La misura dell’intolleranza non si vede negli slogan sulla libertà, ma nel modo in cui reagiamo quando qualcuno osa pensarla diversamente dal nostro gruppo, piccolo o grande che sia. È lì che, sotto la superficie delle buone intenzioni, affiora una tentazione antica: trasformare l’avversario in nemico, non confutarlo ma eliminarlo dallo spazio pubblico, chiedere che “qualcuno” lo zittisca al posto nostro.
Ed è esattamente ciò che, in queste ore, ha fatto Andrea Grillo, pubblicando contro Silere non possum un testo delirante in cui sostiene che avremmo attaccato suor Linda Pocher, quando in realtà i due articolisti - un presbitero e una religiosa - hanno offerto semplicemente una analisi della sua intervista a La Repubblica. In quella intervista la suora affermava cose che nulla avevano a che vedere con il testo Sintesi della Commissione di Studio sul Diaconato Femminile, firmato dal cardinale Giuseppe Petrocchi. Si tratta di una analisi puntuale, letta da milioni di lettori, che hanno apprezzato la capacità di mettere in luce l’incapacità di Pocher di rimanere sui contenuti reali del documento, preferendo slogan di pancia capaci di attirare il pubblico ma privi di reale consistenza teologica.
Come prevedibile, all’attacco di Andrea Grillo si sono subito accodati i soliti «odiatori storici di Silere non possum», che nel tempo hanno dato prova di essere molto più fedeli a ciò che imputano a noi che non a ciò che dicono di difendere. Tra questi Marinella Perroni, una donna che per anni ha cercato la vicinanza di Enzo Bianchi perché poteva offrirle visibilità, salvo poi prenderne le distanze quando questo fu falsamente accusato. Perroni è stata tra le prime figure che Silere non possum ha contribuito a smascherare nella sua ipocrisia: dopo aver fatto chiarezza pubblicando i documenti su quanto è realmente accaduto a Bose, questo portale smontò una sua lettera dal tono cantilenante e piagnucoloso contro Enzo Bianchi, mettendo in luce l’assoluta inconsistenza delle sue affermazioni. Da allora non ha perso occasione per attaccarci: non con argomentazioni, ma con frecciatine, critiche sterili, accuse di essere aggressivi. Lei che si accompagna con Andrea Grillo, noto a tutti per la sua proverbiale “calma” e “educazione”. Un esempio eloquente lo si può trovare in questo video.
Non sono pochi quelli che si sono accodati a chi insulta, attacca e sbeffeggia chiunque non la pensi come lui, pretendendo però che tutti tacciano e nessuno osi criticarlo. Grillo, lo sapete bene, nutre un odio viscerale verso Silere non possum perché abbiamo messo nero su bianco quanto sia del tutto inopportuno il suo insegnamento negli Atenei Pontifici. E Silere non possum, come sempre, non lo fa con il pettegolezzo - come ci accusano di fare proprio coloro che di pettegolezzo vivono – ma con i documenti. È stato il nostro portale, infatti, a rendere pubblici i bilanci dell’Ateneo Sant’Anselmo, dove è scritto chiaramente da dove provengono quei soldi e per quali finalità. È stato il nostro portale a rendere pubblica la lettera con cui Grillo ha lasciato la rivista liturgica dopo una delle sue sfuriate eretiche. Sempre Silere non possum ha messo in evidenza l'inopportunità degli inviti che riceve dopo aver sputato addirittura su un giovane santo. È evidente, allora, che anche se Grillo si lancia sotto i post altrui invocando punizioni divine e giudiziarie contro di noi, sa perfettamente che contra factum non valet argumentum. Il pettegolezzo non si fa pubblicando i documenti, quella è informazione. Il pettegolezzo è semmai quello che pratica Fabrizio Mastrofini, per citare un nome a caso, quando nei suoi articoli attacca Silere non possum con quella cattiveria rancorosa che solo un uomo profondamente deluso può permettersi, salvo poi essere costretto, il giorno dopo, a rettificare tutto ciò che ha scritto. Non Silere non possum, che non è mai stato obbligato a rettificare una sola riga delle proprie inchieste. Ora, se dopo che un sito di informazione ha messo in luce tutta la tua inadeguatezza tu nutri rancore, posso anche comprenderlo. Non è particolarmente cristiano - ma neppure lo sono le tue teorie sul diaconato femminile, quindi il meccanismo è chiaro. Che tu però scenda al livello dell’insulto, questo no, non ha alcun senso. Nell’articolo su suor Linda non c’è alcun attacco personale, né tantomeno un insulto: si analizzano parole e posizioni, non altro. Gli insulti, invece, si trovano nelle esternazioni di Grillo e dei suoi sodali che come al solito poi fanno vedere la loro “apertura”, il loro “essere all’avanguardia”, rispettosi “dei toni”, con insulti di bassa lega ovviamente a sfondo omofobo. Loro, però, sono quelli che parlano degli altri come “aggressivi”, “volgari”, ecc…. Non mi soffermo neppure sui presbiteri bergamaschi, che riescono insieme a far sorridere e a provocare sconcerto, come testimoniano i diversi confratelli che, in queste ore, hanno scritto più volte a Silere non possum.
Gli intolleranti che accusano di intolleranza
Ma considerato che questo comportamento non ha colore politico ed appartiene alla destra come alla sinistra, al tradizionalista come al modernista, analizziamolo meglio. George Orwell ha raccontato questo meccanismo con una precisione che oggi suona quasi documentaria. Nel rito dei Due minuti d’Odio di 1984, la folla è convocata ogni giorno davanti allo schermo per insultare Emmanuel Goldstein, “Nemico del Popolo”, ex dirigente del Partito diventato apostata. La scena è nota: il volto di Goldstein appare, la voce “belante” attacca la dottrina del gruppo e osa chiedere “libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero”; in pochi secondi la sala esplode in urla, lanci di oggetti, insulti ripetuti come automatismi.
La cosa più inquietante, nota Orwell, è che non serve fingere: “era impossibile non unirsi alle invettive”, un “delirio di vendetta” attraversava tutti “come una corrente elettrica”, e quell’odio diventava un’“emozione astratta, indiretta, proiettabile su qualsiasi oggetto come una fiamma ossidrica”. L’intolleranza non ha bisogno di argomenti: le basta un bersaglio, vero o presunto. Oggi non ci sono schermi ministeriali che proiettano Goldstein, ma la logica è simile quando, davanti a un’opinione scomoda, la reazione non è chiedersi se sia vera o falsa, ma domandare: “Chi lo fermerà? Chi lo punirà?”.
In questo mondo, il dissenso non è un diritto da garantire, ma un reato di opinione da prevenire. In 1984 Winston sa che il semplice gesto di iniziare un diario, pur non esistendo più leggi formali, può valergli la morte o decenni in un campo di lavoro. Scrivere un pensiero non autorizzato significa entrare nel territorio del “psicoreato”. L’intolleranza si fa sistema quando il potere non si limita a vietare alcune frasi, ma prova a rendere impensabile la differenza. È lo scopo della neolingua: mantenere parole come “libero” solo in frasi innocue – “il cane è libero da pulci” – e cancellarne ogni uso politico o intellettuale. Se non puoi dire “libero” nel senso di libertà di pensiero, presto non riuscirai neppure a concepirla. Anche La fattoria degli animali è una lunga meditazione sull’intolleranza verso chi non si allinea. All’inizio gli animali rovesciano il padrone e scrivono i Sette Comandamenti dell’Animalismo; per renderli accessibili, Palla di neve li riassume nello slogan «Quattro gambe buono, due gambe cattivo», che diventa presto il ritornello preferito dalle pecore. Lo slogan nasce come semplificazione pedagogica, ma si trasforma rapidamente in arma: ogni volta che qualcuno solleva un dubbio, che un maiale prova a obiettare, che affiora una perplessità, le pecore esplodono nel loro coro e lo ripetono per “quasi un quarto d’ora”, finché ogni possibilità di discussione è soffocata. Qui Orwell coglie un tratto attualissimo: l’intolleranza di gruppo non ha bisogno di una polizia politica quando ha a disposizione un battaglione di voci pronte a coprire, ridicolizzare, sommergere. Non serve confutare l’obiezione; basta far partire il coro, l’hashtag, il post, la lettera aperta, la campagna coordinata. Nell’ultima scena del libro, quando i maiali camminano su due zampe e brandiscono la frusta, le pecore hanno già aggiornato lo slogan in «Quattro gambe buono, due gambe meglio», e lo ripetono ininterrottamente, così che l’attimo in cui gli animali potrebbero dire “no” evapora nel rumore.
L’intolleranza non si manifesta solo censurando dall’alto, ma anche educando dal basso alla rinuncia al giudizio personale. In La fattoria degli animali, Piffero riscrive la memoria collettiva: nega che siano mai state approvate mozioni contro il commercio con gli uomini, suggerisce che gli altri “si sono sognati” quelle regole, e poiché non esiste un documento scritto a provarle, molti finiscono per dubitare di sé stessi. Intolleranza è anche questo: creare un clima in cui chi solleva domande finisce per chiedersi se sia lui il problema, mentre chi detiene legami con il potere si arroga il monopolio della realtà. In 1984, la figura di Goldstein svolge la stessa funzione: è il contenitore di ogni pensiero pericoloso, il volto su cui proiettare ogni colpa. Goldstein “propugna libertà di parola, di stampa, di associazione, di pensiero”, accusa il Partito di dittatura, denuncia il tradimento della Rivoluzione. Proprio per questo è odiato più dei nemici esterni: è il simbolo di una differenza che non può essere tollerata. Chi invoca libertà viene trasformato nel pericolo da cui difendersi. È un rovesciamento che riconosciamo ogni volta che la richiesta di trasparenza, di confronto, di discussione sul merito viene squalificata come pettegolezzo, odio, “pericolo per la democrazia”, e al posto delle risposte arrivano solo appelli a “prendere provvedimenti” contro chi ha osato parlare. E così ci sentiamo dare del pettegolo proprio da chi campa di pettegolezzo; accusare di scrivere il falso da chi è stato richiamato dalle proprie redazioni e costretto a rettificare perché aveva scritto il falso; imputare attacchi personali da parte di chi si muove in branco, con dinamiche che ricordano le squadracce fasciste. È il gioco antico di proiettare su altri le proprie colpe, deformando i fatti per non guardarsi allo specchio.
L’intolleranza verso chi la pensa diversamente, nelle pagine di Orwell, non è un incidente di percorso ma il cuore stesso del sistema: senza un nemico interno da demonizzare, il Partito non reggerebbe. Senza una contro realtà da schiacciare, i maiali non riuscirebbero a convincere gli altri che “comandare è una responsabilità gravosa” e che la soppressione del dibattito è un sacrificio per il bene comune. Del resto, provate a cercare nelle copiose produzioni di queste persone se ci sono testi che non nascano per attaccare qualcuno, smontare una tesi, aggredire gli altri come in questo video.
La lezione, per noi, è brutale: ogni società che smette di tollerare il dissenso, che risponde alle domande con campagne di delegittimazione, che addestra i suoi “gregari” a belare slogan invece di ragionare, ha già imboccato la strada che porta dalla paura della differenza alla soppressione della libertà. Orwell non ci consegna un manuale di storia passata, ma uno specchio in cui misurare quanto, oggi, siamo disposti a convivere con chi non è d’accordo con noi.
Marco Felipe Perfetti
Direttore Silere non possum