito religioso e spirituale, di quello che, nell’ambito sociale, chiamiamo secolarizzazione. Nessuno (io meno di tutti) può dire che questo pericolo non incombe anche su di lui o su di lei. Un detto attribuito a Gesú in uno scritto antico non canonico dice: “Se non digiunerete dal mondo, non scoprirete il regno di Dio” . Ecco il digiuno oggi più necessario di tutti: digiunare dal mondo, nesteuein tô kosmô, secondo il detto citato!
Il mondo di cui parliamo e al quale non dobbiamo conformarci non è il mondo creato e amato da Dio; non sono gli uomini del mondo ai quali, anzi, dobbiamo andare sempre incontro, specialmente i poveri, gli ultimi, i sofferenti. Il “mescolarsi” con questo mondo della sofferenza e dell’emarginazione è, paradossalmente, il miglior modo di “separarsi” dal mondo, perché è andare là, da dove il mondo rifugge con tutte le sue forze. È separarsi dal principio stesso che regge il mondo, che è l’egoismo.
Prima che nelle opere, il cambiamento deve avvenire nel modo di pensare. San Paolo esortava i cristiani di Roma con le parole:
Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi
rinnovando il vostro modo di pensare,
per poter discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rom 12, 2).
All’origine della mondanizzaione ci sono tante cause, ma la principale è la crisi di fede. È la fede il terreno di scontro primario tra il cristiano e il mondo. È per la fede che il cristiano non è più “del” mondo. Inteso in senso morale, il “mondo” è tutto ciò che si oppone alla fede. “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo”, scrive Giovanni nella Prima Lettera, “la nostra fede” (1 Gv 5, 4). Nella Lettera agli Efesini c’è, a questo riguardo, una parola sulla quale vale la pena soffermarsi un po’ più a lungo. Dice:
Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli (Ef 2,1-2).
L’esegeta Heinrich Schlier ha fatto un’analisi penetrante di questo “spirito del mondo” considerato da Paolo il diretto antagonista dello “Spirito di Dio” (1 Cor 2, 12). Un ruolo decisivo svolge in esso l’opinione pubblica. Oggi possiamo chiamarlo – in senso anche letterale – “lo spirito che è nell’aria”, perché si diffonde soprattutto via etere, attraverso i mezzi di comunicazione virtuale.
Si determina – scrive Schlier – uno spirito di grande intensità storica, a cui il singolo difficilmente può sottrarsi. Ci si attiene allo spirito generale, lo si reputa ovvio. Agire o pensare o dire qualcosa contro di esso è considerato cosa insensata o addirittura un’ingiustizia o un delitto. Allora non si osa più porsi di fronte alle cose e alle situazione e soprattutto alla vita in modo diverso da come esso le presenta…La sua caratteristica è di interpretare il mondo e l’esistenza umana alla sua maniera .
È quello che chiamiamo “adattamento allo spirito dei tempi”. La morale del mozartiano “Così fan tutte”. Oggi possediamo una immagine nuova per descrivere l’azione corrosiva dello spirito del mondo, il virus dei computer. Per quel poco che ne so, il virus è un programma malignamente progettato che penetra nel computer per le vie più insospettate (scambio di e-mail, siti internet…), e una volta dentro confonde o blocca le normali operazioni, alterando i cosiddetti “sistemi operativi”.
Lo spirito del mondo agisce in modo analogo. Penetra in noi per mille canali, come l’aria che respiriamo, e una volta dentro, cambia i nostri modelli operativi: al modello “Cristo” sostituisce il modello “mondo”. Il mondo ha anch’esso la sua “trinità”, i suoi tre dei, o idoli, da adorare: piacere, potere, denaro. Tutti deprechiamo i disastri che essi creano nella società, ma siamo sicuri che, nel nostro piccolo, noi stessi non ne siamo immuni?
La nostra più grande consolazione, in questa lotta con il mondo che è fuori di noi e con quello che è dentro di noi, è sapere che Cristo continua, da risorto, a pregare il Padre per noi con le parole con cui si congedò dai suoi Apostoli:
Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo… Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo… Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola (Gv 17, 15-20).

1.Tertulliano, Apologeticum, 39, 9.
2.Tommaso d’Aquino, S.Th. I, q.2, a.2, ad 1.
3.Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, IV.
4.Gotthold Lessing, Eine Duplik, I, in Werke 3, Zürich 1974, p.149.
5.Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 125
6.Evagrio Pontico, De oratione, 60 (PG 79, 1180).
7.Cf. Clemente Al., Stromati, 111, 15; A. Resch, Agrapha, 48 (TU, 30, 1906, p. 68).
8.H. Schlier, Demoni e spiriti maligni nel Nuovo Testamento, in Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1976, pp. 194 s. (Ed. originale in “Geist und Leben 31 (1958), pp. 173-183.