«Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare». Le parole di don Luigi Giussani, rilanciate nero su bianco in una delle lettere indirizzate a Davide Prosperi, alla guida della Fraternità di Comunione e Liberazione, sono diventate nelle ultime settimane il segnale più evidente di un clima interno sempre più teso. Nelle comunità e tra gli aderenti circola una domanda che non è più soltanto spirituale o educativa: questa nuova stagione di governo sta davvero favorendo la comunione, oppure sta alimentando una deriva autoritaria e divisiva?

Mentre Silere non possum sta ricostruendo, passo passo e con documenti alla mano, il percorso che ha portato Prosperi alla guida della Fraternità senza alcuna elezione, per effetto di una scelta concordata con il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, dentro CL molte coscienze stanno iniziando a risvegliarsi. Cresce l’attesa di risposte su questioni che da tempo vengono poste, ma Prosperi, descritto come spocchioso e iracondo, non solo non risponde alle richieste legittime degli iscritti: avrebbe anche iniziato a lamentarsi con i collaboratori più stretti e a gridare contro un non meglio precisato “progetto” per “sostituirlo”. In realtà, però, chi viene accusato di questi “giochi di potere” è solo la vittima di un progetto che, proprio in questi ultimi mesi, sta divenendo sempre più chiaro a molti. Nel frattempo, al Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita continuano ad arrivare lettere che Linda Ghisoni ignora completamente e presto spiegheremo il perché. Il paradosso, peraltro, è che tutto questo avviene nonostante il nuovo regolamento della Curia Romana voluto da Papa Leone XIV, che formalmente entrerà in vigore il 1° gennaio 2026, imponga risposte celeri e chiare alle richieste ricevute.

Da tempo, in molti ambienti ecclesiali e anche in Santa Sede, si sta portando avanti una finta battaglia contro gli abusi che finisce per diventare uno strumento di potere: non serve a fare verità e giustizia, ma a eliminare dissidenti e “nemici”. E questa eliminazione avviene con modalità che, queste sì, risultano abusanti, opache, spesso fuori da ogni regola di diritto.

Una sinodalità "che non sinoda"

Circolano due lettere firmate e condivise tra membri e amici della Fraternità. Non sono prese di posizione estemporanee: hanno un impianto solido, sono argomentate e richiamano riferimenti puntuali. La prima contesta il nuovo Statuto 2025 sul piano della struttura, delle garanzie interne e dei contrappesi territoriali; ad oggi ha raccolto circa 250 firme. La seconda, dal registro più ecclesiale e carismatico, è firmata da Giancarlo Martinelli, già segretario della Fraternità (si tratta della sua ennesima lettera senza risposta, un'altra qui): chiede conto del metodo di governo e delle scelte concrete adottate dopo l’approvazione del testo. Il punto di frizione è lo Statuto aggiornato nel 2025, approvato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, che modifica la forma dell’associazione soprattutto nel rapporto fra centro e periferia. Nel 2017 la trama statutaria riconosceva un’articolazione ampia di organi locali: responsabili regionali e diocesani, diaconie regionali e diocesane, fino alle diaconie delle singole comunità. Molti ciellini spiegano che non era un dettaglio organizzativo ma il modo concreto con cui il movimento teneva insieme autorità e partecipazione, responsabilità e corresponsabilità, preservando quella “convivenza” reale senza la quale ogni forma rischia di diventare puro meccanismo.

È qui che la prima lettera colloca la critica più netta: nel testo 2025 scompare l’architettura territoriale come ossatura statutaria. Là dove nel 2017 il Responsabile diocesano era designato dall’assemblea dei membri residenti nella diocesi ed esercitava il mandato entro una relazione esplicita con il vescovo locale (con approvazione previa consultazione e con la possibilità di sostituzione richiesta dal vescovo), nel 2025 quella procedura non è più prevista e gli organismi territoriali perdono la stessa funzione. Al loro posto emerge la figura dei “Referenti territoriali”, designabili dalla Diaconia Centrale, che ne determina compiti e responsabilità e li conferma “finché lo ritiene”. Da questa differenza emerge una Fraternità sempre più verticistica, con una periferia privata dei suoi organi e una mediazione locale sostituita da nomine dall’alto.

Tentativo di controllo: o con me o contro di me

Le lettere, però, non si fermano alla governance. Insistono sul profilo più prescrittivo del testo 2025 rispetto alla vita educativa ordinaria: ritiri ed esercizi spirituali legati a indicazioni centrali (anche nella scelta dei predicatori), lavoro culturale ricondotto agli strumenti proposti dalla Fraternità, azione caritativa descritta attraverso gesti comunitari periodici, Scuola di Comunità indicata come strumento principale e guidata dal Referente territoriale o da un delegato, con obblighi di formazione periodica per referenti e delegati. Nel 2017, invece, l’elenco delle dimensioni fondamentali non era accompagnato dagli stessi vincoli testuali su “chi guida”, “quali strumenti”, “con quali modalità”. E qui la prima lettera formula la domanda decisiva: perché un bisogno così caparbio di controllo centrale sul cammino di fede di migliaia di persone?

Per Giussani, il nodo non è mai l’obbedienza come disciplina, ma l’autorità come servizio alla crescita della persona e della comunità. Nel Rischio educativo chiarisce che una vera autorità si configura come “funzione di coerenza”: un richiamo continuo ai valori ultimi e un criterio di giudizio che custodisce il nesso tra la vita concreta e il significato totale. Se questa funzione si riduce a comando, o se la struttura tende a sostituire l’esperienza, il rischio è di “educare” alla dipendenza da un centro, non alla dipendenza dal reale: e i membri della Fraternità, in sostanza, temono proprio questo slittamento.

La rappresentatività 

Dentro questo scenario entra il tema della rappresentatività, su cui torna la lettera di Martinelli. Il nuovo Statuto introduce l’Assemblea Generale, composta da delegati eletti su base territoriale, chiamata a eleggere il Presidente e quindici membri della Diaconia Centrale e a deliberare modifiche statutarie e del Direttorio. Ma nello stesso impianto si prevede che l’Assemblea si sciolga una volta assolti i suoi compiti. I membri del movimento leggono questa scelta come una partecipazione compressa in un appuntamento quinquennale, mentre la conduzione ordinaria resta stabilmente nelle mani del centro. La domanda - che nelle due lettere assume un tono ecclesiale - diventa allora: se esiste uno strumento pensato per evitare concentrazioni eccessive sul vertice, perché rinunciare a usarlo come luogo reale di corresponsabilità? A rendere queste critiche più che “politiche” è il metodo invocato: la verifica. Nel lessico di Giussani, “verificare” non è “provare” in modo esterno o tattico: è paragonare ciò che l’autorità propone con la propria esperienza, domandandosi se conduce al vero io e alla libertà. È un passaggio fondamentale, perché sposta la questione dal piano del potere a quello dell’educazione: un carisma non si conserva mettendolo “in cassaforte”, ma creando le condizioni perché continui a generare vita, cioè un popolo capace di giudicare e di assumersi responsabilità.

Per questo, nelle lettere, l’allarme non riguarda soltanto l’assetto territoriale o la calendarizzazione dei gesti: riguarda la possibile confusione tra unità e uniformità, tra governo e controllo. E riguarda anche il timore che chi governa finisca per presentarsi come interprete unico del carisma. Qui il richiamo a Giussani è lineare: la vita della Chiesa (e quindi di un’esperienza ecclesiale) non promette esiti automatici “di formula o procedura”; ogni passo implica la libertà e la responsabilità personale.

In questo quadro, la frattura descritta dai firmatari non è solo amministrativa: è ecclesiale e educativa. Se il testo 2025 rivendica fedeltà al carisma e alla Chiesa, gli appartenenti alla Fraternità chiedono fedeltà a un’altra esigenza costitutiva del metodo di Giussani: la libertà di giudizio come forma della sequela, la verifica dell’esperienza come anticorpo contro la riduzione del cristianesimo a sistema di regole. Quando una comunità viene “tenuta insieme” soprattutto da procedure e prescrizioni, la domanda che sale dal basso - ed è la domanda implicita delle due lettere - è inevitabile: il carisma continuerà a scorrere come esperienza viva, oppure verrà messo in sicurezza” dentro una forma organizzativa capace di governare tutto, ma meno capace di generare?

A queste domande Davide Prosperi non sta dando alcuna risposta, nonostante le ripetute sollecitazioni, arrivate anche da figure autorevoli e da esponenti della gerarchia ecclesiastica. Dopo quanto è accaduto negli ultimi anni, in molti avvertono che si sia consolidata una pericolosa convinzione: l’idea di poter agire senza dover rendere conto a nessuno, come se l’autorità potesse sottrarsi a ogni verifica e, in ultima analisi, persino al giudizio di Dio.

d.E.V. e M.P.