Pavia - «Qualcuno doveva averlo calunniato, perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina Josef K. fu arrestato» (Il processo). La frase iniziale del romanzo di Kafka risuona oggi con un’eco inquietante se pensiamo a ciò che sta emergendo sul processo di Garlasco. Probabilmente Alberto Stasi è innocente. O, quanto meno, non ci sono prove certe che possano dire che lui sia l’assassino. Io, personalmente, lo sostengo da anni: il quadro accusatorio era fragile, eppure la macchina giudiziaria ha trovato il modo di trasformare i dubbi in certezze.

In queste ore, mentre emergono nuove prove che ribaltano scenari consolidati, c’è chi si scaglia contro chi tenta di fare chiarezza. Perché? La reazione di rifiuto non è solo frutto delle invettive di alcune pseudo-giornaliste che hanno costruito la propria carriera sull’antipatia personale verso l’uno o l’altro bersaglio. È qualcosa di più profondo: la paura di ammettere che la procura possa aver sbagliato, che i magistrati possano essere corrotti, addirittura pagati.

C’è chi si affretta a liquidare come “fantasie complottiste” l’ipotesi che un giudice possa aver ceduto a pressioni. Qualcuno ironizza sulle cifre in gioco: «sono irrisorie, nessuno rischierebbe la carriera per così poco». Eppure, la storia giudiziaria italiana mostra che le decisioni sbagliate o manipolate non sempre hanno come movente il denaro. Talvolta è l’ambizione, il desiderio di carriera, la fedeltà a un clan, l’amicizia, la ricerca di visibilità. Molti magistrati hanno manovrato indagini “a gratis”, per tornaconto politico, ideologico o personale.

Il punto, allora, è un altro: perché tanta gente non vuole accettarlo? Perché diventa insopportabile pensare che l’apparato che dovrebbe proteggerci sia fallibile, che il bastione dello Stato possa crollare. Ammetterlo significa incrinare la nostra sicurezza interiore, perdere i riferimenti. È più comodo demonizzare chi cerca la verità, piuttosto che affrontare la vertigine di un’ingiustizia compiuta in nome della legge.

Kafka descrive con lucidità questo meccanismo: «Era come se il processo fosse contro di lui e nello stesso tempo non lo fosse» (Il processo). Josef K. si muove in un labirinto giudiziario in cui la colpa è presupposta, non dimostrata. Così anche Stasi si è trovato prigioniero di un teorema: non importa se le prove erano contraddittorie, il sistema aveva bisogno di un colpevole. «Il reato era troppo grave per lasciare il caso irrisolto», ha detto un magistrato in televisione.

Questa dinamica non è nuova. Hannah Arendt, commentando i processi di Norimberga, notava come l’opinione pubblica oscillasse tra due estremi: o la fede cieca nell’autorità, o la riduzione a capro espiatorio di chiunque fosse designato come colpevole. In entrambi i casi, la società si autoinganna pur di non affrontare la complessità. È un riflesso psicologico profondo: l’essere umano ha bisogno di credere che lo Stato sia giusto, perché da quella convinzione dipende la stabilità del vivere comune. Ammettere il contrario significa riconoscere che potremmo tutti diventare vittime di un errore, che la giustizia può trasformarsi in ingiustizia. È una consapevolezza che fa paura, perché ci priva di ogni difesa. Per questo, molti preferiscono negare l’evidenza, attaccare chi solleva dubbi, accusarlo di essere “contro le istituzioni”. Come se la fedeltà allo Stato si misurasse nella cieca accettazione, non nella ricerca della verità. Eppure, la storia giudiziaria italiana è disseminata di errori e scandali: da Enzo Tortora a casi meno noti, ogni volta la prima reazione è stata la stessa – difendere l’apparato a ogni costo.

Kafka lo sapeva bene: «Non si cercava la verità, ma una certezza, e poco importava quale fosse» (Il processo). È questa la vera radice del problema: non l’errore umano in sé, ma l’ostinazione collettiva a non volerlo riconoscere. Oggi, di fronte al caso Stasi, siamo messi di nuovo davanti a questa scelta. Possiamo rimuovere, continuando a credere che “la giustizia ha sempre ragione”, oppure accettare la possibilità che l’apparato abbia fallito, e che un uomo sia stato sacrificato sull’altare di un bisogno di colpevoli. La seconda via è più difficile, perché ci costringe a vivere senza certezze assolute. Ma è l’unica che rende giustizia, davvero. Alla fine, come insegna Kafka, non è solo l’imputato a essere processato: lo siamo tutti, ogni volta che scegliamo se guardare la realtà o rifugiarci nella menzogna rassicurante.

S.A.
Silere non possum