Rimini Al Meeting per l’amicizia fra i popoli si è svolto uno degli appuntamenti più densi e toccanti di questa edizione: “Vite donate. L’eredità viva dei martiri d’Algeria”. Alle ore 12, davanti a un pubblico numeroso, il ricordo dei 19 religiosi e religiose assassinati in Algeria negli anni del cosiddetto “decennio nero” non è apparso come una pagina chiusa della storia, ma come un’eredità viva, capace di interrogare ancora oggi la coscienza della Chiesa e del mondo.

Una mostra come memoria e invito

Il cuore dell’incontro è stato la mostra “Chiamati due volte”, dedicata ai 19 martiri beatificati a Orano l’8 dicembre 2018. Il titolo richiama la loro duplice fedeltà: alla chiamata di Cristo nella vita religiosa e alla chiamata del popolo algerino, che decisero di non abbandonare nonostante le minacce. Il percorso espositivo — con i volti, le storie, gli oggetti personali e il testamento spirituale di Christian de Chergé, priore di Tibhirine — conduce i visitatori dentro la concretezza di una vita donata fino alla fine. La scritta in arabo “Dio è amore”, impressa su una veste liturgica del vescovo Pierre Claverie, appare come la sintesi del loro messaggio. Un’esperienza che Silere non possum racconterà nei prossimi giorni.

Il ricordo di suor Lourdes

A prendere per prima la parola, dopo l’introduzione, è stata suor Lourdes Miguélez Matilla, missionaria agostiniana sopravvissuta a un attentato in cui furono uccise due consorelle. Il suo racconto ha restituito la trama di una vita vissuta accanto al popolo algerino, fatta di amicizia, condivisione e fede tenace. “Volevo che i miei colleghi e i malati sentissero che io non li avrei abbandonati. Desideravo accompagnarli, sostenerli, condividere le loro paure. Era un modo per dire: la vostra sofferenza è anche la mia”, ha spiegato. Ricordando il martirio delle sue sorelle Esther e Caridad, ha confessato: “In quel momento ho potuto dire solo: Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno. Sì, era doloroso, ma eravamo pronte per questo”.

© Meeting Rimini
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La voce di un successore: il cardinale Vesco

Il momento centrale è stato l’intervento del cardinale domenicano Jean-Paul Vesco, arcivescovo di Algeri, che ha raccolto l’eredità dei martiri anche per vicinanza personale: fu vescovo di Orano, la diocesi di mons. Claverie, ucciso insieme al suo amico musulmano Mohamed Bouchikhi.

Alla domanda su cosa dicano i 19 martiri al mondo odierno, Vesco ha proposto tre piste: “la forza di una Chiesa unita, la forza della fratellanza, il potere sovversivo della fragilità”.

Una Chiesa unita. “È stato scelto di presentare la causa di beatificazione dei 19 tutta insieme, o tutti o nessuno. Non per la loro notorietà o i loro carismi personali, ma perché la loro testimonianza è comune: restare con il popolo, nella fedeltà, fino a condividere il rischio della morte.”

La forza della fratellanza. Il cardinale ha rievocato la beatificazione a Orano, celebrata nel santuario di Santa Cruz, con il sostegno delle autorità musulmane. “Quel giorno — ha detto — sui volti di tutti, cristiani e musulmani, c’era un sorriso. Era il segno che la fratellanza è possibile, anche nel cuore della violenza. Quel giorno abbiamo visto che perdere potere non significa perdere senso.”

Il potere della fragilità. “La nostra è una Chiesa piccola, disarmata. Ma proprio questa fragilità è la sua forza. È disarmante. È la testimonianza di una presenza povera e gratuita, che non minaccia nessuno, e proprio per questo può parlare a tutti”, ha detto il porporato.

Vesco ha concluso leggendo la preghiera di Christian de Chergé dopo il suo incontro con un capo del GIA, nel Natale 1994: “Non posso chiedere a Dio: uccidilo. Ma posso chiedere: disarmalo. E allora ho capito che avevo il diritto di dire questo solo se prima chiedevo: disarmami. Disarmaci. È la mia preghiera quotidiana”. Un invito che, ha sottolineato il presule, resta più che mai urgente in un mondo che continua a inseguire la corsa agli armamenti.

L’eco dal mondo musulmano: la testimonianza di Nagià Kebour

La professoressa Nagià Kebour, musulmana algerina e docente al PISAI, ha offerto una prospettiva preziosa: quella di chi ha vissuto in prima persona il terrorismo degli anni ’90. “Il terrorismo non era rivolto solo agli stranieri o ai cristiani: ha colpito tutto il popolo algerino. Ha tradito l’Islam stesso, che chiama Dio pace, misericordia, amore”, ha ricordato. Citando il Corano - “Chi uccide un innocente è come se uccidesse tutta l’umanità” - Kebour ha sottolineato che l’esperienza dei martiri di Tibhirine è per lei testimonianza di un’amicizia autentica: “Un’amicizia che va oltre l’odio, che costruisce ponti. Anch’io, ospitata in Italia dalle Piccole sorelle di Gesù, ho sperimentato questo amore gratuito. I martiri sono per me la prova che la fraternità è possibile”.

Padre Georgeon: gratuità e bene comune

L’incontro si è chiuso con le parole dell’abate Thomas Georgeon, trappista e postulatore della causa dei martiri. La sua riflessione ha portato al cuore della loro eredità: “I martiri non hanno cercato di convertire nessuno: hanno testimoniato. E ci chiamano alla nostra conversione. Ci mostrano che il dialogo nasce dall’umiltà e dal gusto per l’altro”.

Georgeon ha raccontato un episodio simbolico: durante i funerali di Claverie, una donna musulmana prese la parola per dire: “Era il mio vescovo”. Non perché avesse cambiato fede, ma perché quell’uomo l’aveva aiutata a riscoprire le radici della sua fede islamica. “Ecco — ha spiegato Georgeon — i martiri non hanno chiamato gli altri a convertirsi, ma hanno generato in loro una conversione interiore, un ritorno al senso della vita e della fede.”

La loro lezione, ha aggiunto, è anche sociale e politica: “In un mondo che ha smarrito il senso e si riduce alla logica del possesso, i martiri indicano la via del bene comune. Papa Francesco ha voluto che la beatificazione si celebrasse in Algeria, perché intuiva il valore di questo gesto per il dialogo interreligioso. Da lì è nato un percorso che ha portato fino alla Fratelli tutti. I 19 sono un’icona di questa fraternità universale: restare accanto al popolo, non cercando il proprio bene, ma il bene di tutti.”

E ha concluso con un richiamo alla gratuità: “Spesso mi chiedono: a cosa è servito questo martirio? Non ha servito a nulla. Non hanno fatto calcoli. Hanno donato la vita gratuitamente. In un mondo che misura tutto in termini di profitto, la loro gratuità resta una provocazione e una promessa”.

Un’eredità che interpella ancora

Le voci ascoltate oggi a Rimini hanno consegnato al Meeting non una memoria consolatoria, ma una domanda. L’eredità dei martiri d’Algeria non consiste in una retorica della morte, ma nella forza di un’amicizia, di una fedeltà, di una fraternità vissuta fino all’estremo. È questo che spiega perché, ancora oggi, il monastero di Tibhirine viene visitato da centinaia di musulmani ogni giorno, in silenzioso pellegrinaggio. Quelle vite, realmente, non sono state donate invano. Hanno mostrato che il cristianesimo non è teoria, ma esperienza viva, “un pugno dolce” - come è stato ricordato - che continua a scuotere e a generare speranza.

M.P.
Silere non possum