Dal 2 al 13 settembre 2024 Papa Francesco si è recato in Oceania ed Asia per compiere il 45° Viaggio Apostolico Internazionale. Martedì 10 settembre 2024, dopo aver incontrato i vescovi, i sacerdoti e le persone consacrate nella cattedrale di Dili, il Pontefice ha raggiunto 42 gesuiti che lo attendevano in Nunziatura. Martedì 24 settembre 2024 La Civiltà Cattolica ha pubblicato la trascrizione dell'incontro.

Il Papa spara a zero contro il consigliere di Clemente XIV, padre Bontempi, che consigliò saggiamente al Papa di sopprimere la Compagnia di Gesù. Bergoglio offre la sua visione delle cose e consiglia la lettura di un libro curato da lui. Peccato, però, che la storia non andò proprio così e ne abbiamo la prova. Non sono cattivi coloro che hanno punito la Compagnia, semplicemente ci avevano visto lungo. Inutile dire che i temi sono sempre i soliti: mondanità, clericalismo e, scopriamo inoltre, che il Signore nel giorno del giudizio non ci chiederà se siamo stati a Messa (del resto il Papa non la celebra da anni, ormai) ma saremo giudicati su questioni di giustizia sociale. 

Dopo i saluti, il superiore regionale, p. Erik Jon Gerilla, ha rivolto al Papa un breve saluto e ha presentato il gruppo: «A nome di tutti i presenti permettetemi di esprimere un sentito ringraziamento a Sua Santità, per aver poi gentilmente ricevuto oggi, i membri della regione gesuita indipendente di Timor. Con noi ci sono anche scolastici che stanno facendo la loro formazione all’estero, e abbiamo anche un sacerdote a Roma. Noi siamo impegnati nel ministero dell’educazione, nel ministero spirituale, nel ministero sociale, nel lavoro pastorale e formativo. E vorrei presentare in particolare padre João Felgueiras, il missionario più longevo, proveniente dal Portogallo, che ora ha 103 anni. Ha conosciuto personalmente i primi missionari gesuiti e collega la storia antica con il presente. Quest’anno segna una data storica per noi gesuiti di Timor, poiché celebriamo il 125° anno della prima missione gesuita. Sebbene fossimo stati espulsi da Timor nel 1910, siamo tornati molti anni dopo. La sedia su cui siede ora, Santità, è stata realizzata con i legni della vecchia chiesa sopravvissuta, costruita dai gesuiti nel 1905».

Papa Francesco ha detto: «Siete laboriosi! Ponetemi domande adesso…» Il dialogo è proseguito in spagnolo e portoghese.

Buongiorno, caro Santo Padre. Innanzitutto, grazie mille per essere qui con noi. Sono il direttore del Centro studi ignaziani e coordinatore nazionale della Rete mondiale di preghiera del Papa. Con gioia, vorrei porre una domanda a Sua Santità: cosa spera con il motto della sua visita a Timor Est, «che la vostra fede diventi la vostra cultura», per i cattolici e la Chiesa cattolica di Timor Est, il Paese in cui si trova la maggioranza dei cattolici del continente asiatico? A che punto è questo incontro tra fede e cultura, in quest’epoca davvero impegnativa, nel contesto della vita della Chiesa timorese? Grazie mille, Santo Padre.

Una cosa deve essere chiara nella predicazione del Vangelo: evangelizzare la cultura, ma anche inculturare il Vangelo. La fede deve essere inculturata. Una fede che non crea cultura è una fede proselitista. Non dobbiamo dimenticare quello che ha detto Benedetto XVI: il Vangelo non si diffonde facendo proselitismo, ma inculturando. L’evangelizzazione della cultura e l’inculturazione della fede devono andare di pari passo, e noi dobbiamo essere attenti a questo. Ricordatevi sempre dello stile della nostra missione in Cina!

Santo Padre, alla luce delle sfide globali che la Chiesa deve affrontare, quali sono le aree chiave che i gesuiti di Timor Est dovrebbero privilegiare nella loro missione apostolica?

La sfida della Chiesa è sempre quella di non allontanarsi dal popolo di Dio. Dobbiamo fuggire dalle ideologie ecclesiali. Questa è la sfida che vi lascio: non allontanatevi dal popolo, che è il bene più prezioso.

Sono stato ordinato sacerdote tre anni fa e ringrazio Dio per la chiamata a essere gesuita. Attualmente sono in servizio come economo dei gesuiti a Timor. Sono orgoglioso di far parte del Segretariato della Carità, che ha preparato la visita di Sua Santità. È stata una grande ispirazione e una lezione che ho imparato. Vorrei esprimere i miei più sinceri ringraziamenti per questa preziosa e privilegiata opportunità. Ho una domanda sul rapporto tra la Chiesa e la Compagnia di Gesù: quale ritiene sia il rapporto della Compagnia con la Chiesa universale?

È un rapporto in guerra, sempre! [Il Papa ride]. Sono entrato in noviziato nel 1958, quindi ho vissuto tutto il cambiamento conciliare. Ho partecipato all’elezione di padre Kolvenbach, dove c’era già un gruppo di gesuiti spagnoli che accusavano la Compagnia di tradire la Chiesa. In quel momento di crisi della Compagnia di Gesù fu molto importante avere un padre Generale carismatico. E lì ho visto dispiegarsi le tensioni nella Chiesa. Il discorso che san Paolo VI fece per la Congregazione Generale XXXII è un’opera d’arte. [Silere non possum ha parlato di queste derive in un articolo] Dice chiaramente ciò che la Chiesa vuole dalla Compagnia. Vi chiedo di leggere quel discorso: è un capolavoro. E quando ero già Papa, ho chiesto se c’erano i manoscritti; così il bibliotecario è andato all’Archivio segreto e me li ha portati. L’ha scritta di suo pugno; per questo dico che è spontanea. Ho visto la bozza scritta di suo pugno. Leggetelo, è un discorso forte. Questo è il rapporto con la Chiesa, un rapporto di libertà.

Dopo, ci sono stati momenti che sono stati interpretati come scontri, come quando san Giovanni Paolo II è andato a trovare padre Arrupe, che era già malato. Ed è stato nominato il padre Dezza per guidare temporaneamente la Compagnia in quel tempo. Alcuni lo additavano come un conservatore che avrebbe avuto un impatto negativo. E invece è stato un grande. Lui ci ha aiutati a capire come si governa la Compagnia nella tempesta. Voi qui avete dovuto pilotare diverse tempeste. Imparate da questa tradizione nei tempi difficili della Compagnia!

Timor Est è un Paese molto cattolico. C’è il rischio del clericalismo. Che ne pensa?

Hai messo il dito nella piaga: il clericalismo, che è ovunque. Per esempio, in Vaticano c’è una forte cultura clericale, che si sta lentamente cercando di cambiare. Il clericalismo è uno dei mezzi più sottili che il diavolo usa. Padre de Lubac, nelle ultime pagine del suo libro Meditazioni sulla Chiesa, parla della «mondanità spirituale». E dice che è la cosa peggiore che possa capitare alla Chiesa, persino peggiore del tempo dei Papi concubini. E il clericalismo è la massima mondanità all’interno del clero. Una cultura clericale è una cultura mondana. Ecco perché sant’Ignazio insiste tanto sull’esame della mondanità, dello spirito del mondo, perché i nostri peccati, soprattutto per gli uomini di frontiera, saranno lì, in quell’ambito; nella mondanità intellettuale, nella mondanità politica…

Mi aiuta molto la figura di Pedro Favre, che amo molto. Tra l’altro, l’hanno «schedato» come beato, uno dei più grandi uomini che la Compagnia abbia mai avuto. Eletto Papa, l’ho fatto santo. Un grande uomo. E Favre era un sacerdote non clericale, che andava da un posto all’altro nel servizio di Dio. Secondo me, per voi, per noi sacerdoti, questa mondanità spirituale è la malattia più difficile da superare.

Ho messo insieme un libro di cose che ho scritto a questo proposito quando ero arcivescovo. Tra l’altro, c’è una lettera che ho scritto sulla mondanità e sul clericalismo. Sant’Ignazio ci fa chiedere la grazia di non avere lo spirito del mondo. Se avete tempo, leggetela; è in un piccolo libro intitolato: Santos no mundanos. Il clericalismo è la peggiore malattia. Quindi tu dici: «Qui c’è clericalismo», e allora dobbiamo farci carico e insegnare ai giovani sacerdoti un altro modo di vivere il loro ministero. Il clericalismo è una cultura che distrugge la Chiesa. Perciò occorre combattete contro di esso. Il modo di combattere è quello di essere pastori del popolo. Ma mi potete dire: «Io lavoro all’università, tra gli intellettuali». Ebbene, quegli intellettuali che avete lì all’università, sono il popolo. Siate pastori della vostra gente! Un’ultima cosa per evitare il clericalismo. Rubo le parole di san Paolo a Timoteo: «Ricordati di tua madre e di tua nonna». Quando vi montate la testa, pensate a vostra madre e a vostra nonna! La fede che vi hanno dato non era clericalismo, era qualcos’altro…

Santo Padre, nei suoi 11 anni come primo Papa gesuita, quali sono state le decisioni più importanti e le sfide più difficili per la Chiesa cattolica universale?

Quello che si potrebbe definire un programma di pontificato è nell’Evangelii gaudium. Lo trovate lì. Voglio ricordarvi una cosa che riguarda la predicazione. Per me è molto importante trovare predicatori che siano vicini alla gente e a Dio. Mi piacciono i sacerdoti che predicano per 8 minuti e dicono tutto. E poi la misericordia: perdonate sempre! Se uno chiede perdono, voi perdonatelo. Confesso che in 53 anni di sacerdozio non ho mai rifiutato un’assoluzione. Anche se era incompleta. Ho sentito dire a un cardinale che, quando è in confessionale e le persone cominciano a dirgli i peccati più gravi balbettando per la vergogna, dice sempre: «Vada avanti, vada avanti, ho capito già», anche se non ha capito niente [Questa ricostruzione del Papa è falsa, Silere non possum lo ha spiegato in questo articolo]. Dio capisce tutto. Per favore, non trasformiamo il confessionale in un consultorio psichiatrico, non trasformiamolo in un tribunale. Se c’è una domanda da fare, e spero che siano poche, la si fa e poi si dà l’assoluzione. Un confessore di Buenos Aires, un cappuccino che ho fatto cardinale e che ha 96 anni, confessa tutto il giorno. Una volta è venuto a trovarmi e mi ha detto: «Ho uno scrupolo, perché perdono sempre, perdono tutto». «E che cosa fa quando ha questo scrupolo?», gli ho chiesto. «Vado dal Signore e gli dico: “Mettiti d’accordo con te stesso! Perché mi hai dato tu un cattivo esempio!”». 

Ha dei consigli particolari per il nostro lavoro a Timor Est legato alla giustizia sociale?

La giustizia sociale deve tener conto dei tre linguaggi umani: il linguaggio della mente, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. Essere un intellettuale astratto dalla realtà non serve a lavorare per la giustizia sociale; il cuore senza intelletto, non serve neppure; e un linguaggio delle mani senza cuore e senza intelletto, non serve nemmeno.

È importante il modo in cui padre Arrupe ha parlato ai gesuiti latinoamericani del pericolo dell’ideologia mescolata alla giustizia sociale. Padre Arrupe ci ha inviato una lettera pastorale molto ricca sulla giustizia sociale. E anche san Giovanni Paolo II ce ne ha inviata un’altra.

È una caratteristica dei gesuiti, ad esempio, quando si sono avvicinati alle comunità indigene: partire dal lavoro, dalla cultura e dalla musica. Aiutavano anche quegli schiavi neri che fuggivano dalla schiavitù in «riduzioni» chiamate quilombos. In altre parole, i gesuiti aiutavano anche quelli che per la mentalità ristretta dell’epoca erano considerati delinquenti sociali per essere fuggiti dalla schiavitù. La storia della Compagnia è piena di esempi di giustizia sociale. E nessuno di questi grandi uomini era «comunista»; no: erano gesuiti, e hanno portato avanti la dimensione sociale del Vangelo.

Nel giorno del giudizio, a nessuno di noi verrà chiesto: «Come ti sei comportato? Sei andato a Messa tutte le domeniche? Hai frequentato le riunioni? Sei stato obbediente al provinciale?». Non vi sto dicendo di essere disobbedienti, ovviamente, ma il Signore non ci chiederà questo. Ci chiederà invece: «Avevo fame, mi hai dato da mangiare? Avevo sete, mi hai dato da bere? Ero in prigione, mi hai visitato? Ero un fuggitivo, mi hai aiutato?». È su questo che saremo giudicati. E questo lo dice il Signore. Quindi la giustizia sociale è parte essenziale e integrante del Vangelo.

È molto bello vedere come questo desiderio di giustizia sociale, nel corso della storia, abbia dato i suoi frutti, a seconda dei tempi, delle persone e dei luoghi, come dice sant’Ignazio. Quando sant’Ignazio ci chiede di essere creativi, ci dice: guardate i luoghi, i tempi e le persone. Le regole, le Costituzioni sono importanti, ma considerando sempre i luoghi, i tempi e le persone. È una sfida di crea­tività e di giustizia sociale. È così che si deve stabilire la giustizia sociale, non con teorie socialiste. Il Vangelo ha la sua voce propria.

Come possiamo coinvolgere i laici nella nostra missione, seguendo la sua chiamata a una Chiesa più inclusiva e partecipativa?

Per la sua missione di inculturazione la Compagnia ha bisogno dei laici, e mi piace quello che la Compagnia sta facendo con loro in vari luoghi. Qualche mese fa è venuto a trovarmi la presidente di un’università gesuita, che ha un organico di professori laici, ovviamente uomini e donne. Le ho chiesto: «E cosa fanno i gesuiti?». Mi ha risposto: «Quello che devono fare: accompagnare pastoralmente e darci dei criteri». Il gesuita, quando sa che una cosa può essere presa da un laico, la lascia a lui. Insisto molto sull’importanza di lasciare spazio ai laici. Forse perché sono abituato a farlo. Quando ero Provinciale, avevamo tre università cattoliche, due delle quali fortemente indebitate. Con una di esse, l’Universidad del Salvador a Buenos Aires, abbiamo iniziato un processo di cessione ai laici, che la gestiscono ormai da 25 anni e tutto va molto bene, e anzi meglio di prima. I gesuiti aiutano nel lavoro pastorale. L’altra università di Salta, che era gestita dai gesuiti del Wisconsin, è stata rilevata dall’arcivescovado, ed è andata molto bene. Ne rimane solo una, in cui quasi tutte le posizioni di vertice sono ricoperte da laici, e i gesuiti si occupano della pastorale. Si tratta di un’università fondata dalla Compagnia di Gesù. Ho dovuto fare questi tre cambiamenti: darne una ai laici, un’altra all’arcivescovado, e tenere la terza in modo da gestirla bene. Questa è la mia esperienza. Non dimenticate che l’importante è la pastorale, sia quella intellettuale, che è fondamentale, sia quella legata alla vicinanza ai giovani. Per esempio, ho nipoti che studiano in un’università di Washington, la Georgetown. I gesuiti hanno organizzato un buon sistema e gli studenti hanno una buona formazione spirituale, intellettuale e comunitaria. Alla domanda: «L’università oggi è un apostolato sociale?», la mia risposta è: «Certo!». Per preparare i prossimi leader universitari, naturalmente.

Grazie per essere pastore della Chiesa con uno stile che sa mostrare la forza del Vangelo di Gesù nell’affrontare il materialismo e la secolarizzazione. Come ha sviluppato il suo programma di governo? Noi gesuiti vorremmo i suoi consigli per affrontare le sfide della nostra vocazione. Che ci consiglia di fare?

Sono stato eletto Papa, senza immaginare di poterlo essere. Ma, una volta eletto, ho pensato al programma che avrei dovuto seguire. Quello che i cardinali avevano detto nelle riunioni prima del Conclave era ciò che sentivo di dover valorizzare e farlo diventare programma. Perché quando uno fa qualcosa solo con le proprie mani, non è fruttuoso, non è utile. Ognuno di noi deve portare avanti ciò che gli è stato affidato, ma con l’originalità dei luoghi, dei tempi e delle persone. Certo, io vengo dall’America Latina e, ad esempio, un tedesco potrebbe non capirmi subito, perché io e lui abbiamo culture diverse. Il criterio è sempre quello: assumere la missione perché ti è stata data. A chi è eletto Papa chiedono se accetta o meno. Ma una volta che hai accettato, non hai scelta: o vai avanti con i tuoi criteri astratti e personali, o vai avanti con quello che ti chiede la Chiesa. Così ho sviluppato il mio programma.

Mi viene in mente la storia di Clemente XIV. Sono molto dispiaciuto per la sua vita. Con le manovre della monarchia spagnola fu eletto Papa. Era un uomo buono, ma ingenuo. Aveva un segretario di nome Bontempi, che era un poco di buono. Con la complicità dell’ambasciatore spagnolo riuscì a far sciogliere la Compagnia di Gesù. Ganganelli era un uomo debole al governo, gestito da un furbo furfante come segretario. Un gesuita deve essere forte in ciò che fa, forte anche nell’obbedienza, e non deve lasciarsi gestire da nessuno. Ascolta i consigli, sì, ma alla fine decide con saggezza. Quando morì papa Clemente XIV, Bontempi, che era un frate conventuale, si nascose nell’ambasciata spagnola. Passata la tempesta, si presentò al suo Superiore Generale con tre bolle papali: una che gli permetteva di maneggiare denaro, un’altra che gli permetteva di vivere fuori dal convento e una terza che, se non ricordo male, gli permetteva di viaggiare ovunque. E il suo superiore, che era un uomo di Dio, gli disse: «Ti manca la quarta!». «Quale? – gli chiese Bontempi –. Sono solo tre!». «Quella che assicura la salvezza della tua anima», gli rispose. Vi consiglio di leggere la storia della soppressione della Compagnia nel Pastor. Lui la racconta molto bene nella sua storia dei Papi. Ogni gesuita dovrebbe conoscere le storie in cui la Compagnia è stata minacciata o voleva essere distrutta.

Alla fine dell’incontro, i gesuiti presenti hanno offerto al Papa alcuni doni, e poi due pacchi all'interno dei quali erano raccolti biglietti con preghiere che le persone hanno affidato al Pontefice. L’incontro si è concluso con l’«Ave Maria» recitata insieme e con le foto di rito.