C’è un verbo, nel Vangelo, che raramente ritroviamo nei programmi pastorali, nei documenti pontifici , nelle nostre meditazioni quotidiane: discendere. Non è elegante, non è vincente, non è moderno. Eppure, proprio ieri, a Castel Gandolfo, Leone XIV ha fatto iniziare tutto da lì: da una strada che “scende da Gerusalemme a Gerico”. Una parabola. Una discesa. Un agguato. Un uomo lasciato mezzo morto. E un altro uomo, straniero, che si ferma, lo cura, lo solleva.

Ma il Papa non stava facendo solo un commento esegetico. Stava parlando di noi. Perché quella strada, ha detto, è la strada di tutti: di chi scivola nel dolore, di chi affonda nella solitudine, di chi viene derubato dei sogni. Discendere, oggi, non è solo un movimento fisico: è la traiettoria di una condizione esistenziale. È toccare il fondo. Eppure, proprio lì, nel fondo, nel basso che non seduce e non conta, Leone XIV, nella sua omelia, ha pronunciato un invito che lascia inquieti: «C’è bisogno di una rivoluzione dell’amore». Oggi, guardando l’immagine del Pontefice che si china per accogliere un bambino che gli corre incontro, quelle parole mi sono tornate alla mente con forza nuova. Nella Sala Ducale del Palazzo Apostolico, il Santo Padre ha abbracciato il figlio di una famiglia ricevuta in udienza privata: un gesto semplice, eppure capace di rendere visibile ciò che ieri, a Castel Gandolfo, ha annunciato con la voce.

Che senso ha parlare di rivoluzione, oggi? E soprattutto: che senso ha parlare d’amore, parola usurata dalle canzonette estive e dagli slogan pubblicitari? È proprio qui che la scelta lessicale del Papa diventa profetica: non ci chiede di amare di più, ma di rivoluzionare il modo di amare. Di smettere di vedere l’amore come uno stato d’animo, e cominciare a viverlo come una scelta. Non un moto spontaneo, ma una disciplina. Non un privilegio, ma un compito. Il samaritano della parabola non è mosso dalla simpatia. È mosso da compassione, parola che letteralmente significa “patire con”. La rivoluzione dell’amore comincia sempre così: patendo con qualcuno. Fermandosi. Uscendo dalla corsa. Perdere tempo, perdere posizione, perdere vantaggi. Non suona come un buon piano strategico.

Eppure, “ama e fa’ ciò che vuoi”, scriveva sant’Agostino. Non come autorizzazione al capriccio, ma come imperativo a far passare ogni azione dalla cruna dell’amore. Di quell’amore che non invidia, non si vanta, non cerca il proprio interesse, come spiega bene Paolo ai Corinzi. Amore che non è un’emozione fugace, ma una fedeltà nella discesa. Quante volte riduciamo l’amore a un tono garbato, a un sorriso preconfezionato, a una pastorale disinnescata? E invece, l’amore di cui parla il Vangelo – e che ieri Leone XIV ha ricordato – è scomodo, è pericoloso, è divisivo. Perché costringe a scegliere: o ci si ferma sulla strada di Gerico, o si passa oltre. Non esistono vie intermedie.

Mi è capitato di rileggere, in questi giorni con gli adolescenti, alcune pagine di Antoine de Saint-Exupéry, che nell’Uomo e il deserto scrive: «Amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.» E forse la direzione oggi è proprio quella che scende. Verso chi è caduto, verso chi è stato dimenticato, verso chi non ha più forze per rialzarsi. La Chiesa non è chiamata a brillare, ma a farsi lampada nella notte. Il cristiano non è l’eroe, ma il compagno di viaggio. Leone XIV, nella splendida cornice della chiesa di San Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo, ci ha ricordato che amare è scendere. In un mondo che esalta la scalata, la carriera, la vetta, lui ci ha ricordato la strada in discesa che ci ha offerto Gesù. Perché è lì che ci si fa umani. È lì che l’amore si misura in gesti, non in intenzioni. In silenzi, non in proclami.

C’è bisogno di una rivoluzione dell’amore. Non per assecondare quella presunzione di poter cambiare il mondo, ma per non essere noi a renderlo ancora più invivibile. Perché ogni volta che passiamo oltre, lasciamo qualcun altro mezzo morto per strada. E forse la rivoluzione non comincia dagli incarichi, dai titoli, ma da quel gesto silenzioso che nessuno vedrà. Da uno sconosciuto che si ferma. Da uno di noi.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum