Ricevendo i presuli della Conferenza Episcopale Italiana Leone XIV ha detto: «andate avanti nell’unità, specialmente pensando al Cammino sinodale. Il Signore – scrive Sant’Agostino – «per mantenere ben compaginato e in pace il suo corpo, così apostrofa la Chiesa per bocca dell’Apostolo: Non può dire l’occhio alla mano: non ho bisogno di te; o similmente la testa ai piedi: non ho bisogno di voi. Se il corpo fosse tutto occhio, dove l’udito? Se il corpo fosse tutto udito, dove l’odorato?» (Esposizione sul Salmo 130, 6)»
E il Pontefice ha aggiunto: «Restate uniti e non difendetevi dalle provocazioni dello Spirito. La sinodalità diventi mentalità, penetri il cuore, i processi decisionali e i modi di agire».
Parole nette, che smontano ogni tentativo di rinchiudere il Sinodo in una griglia ideologica o in una bandiera di parte. Se qualcuno ha scelto di etichettare la sinodalità come strategia “progressista”, Leone XIV mostra invece come lo Spirito non sopporti né cricche né appartenenze di comodo: nella sinodalità tutti devono avere spazio ed essere ascoltati.
È proprio questa apertura universale – che affonda le radici nella spiritualità agostiniana – ad aver colpito positivamente molti vescovi e presbiteri in questi primi mesi di pontificato. Prevost, prima come Priore Generale e ora come Pontefice, ha dimostrato uno stile di ascolto reale, privo di pregiudizi. Ma chi lo conosce bene sa che, dopo l’ascolto, arrivano decisioni chiare: ferme, concrete, non rinviate. Non si tratta di un uomo spirituale avulso dalla realtà, ma di un pastore che sa distinguere tra dialogo e indecisione.
Eppure, la Chiesa degli ultimi anni è segnata da un’altra dinamica: le divisioni sono cresciute, la capacità di ascoltare chi la pensa diversamente si è ridotta. Anche tra vescovi e formatori si nota spesso una tentazione opposta a quella auspicata dal Papa: non tanto presiedere nella carità, quanto plasmare clero e fedeli secondo le proprie sensibilità personali, quasi fossero programmi da imporre. Così si finisce per confondere il piano della vocazione con quello del gusto individuale, lo Spirito Santo con le nostre preferenze, la grazia con le idee.
Nelle diocesi italiane, e non solo, si assiste sempre più spesso a un fenomeno che merita di essere osservato con attenzione: le riflessioni di fondo nei convegni del clero vengono affidate a sacerdoti che appartengono a correnti teologiche (meglio dire ideologiche) ben precise, spesso orientate verso una visione “progressista” o “modernista” della Chiesa. Non si tratta di una scelta neutra. Al contrario, questo metodo finisce per orientare l’intero dibattito, perché le parole pronunciate in quelle sedi non sono semplici opinioni personali, ma diventano cornice di riferimento per la vita di un determinato tipo di presbiterio.
Il problema è evidente: se il relatore è chiaramente schierato, non rappresenta la complessità del clero ma una sua parte. Ciò significa che, in un presbiterio già segnato da differenze di sensibilità e da fatiche pastorali, il momento che dovrebbe unire diventa occasione di divisione. Chi non condivide quella visione si sente automaticamente marginalizzato.
Perché accade questo? Per due motivi ricorrenti.
Una scelta di campo da parte dei vescovi, che preferiscono dare spazio a figure in grado di sostenere una determinata linea ecclesiale, anche a costo di escludere altre prospettive.
Un’idea implicita di riforma, secondo la quale il ministero presbiterale deve essere “ripensato” in senso nuovo, ridimensionando la mediazione sacramentale e spingendo verso un modello comunitario e sinodale che, però, rischia di appiattire le differenze e di impoverire la dimensione spirituale.
Il risultato è che, ancora una volta, a prevalere non è la voce della Chiesa intera — fondata sul magistero e sulla Tradizione viva — ma la voce di una corrente, che diventa proposta ufficiale, quasi magistero parallelo.
C’è un nodo preliminare, prima ancora di entrare nel merito teologico: perché affidare una meditazione al clero di una diocesi a un presbitero apertamente schierato su un’idea di Chiesa divisiva? In un presbiterio variegato, già provato da carichi pastorali e stanchezze, la scelta di un relatore “di scuola” non è neutra. È un atto di governo. E ogni atto di governo in ambito ecclesiale ha due effetti: forma la coscienza dei presenti e segna la direzione. La domanda, allora, è semplice: si vuole edificare l’unità o si accetta il rischio di accentuare linee di frattura?
Spesso le relazioni di questi personaggi che non indossano mai un colletto propongono un “ripensamento” del sacerdozio, che attraversa tre fasi storiche e sfocia in un’immagine di Chiesa sinodale nella quale “tutti i discepoli sono missionari”. L’assunto di fondo è chiaro: Tradizione come processo dinamico, non come deposito stabile, e dunque ministero continuamente ri-situato. È una tesi legittima da discutere, ma è anche un’impostazione rischiosa se non si dichiara con precisione che cosa resta non negoziabile. Il rischio? Che il “ripensamento” diventi sostituzione di fondamenti: dall’ontologia sacramentale a una funzionalità comunitaria.
Un problema di cornice: chi parla al presbiterio e a nome di chi?
La scelta del relatore non è un dettaglio organizzativo. Quando il vescovo affida una meditazione “matrice” per il convegno del clero, sta indicando un paradigma. Se il paradigma coincide con una specifica scuola teologica — per di più controversa — si produce esclusione percepita: chi non aderisce a quel lessico si sente marginale nella propria casa. È prudente? È paterno? È conforme alla responsabilità di Custode dell’unità? Qui non è in gioco la libertà accademica, ma la carità pastorale.
Inutili sono le affermazioni: “È una voce autorevole che appartiene al nostro presbiterio”. No. Quante volte chiamiamo persone da fuori per celebrare Sante Messe o tenere relazioni? Se in casa abbiamo un eretico, chiamiamo un eretico?
Non dimentichiamo che proprio lo scorso anno fu invitata una donna che, dopo aver girato l’Italia pontificando sugli abusi e dipingendo ogni sacerdote come un potenziale abusatore, è stata infine smascherata da Silere non possum: si presentava come psicologa e psicoterapeuta, ma in realtà non possedeva alcun titolo. Al Convegno del Clero, con la stessa arroganza, aveva pontificato spiegando ai preti come dovrebbero essere preti, senza però offrire nella concretezza alcuno spunto pratico (e come potrebbe farlo una donna?)
Il criterio minimo, in un tempo polarizzato, dovrebbe essere questo: una parola capace di includere, non di etichettare. La creatività pastorale — se è tale — non si nutre di provocazioni sloganistiche, ma di chiarezza dottrinale e concretezza operativa. E proprio questi due elementi, spesso, restano i punti più deboli.
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