Dal 2 al 13 settembre 2024 Papa Francesco si è recato in Oceania ed Asia per compiere il 45° Viaggio Apostolico Internazionale. Il 4 settembre 2024, dopo aver incontrato il Presidente dell’Indonesia e il Corpo diplomatico, alle 11,30 circa, il Pontefice è rientrato nella Nunziatura di Giacarta, dove ha incontrato circa 200 gesuiti indonesiani con loro il superiore, Benedictus Hari Juliawan. Martedì 24 settembre 2024 La Civiltà Cattolica ha pubblicato la trascrizione dell'incontro. Il Papa è rimasto colpito dalla presenza di giovani religiosi nella provincia. Il suo primo commento è stato: «Ci sono molti giovani qui!».
«Chi vuole fare una domanda, alzi la mano!» ha esordito il Papa. Il dialogo è avvenuto in indonesiano, con traduzione in italiano.
Grazie, papa Francesco, per essere venuto in Indonesia e per questo incontro con noi. Sono uno scolastico che studia teologia. Ho una domanda: come affrontare le questioni più importanti nella Chiesa di oggi? E in particolare, come facciamo ad aiutare le persone più emarginate ed escluse?
Io voglio che i gesuiti facciano «chiasso». Leggete il libro degli Atti degli Apostoli per vedere che cosa hanno fatto loro all’inizio del cristianesimo! Lo Spirito porta a fare «chiasso», non a lasciare tutto fermo: questo è, in sintesi, il modo di affrontare le questioni importanti. E ricordate che i gesuiti devono stare nei posti più difficili, dove è meno facile agire. È il nostro modo di «andare oltre» per la maggior gloria di Dio. E per far bene chiasso guidati dallo Spirito, bisogna pregare, pregare tanto. Mi viene in mente sempre il testamento di padre Arrupe, quando chiese di non lasciare la preghiera. Padre Arrupe ha voluto che i gesuiti lavorassero con i rifugiati – una frontiera difficile –, e lo ha fatto chiedendo loro innanzitutto una cosa: la preghiera, più preghiera. Il suo ultimo discorso, che fece a Bangkok, fu il suo testamento rivolto ai gesuiti. Disse che solamente nella preghiera troviamo la forza e l’ispirazione per affrontare l’ingiustizia sociale. E guardate anche alla vita di Francesco Saverio, di Matteo Ricci e di tanti altri gesuiti: sono stati capaci di andare avanti grazie al loro spirito di preghiera.
Ho una richiesta: Lei parla del dialogo interreligioso e dell’importanza dell’armonia tra le religioni. I gesuiti che vivono in Pakistan hanno a che fare con gente che è stata vittima di persecuzioni. Qual è il suo consiglio?
Penso che quella del cristiano sia sempre la strada del «martirio», cioè della testimonianza. Serve dare testimonianza con prudenza e con coraggio: sono due elementi che vanno insieme, e spetta a ciascuno trovare la propria strada. A proposito del Pakistan, mi viene in mente, ad esempio, la figura di Asia Bibi, che è stata lasciata in carcere per quasi 10 anni. Io ho conosciuto sua figlia, che le portava di nascosto la Comunione. Lei ha dato una testimonianza coraggiosa per tanti anni. Andate avanti con prudenza coraggiosa! La prudenza sempre rischia quando è coraggiosa. Invece la prudenza pusillanime ha il cuore piccolo.
Padre, mi chiedo come faccia a pregare nel mezzo delle sue giornate così piene di impegni…
Ne ho bisogno, sai? Ne ho proprio bisogno. Mi alzo presto, perché sono vecchio. Dopo il riposo, che mi fa bene, mi alzo verso le 4, poi alle 5 comincio la preghiera: dico il breviario e parlo al Signore. Se la preghiera è un po’, diciamo così, «noiosa», allora dico il rosario. Poi vado al Palazzo per le udienze. Poi pranzo e mi riposo un po’. A volte davanti al Signore faccio una preghiera silenziosa. Prego, celebro l’Eucaristia, certo. La sera faccio ancora un po’ di preghiera. È molto importante per la preghiera fare la lettura spirituale: dobbiamo far crescere la nostra spiritualità con buone letture. Prego così, semplicemente… È semplice, sai? Alcune volte mi addormento nella preghiera. E questo, quando capita, non è un problema: per me è un segnale che sto bene con il Signore! Mi riposo pregando. Non lasciare mai la preghiera!
Santità, io sono un formatore. Vorrei sapere quali sono i suoi consigli per la formazione in una comunità internazionale. Come promuovere l’interculturalità, rispettando il «background» multiculturale di coloro che sono in formazione?
Guarda, ti parlo dello «scherzo» che ti fa lo Spirito Santo. Che cosa fa? Come ho detto prima, dopo la risurrezione di Cristo, la prima cosa che ha fatto è stata fare un «casino». Dovete leggere bene gli Atti degli Apostoli, ve lo ripeto. Lo Spirito «inventa», e così ci accompagna per tutta la vita. Che cosa ci dice il libro degli Atti degli Apostoli? Che a Gerusalemme c’era gente di ogni nazione: c’erano parti, medi, elamiti. Erano tutti diversi gli uni dagli altri. E tutti parlavano la propria lingua. E questa è stata la grazia dello Spirito: facevano «chiasso», parlavano la propria lingua, e tutti si capivano tra di loro. Questo è proprio dei gesuiti: essere strumenti dello Spirito Santo per fare tutto questo chiasso.
Questa è l’inculturazione. I gesuiti devono avere la capacità di inculturarsi, come tanti missionari hanno fatto nei vari continenti. E questo implica che il gesuita predichi nella lingua adatta, e nella forma adatta, secondo i luoghi e i tempi. I due pilastri sono l’inculturazione del Vangelo e l’evangelizzazione della cultura. Anche per questo i gesuiti sono tutti differenti tra loro, ed è bene che sia così. Non c’è un modello unico. La nostra vocazione è lasciare che il Signore ci faccia predicare il Vangelo con tutta la ricchezza che lui ci ha dato.
E questo vale anche per le condizioni, i temperamenti e i caratteri personali. Ad esempio, l’età: un giovane non può farsi vecchio, né un vecchio può farsi giovane, perché sarebbe ridicolo. Ognuno è chiamato ad annunciare il Vangelo con la propria età, la propria esperienza e la propria cultura. E aggiungo: proprio per questo è importante il discernimento. Bisogna essere capaci di discernere per inculturarsi: cercare e trovare Dio dove lui si fa trovare, già presente nelle culture. L’esercizio del discernimento è dinamico: ci aiuta a non poterci mai nascondere dietro il «si è fatto sempre così», andando avanti così come siamo abituati a fare da sempre. Non va bene: bisogna discernere in continuazione. E il discernimento porta avanti.
Ed è importante non discernere in solitudine, ma anche dialogare col superiore. Se ricevi una missione noiosa o che non senti tua, fai discernimento. Il buon discernimento non sempre si può fare da soli: ci vuole una compagnia. Parlo sia per i giovani in formazione sia per i gesuiti formati, e magari anche per gli anziani. Attenzione però che sono sempre in agguato le caricature del discernimento! Ricordo sempre il caso di un gesuita in formazione che faceva il «magistero» [si tratta di una tappa della formazione gesuitica]. La mamma era malata di tumore, e lui chiese al suo Provinciale di essere trasferito in un’altra città per starle vicino. Andò poi in cappella a pregare. Vi rimase fino a molto tardi. Rientrando, trovò sulla porta una lettera del Provinciale. Vide che era datata il giorno dopo. Il superiore aveva deciso che rimanesse dov’era e gli scriveva che aveva preso questa decisione dopo aver riflettuto e pregato. Ma non era vero! Aveva dato la lettera con la data del giorno dopo al ministro perché la consegnasse la mattina seguente, ma, data l’ora tarda, il ministro aveva pensato di metterla nella buca la notte. Questa è ipocrisia! Ascoltate voi che sarete superiori un domani: col discernimento non si gioca! Bisogna ascoltare lo Spirito. È una cosa seria. E la verità va sempre detta in faccia. Capito?
Un gesuita che Lei ama molto è uno dei primi compagni di sant’Ignazio, Pietro Favre. Mi pare che Lei menzioni più Favre che Ignazio stesso. Allora ho approfondito la sua personalità e ho capito che aveva una grande capacità di ascolto e di affidarsi allo Spirito Santo. È per questo che Lei lo ama così tanto?
Sì, è così. Ho letto tante volte il Memoriale di Favre e ne ho fatto curare una edizione quando ero Provinciale. Ci sono alcune storie in quel suo diario che parlano di una profonda saggezza del cuore. E lui è morto «in cammino». Ed è rimasto beato. Quando sono diventato Papa, allora, l’ho canonizzato. Ci sono studi molto belli sulla sua figura che puoi leggere. La sua la definirei una «pastorale del cuore», della quale oggi abbiamo tanto bisogno.
Siamo giovani scolastici, e a volte partecipiamo a movimenti di protesta. Io accompagno le famiglie delle vittime delle passate violazioni dei diritti umani. Le lascio una lettera scritta dalla signora Maria Katarina Sumarsih, madre di una delle vittime della tragedia di Semanggi nel 1998, quando sono stati uccisi civili che protestavano. Lei è una delle iniziatrici del Kamisan, ispirata alle Madri di Plaza de Mayo in Argentina. Questo gruppo chiede al governo di rivelare le passate violazioni dei diritti umani e di fornire giustizia alle vittime e alle loro famiglie. Quale consiglio può darci?
Sai che la presidente del movimento di Plaza de Majo è venuta a trovarmi? Mi ha commosso e mi ha aiutato molto parlare con lei. Mi ha trasmesso la passione di dar voce a chi non ce l’ha. Questo il nostro compito: dar voce a chi non ce l’ha. Ricordatelo: questo è il nostro compito. La situazione sotto la dittatura argentina è stata molto difficile, e queste donne, queste mamme, lottavano per la giustizia. Conservate sempre l’ideale di giustizia!
Il Pontefice legge la lettera e vede il nome di Marta Taty Almeida e aggiunge:
Sì, Marta Taty Almeida! È venuta da me prima che morisse!
Sono dal Myanmar. Da tre anni stiamo vivendo una situazione difficile. Che cosa ci consiglia di fare? Abbiamo perso vita, famiglia, sogni e futuro… come fare a non perdere la speranza?
La situazione in Myanmar è difficile. Sapete che i Rohingya mi stanno a cuore. Sono stato in Myanmar e lì ho parlato con la signora Aung San Suu Kyi, che era primo ministro e che adesso è in carcere. Poi sono andato a far visita al Bangladesh, e lì ho incontrato i Rohingya che sono stati cacciati via. Senti, non c’è una risposta universale alla tua domanda. Ci sono giovani bravi che lottano per la patria. In Myanmar oggi non si può stare in silenzio: bisogna fare qualcosa! Il futuro del tuo Paese deve essere la pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di tutti, sul rispetto di un ordine democratico che consenta a ciascuno di dare il suo contributo al bene comune. Io ho chiesto la liberazione della signora Aung San Suu Kyi e ho ricevuto il figlio a Roma. Ho offerto il Vaticano per accoglierla nel nostro territorio. In questo momento la signora è un simbolo. E i simboli politici sono da difendere. Ti ricordi quella suora in ginocchio con le mani alzate davanti ai militari? Ha fatto il giro del mondo. Prego per voi giovani, perché siate coraggiosi così. La Chiesa del vostro Paese è coraggiosa.
Sono il Provinciale dei gesuiti e la voglio ringraziare per quel che ci ha detto e per la sua saggezza. Io non faccio domande, ma vorrei farle conoscere un’attività che facciamo qui, e che fa parte della Rete di preghiera mondiale del Papa. Le facciamo vedere «Utusan», una rivista ben nota in Indonesia. In collaborazione con «Rohani», una rivista per i religiosi, ha invitato i lettori a scrivere a Lei lettere. In tanti lo hanno fatto, inclusi alcuni musulmani. Le lettere sono state poi pubblicate su «Utusan» e «Rohani», e anche in un libro intitolato «Whispers of Hope: Letters from our Hearts for Pope Francis». C’è anche un dono da parte nostra: una stola fatta dai carcerati con motivi batik, una tecnica indonesiana di tintura. Questo è un dono simbolo del loro pentimento.
Saluta i carcerati da parte mia, salutali! Quando ero arcivescovo di Buenos Aires, il Giovedì Santo non lavavo i piedi in cattedrale, ma in carcere. E lì ho imparato a dire sempre una preghiera quando entro in un carcere: «Signore, perché loro e non io?». Ci farà bene pregare così quando incontriamo gente che ha fallito, che è caduta: «Perché lui e non io?».
Infine, il Provinciale ha consegnato al Papa una scultura in legno con il simbolo IHS della Compagnia di Gesù, dicendo: «Con questi doni, speriamo che il Santo Padre si ricordi sempre di noi, i gesuiti dell’Indonesia». Il Papa ha risposto con un sorriso: «Troppi regali! Grazie di tutto. Pregate per me, e per la Compagnia perché sia coraggiosa… Ora preghiamo insieme la Madonna con un’«Ave Maria», ciascuno nella sua lingua»