IV lenten sermon

“Proviamo a vedere attraverso quali mezzi la Chiesa può essere, per gli uomini d’oggi, il luogo privilegiato di una vera esperienza di Dio e del trascendente”, ha detto il Cardinale Cantalamessa ai membri della Curia Romana.

Venerdì 24 marzo 2023, all’interno della Sala Nervi, nello Stato della Città del Vaticano, il Predicatore della Casa Pontificia ha tenuto la quarta meditazione di quaresima soffermandosi sulla liturgia quale mistero della fede.

 «In tutte le preghiere eucaristiche – ha detto il cappuccino – passate e presenti, l’invito che segue immediatamente la consacrazione è sempre quello a ricordare: “Unde et memores”, “facendo dunque memoria”. È la risposta al comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me!” Ma, di lui, che cosa dobbiamo soprattutto ricordare? “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore” (1 Cor 11, 26)»

Di seguito il testo completo e l’audio della meditazione odierna. La quinta ed ultima predica di Quaresima avrà luogo venerdì 31 marzo 2023.

L.M.

Silere non possum

IV PREDICA DI QUARESIMA

Santo Padre, Venerabili Padri,

dopo quelle sull’evangelizzazione e sulla teologia, vorrei proporre oggi alcune riflessioni sulla liturgia e sul culto della Chiesa, sempre con l’intenzione di apportare un contributo, per quanto modesto e indiretto, ai lavori del sinodo. La liturgia è il punto di arrivo, ciò a cui tende l’evangelizzazione. Nella parabola evangelica, i servitori sono inviati per le strade e i crocicchi per invitare tutti al banchetto. La Chiesa è la sala del banchetto e l’Eucarestia “il pasto del Signore” (1 Cor 11, 20) in essa preparato.

Partiamo, nelle nostre riflessioni, da una parola della Lettera agli Ebrei: Per accostarsi a Dio – essa dice –, bisogna, anzitutto, “credere che egli esiste” (Eb 11, 6). Prima ancora, però, di credere che egli esiste (che è già un essersi accostati), è necessario avere almeno il “sentore” della sua esistenza. Questo è ciò che chiamiamo il senso del sacro e che un autore famoso chiama “il numinoso”, qualificandolo come “mistero tremendo e affascinante” . Sant’Agostino ha sorprendentemente anticipato questa scoperta della moderna Fenomenologia religiosa. Rivolto a Dio, nelle Confessioni, dice: “Quando ti ho conosciuto per la prima volta…, ho tremato di amore e di spavento: contremui amore et orrore” . E altrove dice: “Rabbrividisco e ardo” (et inhorresco et inardesco): rabbrividisco per la distanza, ardo per la somiglianza” .

Se venisse a mancare del tutto il senso del sacro, verrebbe a mancare il terreno stesso, o il clima, in cui sboccia l’atto di fede. Charles Péguy ha scritto che “la spaventosa penuria e indigenza del sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Se è caduto il senso del sacro, ne è rimasto, però, il rimpianto che qualcuno ha definito, laicamente, “nostalgia del Totalmente Altro” .

I giovani, più di tutti, avvertono questo bisogno di essere trasportati fuori dalla banalità del quotidiano, di evadere, e hanno inventato dei modi loro propri di soddisfare questo bisogno. È stato osservato da studiosi della psicologia di massa che i giovani che partecipavano un tempo a famosi concerti rock, come quelli dei Beatles, di Elvis Presley o il Woodstock Festival del 1969, erano trasportati fuori dal loro mondo quotidiano e proiettati in una dimensione che dava loro l’impressione di qualcosa di trascendente e di sacro.

Non diversamente avviene per quelli che partecipano oggi ai mega-raduni di cantanti e complessi canori. Il fatto di essere in tanti e di vibrare all’unisono con una massa amplifica all’infinito la propria emozione. Si ha il sentimento di far parte di una realtà diversa, superiore, che dà luogo a una sorta di “devozione. Il termine “fan” (abbreviazione di fanatic, cioè fanatico) è il corrispettivo secolarizzato di “devoto”. La qualifica di “idoli” data ai loro beniamini ha una profonda corrispondenza con la realtà.

Questi raduni di massa possono avere il loro valore artistico e veicolare talora messaggi nobili e positivi, come la pace e l’amore. Sono “liturgie”, nel senso originario e profano del termine, cioè spettacoli offerti al pubblico, per dovere, o per ottenerne il favore. Non hanno però nulla a che vedere con l’autentica esperienza del sacro. Nel titolo “Divina liturgia”, l’aggettivo divina è stato aggiunto proprio per distinguerla dalle liturgie umane. C’è una differenza qualitativa tra le due cose.

Proviamo a vedere attraverso quali mezzi la Chiesa può essere, per gli uomini d’oggi, il luogo privilegiato di una vera esperienza di Dio e del trascendente. La prima occasione a cui si pensa, anche per la somiglianza esterna, sono i grandi raduni promossi dalle varie Chiese cristiane. Pensiamo, per esempio, alle giornate mondiali della gioventù, e agli innumerevoli eventi – congressi, convegni e convocazioni – a cui prendono parte decine (a volte centinaia) di migliaia di persone in tutto il mondo. Non si conta il numero di persone per le quali tali eventi sono stati l’occasione di una esperienza forte di Dio e l’inizio di un rapporto nuovo e personale con Cristo.

Quello che fa la differenza tra questo tipo di incontri di massa e quelli descritti sopra è che qui il protagonista non è una personalità umana, ma Dio. Il senso del sacro che in essi si sperimenta è l’unico veramente genuino, e non un suo surrogato, perché è suscitato dal Santo dei Santi, e non da un “idolo”.

Questi, tuttavia, sono eventi straordinari, ai quali non tutti e non sempre possono partecipare. L’occasione per eccellenza e più comune, per un’esperienza del sacro nella Chiesa, è la liturgia. La liturgia cattolica si è trasformata, in poco tempo, da azione a forte impronta sacrale e sacerdotale, in azione più comunitaria e partecipata, dove tutto il popolo di Dio ha la sua parte, ognuno con il proprio ministero.

Vorrei cercare di dire come io vedo e spiego a me stesso questo cambiamento. Non è assolutamente per ergermi a giudice del passato, ma per comprendere meglio il presente. Il presente nella Chiesa non è mai rinnegamento del passato, ma suo arricchimento; oppure, come in questo caso, superamento del passato recente per recuperare quello più antico e originario.

Nell’evoluzione della Chiesa intesa come popolo, avviene qualcosa di simile a ciò che avviene con la Chiesa intesa come edificio. Pensiamo ad alcune celebri basiliche e cattedrali: quante trasformazioni architettoniche nel corso dei secoli per rispondere ai bisogni e ai gusti di ogni epoca! Ma è sempre la stessa Chiesa, dedicata allo stesso santo. Se c’è una tendenza generale in atto in epoca moderna, è quella di riportare tali edifici – quando ciò è possibile e ne vale la pena – alla loro struttura e stile originari. La stessa tendenza è in atto per la Chiesa come popolo di Dio e in particolare per la sua liturgia. Il Concilio Vaticano II ne è stato un momento decisivo, ma non l’inizio assoluto. Esso ha raccolto i frutti di tanto lavoro precedente.

Non è certo il caso di addentrarci qui nella storia secolare della Liturgia – altri l’hanno fatto e proprio dal punto di vista che ci interessa Vorrei solo evidenziare l’evoluzione che riguarda il senso del sacro. All’inizio della Chiesa e per i primi tre secoli, la liturgia è davvero una “liturgia”, cioè azione del popolo (laos, popolo, è tra le componenti etimologiche di leitourgia). Da san Giustino, dalla Traditio Apostolica di sant’Ippolito ed altre fonti del tempo, ricaviamo una visione della Messa certamente più vicina a quella riformata di oggi che a quella dei secoli che abbiamo alle spalle. Che cosa è avvenuto dopo di allora? La risposta è in una parola che non possiamo evitare: clericalizzazione! In nessun altro ambito essa ha agito più vistosamente che nella liturgia.

Il culto cristiano, e in particolare il sacrificio eucaristico, si trasformò rapidamente, in Oriente e in Occidente, da azione del popolo in azione del clero. Per secoli e secoli, la parte centrale della Messa, il Canone, era pronunciato in latino dal sacerdote, a bassa voce, dietro una cortina o un muro (quasi un tempio nel tempio!), fuori della vista e dell’ascolto del popolo. Il celebrante alzava la voce solo alle parole finali del Canone: “Per omnia saecula saeculorum”, e il popolo rispondeva “Amen!” a ciò che non aveva sentito e tanto meno capito. L’unico contatto con l’Eucaristia, annunciato dal suono delle campane o del campanello, era il momento dell’elevazione dell’Ostia.

C’è un evidente ritorno a ciò che avveniva nel culto dell’Antico Testamento, quando il Sommo Sacerdote entrava nel Sancta sanctorum, con incensi e sangue delle vittime, e il popolo rimaneva fuori tremante, sopraffatto dal senso della maestà e inaccessibilità di Dio.

Il senso del sacro è qui fortissimo, ma, dopo Cristo, è esso quello giusto e genuino? Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: Voi infatti non vi siete avvicinati … a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole…Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: Ho paura e tremo (Es 19, 16-18; Dt 9,19). Voi invece vi siete accostati… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele (Ebr 12, 18-24). Cristo è penetrato oltre il velo e non ha richiuso il varco dietro di sé (Ebr 10,20).

Il sacro ha cambiato il modo di manifestarsi: non più come mistero di maestà e potenza, ma come infinita capacità di farsi da parte, di nascondimento. Dopo la consacrazione, il celebrante dice o canta: “Mistero della fede!”Alcuni di noi più anziani ricorderanno che una volta l’esclamazione era inserita addirittura nel mezzo della formula di consacrazione del vino: “Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti -Mysterium fidei!- qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum”. Come se la Chiesa si fermasse, a metà del racconto, stupefatta di quello che stava dicendo!

La riforma ha fatto bene, naturalmente, a spostare tale esclamazione alla fine della consacrazione, ma dovremmo non perdere il senso di stupore racchiuso in essa e soprattutto capire quale deve essere il motivo vero del nostro stupore. Esso deve essere dello stesso genere di quello che si legge nei carmi del Servo di Jahvé:

Così si meraviglieranno di lui molte nazioni;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
(Is 52, 15- 53,1)

Stupore e meraviglia, sì, ma davanti a che cosa? Non alla maestà, ma all’umiliazione del Servo! Uno che aveva acutissimo questo sentimento era san Francesco d’Assisi: “L’umanità trepidi – scriveva in una sua lettera a tutto l’Ordine –, l’universo intero tremi e il cielo esulti quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo, figlio del Dio vivo”. Ma “trepidare e tremare” per che cosa”? Ascoltiamo il seguito: “O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, I’umiltà di Dio!” .

Si tratta solo di non sciupare questa possibilità offerta dalla liturgia rinnovata con improvvisazioni arbitrarie e bizzarre, e mantenere la necessaria sobrietà e compostezza, anche quando la Messa viene celebrata in situazioni e ambienti particolari.

In tutte le preghiere eucaristiche passate e presenti, l’invito che segue immediatamente la consacrazione è sempre quello a ricordare: “Unde et memores”, “facendo dunque memoria”. È la risposta al comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me!” Ma, di lui, che cosa dobbiamo soprattutto ricordare? “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore” (1 Cor 11, 26).

Cerchiamo di andare una volta oltre le parole, o meglio di dare alle parole un contenuto esistenziale e non solo rituale. Riportiamoci al momento in cui Gesú le pronunciò; cerchiamo –per quanto i racconti evangelici ci permettono di sapere – di cogliere in quali condizioni interiori quella parola “Fate questo in memoria di me!”, uscì dalla bocca del Redentore. Egli vede con chiarezza a che cosa sta andando incontro. Più volte ne ha parlato, ma come da lontano. Ora il momento è giunto; non c’è più neppure l’intervallo di tempo ad attenuare l’angoscia. Le parole: “Questo è il calice del mio sangue” non lasciano dubbi. È uno che sta andando incontro alla morte e a una morte orribile. “Qui pridie quam pateretur”: il giorno prima di soffrire la passione …

E cosa avviene intorno a lui? Gli apostoli trovano il modo di discutere ancora una volta su chi è il più grande (Lc 22, 24-27), come fratelli che litigano per spartirsi l’eredità intorno al letto di morte del proprio padre. Uno di loro, fra poche ore, lo venderà per 30 denari: “In qua nocte tradebatur”: nella notte in cui veniva tradito. In queste condizioni istituisce il sacramento con il quale si impegna a rimanere con i suoi fino alla fine del mondo. Dove trovare un mistero più “tremendo e affascinante” di questo? Il giorno che il Signore ci concedesse, per un attimo solo, di gettare uno sguardo fino al fondo di questo abisso di amore e di dolore, credo che non potremmo più vivere come prima. Questo spiega perché san Pio di Pietrelcina sembrava lottare nella Messa e non riuscire a portare a termine la consacrazione.

Ma adesso dobbiamo completare la nostra rivisitazione della Messa. Essa non consiste solo nel Canone con la consacrazione; ci sono anche la Liturgia della Parola e la Comunione. Noi abbiamo a disposizione alcuni mezzi che in passato non esistevano, per valorizzare la Liturgia della Parola e fare anche di essa l’occasione per una esperienza del sacro. Grazie al cammino che la Chiesa ha fatto nel frattempo in molti campi, noi abbiamo un accesso nuovo, più diretto, alla Parola di Dio. Essa può risuonare con una ricchezza e intelligenza più grandi che non nel passato.

L’attuale liturgia è ricchissima di Parola di Dio, disposta sapientemente, secondo l’ordine della storia della salvezza, in un quadro di riti spesso riportati alla linearità e semplicità delle origini. Dobbiamo valorizzare questi mezzi. Niente può fare breccia nel cuore dell’uomo e fargli sentire la trascendente realtà di Dio, meglio che una vivente parola di Dio, proclamata con fede e aderenza alla vita, durante la liturgia. La fede – dice san Paolo – nasce dall’ascolto della parola di Cristo: Fides ex auditu (Rm 10, 17).

Tante parole di Gesú, magari ascoltate poco prima nel Vangelo del giorno, al momento della consacrazione tornano a risuonare nel cuore, come pronunciate di nuovo dal loro autore vivo e realmente presente sull’altare. Io ricorderò sempre il giorno che, dopo aver commentato nel Vangelo la parola di Gesú: “Ecco, ora qui c’è più di Giona; ora qui c’è più di Salomone” (cf. Mt 12, 41-42), rialzandomi dalla genuflessione dopo la consacrazione, mi venne da esclamare dentro di me, convinto e pieno di stupore: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone!”.

Anche la lettura dall’Antico Testamento, dal confronto con il brano evangelico, sprigiona significati nuovi e illuminanti. Nel passaggio dalla figura alla realtà, la mente – diceva sant’Agostino – si accende come “una torcia in movimento” . Come ai due discepoli di Emmaus, Gesú continua a spiegarci “quello che in tutte le Scritture si riferisce a lui” (cf. Lc 24,27).

E poi, dicevo, la Comunione. Come può la liturgia fare, anche di questo momento, l’occasione per una esperienza del sacro, non solo a livello individuale, ma anche comunitario? Direi, con il silenzio. Esistono due specie di silenzio: un silenzio che possiamo chiamare ascetico e un silenzio mistico. Un silenzio con il quale la creatura cerca di elevarsi fino a Dio e un silenzio provocato da Dio che si fa vicino alla creatura. Il silenzio che segue la Comunione è un silenzio mistico, come quello che si osserva nelle teofanie dell’Antico Testamento. Dopo la comunione dovremmo ripetere a noi stessi la parola del profeta Sofonia (1,7): “Silenzio alla presenza del Signore Dio!” Non dovrebbe mancare mai qualche momento, anche se breve, di assoluto silenzio dopo la Comunione.

La tradizione cattolica ha sentito il bisogno di prolungare e dare più spazio a questo momento di personale contatto con il Cristo eucaristico e ha sviluppato nei secoli, soprattutto a partire dal sec. XIII, il culto dell’Eucaristia fuori della Messa. Esso non è un culto a parte, staccato e indipendente dal sacramento; è un continuare a “fare memoria” di Cristo: dei suoi misteri e delle sue parole, un modo di “ricevere” Gesú sempre più in profondità nella nostra vita. Un modo di interiorizzare il mistero ricevuto. L’adorazione eucaristica è il segno più chiaro che l’umiltà e il nascondimento di Cristo nell’Eucaristia non ci fanno dimenticare che siamo in presenza del “Santissimo”, di colui che, con il Padre e lo Spirito Santo, ha creato il cielo e la terra.

Dove essa viene praticata – da parrocchie, individui e comunità – i suoi frutti sono visibili, anche come momento di evangelizzazione. Una chiesa piena di fedeli in perfetto silenzio, durante un’ora di adorazione davanti al Santissimo esposto, farebbe dire a chi entrasse, per caso, in quel momento: “Qui c’è Dio!”. Ricordo il commento di un non-cattolico, al termine di un’ora di adorazione eucaristica silenziosa, in una grande chiesa parrocchiale degli Stati Uniti, gremita di fedeli: “Adesso capisco –disse a un amico – cosa intendete voi cattolici quando parlate di “presenza reale”!

Se c’è un motivo per cui io rimpiango il latino, è che con la sua scomparsa stanno scomparendo dall’uso alcuni canti nati per questi momenti e che sono serviti a generazioni di credenti di tutte le lingue per esprimere la loro calda devozione al Gesú dell’Eucaristia: l’Adoro te devote, l’Ave verum, il Panis angelicus. Essi sopravvivono ormai quasi solo per la musica che artisti celebri hanno scritto su quei testi.

Noi “ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1) e, in modi diversi, ogni fedele impegnato nel culto della Chiesa, potremmo sentirci schiacciati e impotenti davanti a un compito così sublime. Ne avremmo tutte le ragioni. Come aiutare gli uomini di oggi a fare, nella liturgia, una esperienza del sacro e del soprannaturale, noi che sperimentiamo in noi stessi tutta la pesantezza della carne e la sua refrattarietà allo spirito? Anche qui la risposta è sempre la stessa: “Avrete forza dallo Spirito Santo!” Egli, che è definito “l’anima della Chiesa”, è anche l’anima della sua liturgia, la luce e la forza dei riti.

È un dono che la riforma liturgica del Vaticano II abbia messo nel cuore della Messa l’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo: prima sul pane e sul vino e poi sull’intero corpo mistico della Chiesa. Io ho un grande rispetto per la veneranda preghiera eucaristica del Canone Romano e amo utilizzarla ancora, qualche volta, essendo quella con cui fui ordinato sacerdote. Non posso, però, non notare con rammarico la totale assenza in essa dello Spirito Santo. Al posto dell’attuale epiclesi consacratoria sul pane e sul vino, troviamo, in esso, la formula generica: “Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione…”.

È stata, anche questa, una triste conseguenza della polemica tra Oriente e Occidente. Essa ha spinto, in passato, noi Latini a mettere tra parentesi il ruolo dello Spirito Santo per attribuire tutta l’efficacia alle parole dell’istituzione e ha spinto i Greci a mettere tra parentesi le parole dell’istituzione per attribuire tutta l’efficacia all’azione dello Spirito Santo. Come se il mistero si compisse per una specie di reazione chimica di cui si può determinare l’istante preciso in cui avviene.

C‘è tuttavia una perla che il Canone Romano ha tramandato di generazione in generazione e che la riforma liturgica ha giustamente conservato e inserito in tutte le nuove preghiere eucaristiche: appunto la dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”: Per ipsum, cum ipso et in ipso est tibi, Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria per omnia saecula saeculorum.

Questa formula esprime una verità fondamentale che san Basilio ha formulato nel primo trattato scritto sullo Spirito Santo. Sul piano dell’essere, o dell’uscita delle creature da Dio, scrive, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della conoscenza, o del ritorno delle creature a Dio, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre . Essendo la liturgia il momento per eccellenza del ritorno delle creature a Dio, tutto in essa deve partire e prendere slancio dallo Spirito Santo.

Il messale antico conteneva tutta una serie di preghiere che il sacerdote doveva recitare in preparazione alla Messa. Oggi non potremmo preparaci alla celebrazione meglio che con una breve, ma intensa preghiera allo Spirito Santo perché rinnovi in noi l’unzione sacerdotale e metta nel nostro cuore lo stesso impulso che mise nel cuore di Cristo di offrici al Padre in sacrificio di soave odore. L’Epistola agli Ebrei dice che Gesú, “mosso da Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Ebr 9,14). Preghiamo affinché quello che è avvenuto nel Capo possa avvenire anche in noi, membra del suo corpo.

1.Rudolph Otto, Il Sacro (Das Heilige, 1917).
2.St. Augustine, Confessions, VII, 10.
3.Ib. XI, 9.
4.Max Horkheimer.
5.Cf. Mario Righetti, Storia Liturgica, vol. III (La Messa), Milano 1966.
6.Francesco d’Assisi, Lettera al capitolo generale, 2 (FF 221).
7.Agostino, Ep. 55, 11, 21.
8.Cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito Santo XVIII, 47 (PG 32 , 153).

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