Nel frastuono incessante della modernità, il silenzio sembra essere divenuto un lusso raro, quasi un'utopia inafferrabile. Eppure, come ci ricorda Mons. Erik Varden nella sua prefazione, il silenzio non è semplice assenza di rumore, ma un ascolto profondo che chiama a una risposta autentica. Proprio questa dimensione del silenzio come esperienza viva e trasformante è al centro del libro "Il Silenzio" di S.E.R. Mons. Massimo Camisasca e Stefano Picciano, un'opera che si propone come una guida sapiente e delicata per chiunque voglia intraprendere un pellegrinaggio interiore.
La statio: fermarsi per ascoltare
Uno degli spunti più potenti offerti dalla prefazione di Varden è il concetto di "statio". Si tratta della pratica monastica che vede i monaci fermarsi, dopo essere arrivati in coro o nel chiostro, prima di un momento di preghiera o di una celebrazione liturgica. Non è una semplice pausa, ma un'occasione per radicarsi nel presente, per riconoscere il proprio posto — fisico e spirituale — all'interno di una comunità e davanti a Dio. I monaci, allineati in silenzio nel chiostro, non sono ridotti a figure indistinte: la cocolla non cancella le differenze, ma le abbraccia, permettendo a ciascuno di avanzare nella comunione, accettando le tensioni interiori e comunitarie nella pace.
Camisasca e Picciano, con una scrittura semplice e profonda, guidano il lettore a scoprire come anche noi, immersi in una quotidianità assordante, possiamo praticare la nostra personale "statio". Si tratta di imparare a fermarsi, non per fuggire dal mondo, ma per abitarlo con maggiore consapevolezza, riscoprendo che solo attraverso l'ascolto silenzioso possiamo realmente rispondere alla vita.

Il silenzio: lotta interiore e comunione
Il libro affronta con realismo le sfide che il silenzio comporta. Non si tratta di una fuga romantica o di un'evanescente pace interiore, ma di una lotta profonda contro le "voci" che gridano dentro di noi. Come già ammoniva Antonio il Grande nel IV secolo, una volta messe a tacere le distrazioni esterne, restiamo soli con le nostre inquietudini più intime. Il silenzio, ricorda Varden, richiede umiltà, coraggio e perseveranza: qualità che solo un lungo apprendistato può coltivare.
Ma, paradossalmente, il silenzio non è isolamento. Anzi, proprio come i monaci che condividono il chiostro, esso ci radica in una comunità. Attraverso il silenzio, impariamo a riconoscere l'altro, a rispettarne la presenza senza sopraffarla con le nostre parole o i nostri rumori. La comunione autentica, spiega il religioso trappista, nasce dalla capacità di stare insieme nel silenzio, accogliendo le diversità senza paura.
Prefazione al libro "Il Silenzio" di S.E.R. Mons. Massimo Camisasca e Stefano Picciano edito da Marcianum Press
«Un aspetto della vita monastica che apprezzo sempre di più con il passare del tempo è la statio. La statio è, come suggerisce il nome, il fermarsi. Si riferisce al momento appena prima della Messa, o prima di un'Ora dell'Ufficio Divino, quando i monaci si raccolgono in silenzio affinché i loro corpi possano trovare quiete, le loro menti e i loro cuori pace. Si preparano per il mistero che stanno per celebrare. La statio può aver luogo nel chiostro o in chiesa. Nel chiostro, prima dei vespri, per esempio, la comunità si mette in fila sempre lungo la stessa parete. I fratelli si ordinano in fila, con levità, ognuno al proprio posto. Il rango nel monastero è determinato oggettivamente, dedotto semplicemente dall'ora di ingresso di una persona. Così, dice san Benedetto, se due fratelli entrano nel monastero lo stesso giorno, uno alla prima ora, l'altro alla seconda, il secondo saprà di essere più giovane di quello che è arrivato per primo. I due trascorrono la loro vita fianco a fianco, nel coro, nel refettorio, nel capitolo. Diventano fonte di stabilità, persino di identità, l'uno per l'altro. La quiete della statio deriva in non piccola misura dal fatto che ognuno sa esattamente quale è il suo posto. Lo si attende esattamente li; se manca, tutto l'insieme rimarrà in qualche modo imperfetto.
Una volta al suo posto, il monaco resta in attesa, così come i suoi confratelli. Di solito indossa la cocolla, la veste dalle lunghe maniche che è segno della sua consacrazione, e si copre la testa con il cappuccio. Chi osserva da lontano una comunità così radunata percepisce i suoi membri quasi fossero identici, come i pezzi degli scacchi, solo con piccole divertenti variazioni dovute all'altezza e alla circonferenza. Chiunque conosca da vicino un qualunque monastero sa quanto sia illusoria questa impressione. Una gamma inverosimile di caratteri e sensibilità costituisce ciò che San Benedetto chiama il corpus monasterii, quella chiesa in miniatura in cui tutti sono membri di un unico corpo vivente. Il fatto di essere vestiti allo stesso modo, di indossare il segno di un ideale condiviso, non elimina la diversità, ma la contiene, consentendo agli individui di progredire (a volte in modo laborioso) in una concreta realtà di comunione che consente alle tensioni personali e comunitarie di essere risolte nella pace.
Trovarsi regolarmente nella statio significa ricongiungersi decisamente con ciò che si è e il luogo in cui ci si trova. E dire: «Questo è ciò che sono; questa è la compagnia che servirò, che amerò e a cui sarò fedele; questo è il mio campo di battaglia e potenzialmente il mio paradiso». Riconoscere questa realtà in silenzio, prendendovi gusto, è costruttivo nel senso più profondo del ter-mine. Mi edifica, distaccandomi da tutto ciò che mi frammenta e mi distrae, e mi radica in un contesto allo stesso tempo sociale e soprannaturale. Stare in silenzio, quindi, significa essere intensamente vigili, invitati ad acconsentire alle cose così come sono affinché la loro fecondità possa essere rivelata.
Il vero silenzio non è mai semplicemente assenza di rumore. Silenzio significa ascoltare, e ascoltare, come sa ogni monaco, significa essere chiamati a dare una risposta a ciò che si sente. In latino, il legame tra audire e oboedire, tra l'ascolto e l'obbedienza, è etimologicamente evidente; un termine palesemente deriva dall'altro. Per tutti noi, tuttavia, non importa quale lingua parliamo, questa connessione deve essere fatta esistenzialmente, nel modo in cui edifichiamo la nostra vita.
Il silenzio, oggigiorno, è difficile da trovare. Molti ne sono affamati. Molti lo cercano, solo per scoprire che, stabiliti in qualche luogo remoto o in un ritiro austero, con tutti i loro gadgets spenti, non lo possono sopportare. Silenziare le voci esterne ci rende stranamente consapevoli della cacofonia di voci che gridano dentro. Per affrontarle, abbiamo bisogno di umiltà, coraggio e perseveranza. Antonio il Grande scrisse nel quarto secolo: «Chi dimora nel deserto e persiste nella quiete [in hesychia] è liberato da tre specie di combattimenti, quelli dell'udito, del pettegolezzo e della vista; può dedicarsi completamente a un'unica battaglia, quella del cuore».
Per noi che viviamo in un universo di distrazione onnipresente e dittatoriale, quest'ultima battaglia è ancora più impegnativa di quanto non lo fosse per lui. Infatti, i nostri cuori non hanno forse perso in gran parte l'abitudine al silenzio? Il silenzio non è forse per noi un universo quasi mitico o un'utopia, per giunta leggermente minaccioso? Noi moderni dobbiamo imparare a stare in silenzio. La gioia del silenzio è per noi un gusto che dobbiamo acquisire, proprio come un palato brutalizzato da bevande eccessivamente zuccherate deve sottoporsi a un lento apprendistato, un digiuno dalle sensazioni travolgenti per assaporare la delicatezza di un raffinato tè al gelsomino.
Monsignor Massimo Camisasca e Stefano Picciano ci hanno fatto il gentile favore, in questo libro essenziale, di insegnarci, con passi alla nostra portata, come entrare nel mondo del silenzio, trasformando quello che potrebbe sembrare un raggiungere la luna in un pellegrinaggio graduale e ricco di grazia. Questo libro sarà una benedizione per molti. Quanto più silenzioso sarà il lettore, tanto più profonda e paradossalmente melodiosa sarà la sua risonanza»
+ Erik Varden O.C.S.O.