Resto sinceramente colpito — e, in parte, sconcertato — dal comunicato stampa della diocesi di Novara, dove il vicario per il clero e la vita consacrata liquida in circa cinque righe la notizia che un presbitero si è tolto la vita. Come spesso accade nei nostri ambienti ecclesiastici, si ricorre immediatamente al linguaggio religioso per coprire il disagio con una patina di spiritualità: “Solo il Signore, Colui che scruta e conosce ciascuno di noi, sa comprendere i misteri più impenetrabili dell’animo umano”. Parole che, più che consolare, sembrano servire a lavarsi la coscienza.

Ma la verità è un’altra: Dio la vita ce l’ha donata. E alla Chiesa ha consegnato un mandato preciso, che non può essere ignorato. Quando un uomo — un prete — arriva al punto di togliersi la vita, è segno che qualcosa, dentro di lui, si è spezzato. Non all’improvviso, ma lentamente. Inesorabilmente. E si è spezzato in modo definitivo. Irrimediabile. A volte chi vive accanto al prete non se ne accorge nemmeno. Perché nel dolore siamo portati a chiuderci se non abbiamo qualcuno di capace ad accogliere la nostra fragilità umana. Spesso, però, chi sa tace. Chi potrebbe intervenire, distoglie lo sguardo, già sopraffatto dai propri pesi. L’istituzione, dal canto suo, è troppo impegnata a preservare sé stessa. A proteggersi. A tutelare le proprie strutture, a ogni livello. Perché ciò che manca, troppo spesso, è proprio la cura.

Sia chiaro, non è utile individuare capri espiatori. E non è il momento di imbastire riflessioni pseudo-teologiche su dinamiche che restano inaccessibili alla nostra comprensione. Non ora. Non così. Questo non è il tempo della speculazione, ma della preghiera. E, soprattutto, del silenzio.

Il tempo della responsabilità 

Ma questo è anche — e soprattutto — il tempo della responsabilità. Una responsabilità da assumere con umiltà. Come comunità ecclesiale, certamente. Ma anche — e in modo particolare — come presbiterio. Silere non possum da tempo richiama l’attenzione sulla formazione sacerdotale e sulle gravi lacune presenti in molti percorsi formativi. Non si tratta di accuse generiche, ma di dati concreti e di esperienze vissute, che mostrano come alcune visioni del sacerdozio continuino a produrre ferite profonde.

Recentemente, persino il Dicastero per il Clero ha riconosciuto l’enorme pericolo insito in “una determinata idea di prete” che finisce per disumanizzare il ministero, rendendolo una funzione irraggiungibile, separata dalla realtà concreta della vita. Un monito ribadito con chiarezza anche da una voce autorevole come quella di Chiara D’Urbano, psicologa e consultore dello stesso Dicastero, che ha denunciato le derive spiritualiste e perfezionistiche che minano l’equilibrio umano ed emotivo di tanti presbiteri.

C’è qualcosa, nella formazione e nella vita del prete, che evidentemente non funziona. E ciò che nasce storto nella formazione, difficilmente si raddrizza. Anzi: spesso si incancrenisce. A mutare forma, sì, ma restando in sostanza lo stesso. Trascinandosi dietro macigni di sofferenze taciute, di solitudini mai confessate. Soprattutto quando tutto questo si consuma nel segreto, dietro un sorriso indossato, dietro una puntualità irreprensibile, dietro parole ben cesellate da proclamare nelle catechesi e negli incontri. Il problema di fondo che è che, sia la Chiesa sia la società, è portata a credere che se sei prete, non sei uomo.

Non puoi piangere: altrimenti sei melodrammatico.
Non puoi stancarti: saresti un pigro.
Non puoi fare una carezza a un bambino: rischi l’etichetta infamante.
Non puoi avere una donna accanto: hai già l’amante.
Non puoi avere un amico: c’è chi insinuerà che sia il tuo fidanzato.
Non puoi dare un abbraccio: saresti ambiguo.
Non puoi andare in ferie: sei un borghese.
Non puoi comprarti un regalo: sei uno spendaccione.
Non puoi curarti: sei un narcisista.
Non puoi vestirti come vuoi: sei eccentrico.
Non puoi essere giovanile: sei ridicolo.
Ma nemmeno puoi mettere la tonaca: sei un bacchettone fuori tempo.

E se, Dio non voglia, ti capita di innamorarti? O se, con discrezione, dovessi confidare che a piacerti, in realtà, sono gli uomini? Il dramma è che tutto questo, spesso, nasce e prolifera all’interno del presbiterio, nel seminario, tra confratelli. 

Ma cosa si pretende dai preti? Cosa ci si aspetta, davvero, da un prete? Chi è — alla fine — il prete? 
 La disumanizzazione del prete, ammantata da un falso spiritualismo, è un tema vecchio quanto attuale. Ma i suoi effetti, oggi più che mai, sono tragici. Devastanti. Sì, c’è una solitudine profonda. Ma c’è anche una diffusa incapacità di ascoltare. E quindi di condividere.

Chi ascolta davvero, oggi? Chi si ferma ad ascoltare i preti? Dove sono quei monaci, quei preti saggi che svolgono quel delicato compito di guide spirituali, confessori e padri? Che posto ha, concretamente, l’amicizia nella vita di un sacerdote? Chi si accorge di come sta il prete, di cosa porta nel cuore? Quali sono quei rapporti che il sacerdote può costruire senza la paura di essere ricattato, pubblicamente deriso, strumentalizzato? A chi importa, davvero di tutto questo?

A volte si pretendono dal preti performance degne di supereroi. Performance disumane, perché non umane. 


E quando gli abusi non vengono dall’esterno, ma dall’interno stesso della Chiesa? Quando a manipolarti è il tuo vescovo, che ti impone pesi insostenibili, che ti trasferisce da una parrocchia all’altra o ti priva degli incarichi pastorali sulla base di accuse infamanti mai dimostrate, magari partite da un confratello rancoroso o da un parrocchiano che hai semplicemente corretto? Quando l’abuso di potere prende la forma sottile ma devastante del mobbing esercitato da un superiore religioso, che ti spinge scientemente verso l’esaurimento per fiaccarti psicologicamente? E che dire di quei vescovi che si alleano con presuli in pensione — magari residente proprio nella tua parrocchia — il quale pretende ancora di svolgere funzioni che spettano al parroco e, per vendetta, mette in giro voci false e malevoli sul tuo conto? Come ci si difende da tutto questo? Come si resta in piedi quando l’ingiustizia arriva da chi dovrebbe proteggerti?

Quando l’umanità non ha più diritto di cittadinanza, quando tutto si riduce a una funzione, a un ruolo sociale, la solitudine non è più una possibilità
. È una condanna. Diventa il tuo vestito quotidiano. Diventa la tua vita. E se qualcuno ci rimette la salute mentale? O, peggio ancora, la vita? A chi importa? No, non si può accettare che nessuno si fosse accorto del malessere di un uomo che si è tolto la vita ed appartiene ad un presbiterio, ad una comunità di credenti. 

Ciò che ha portato don Matteo a togliersi la vita resta un mistero, dolorosissimo e profondo. Resta il dolore sordo, e una domanda che ci brucia dentro. Questa domanda, però, deve trasformare il dolore in azione. Non aspettiamo ogni volta che sia troppo tardi. Se c’è qualcosa da dire, diciamolo ora. Se c’è un abuso da denunciare — di potere, di coscienza, da parte di un superiore, di un vescovo, di un rettore — denunciamolo ora. E se c’è da dare una carezza, o da offrire una spalla, facciamolo ora.