In queste ore, nella città eterna come nelle più remote sagrestie della penisola, si discute di “tricorni, fiocchetti e sfilate”. C’è chi ironizza, c’è chi esalta. Ma pochi riescono a cogliere, dietro queste manifestazioni, le derive più profonde che rivelano.

La Chiesa cattolica custodisce una molteplicità di riti, e questa non è una fonte di conflitto, ma di ricchezza spirituale. Ci sono comunità che vivono con autenticità il rito di san Paolo VI, altre che celebrano il rito ambrosiano; i monaci certosini conservano una liturgia propria; e le Chiese orientali mantengono riti diversi, ciascuno espressione di una medesima fede. Anche la liturgia del 1962 appartiene a questa pluralità, e non si comprende perché non dovrebbe essere considerata tale.

Chi si scaglia ideologicamente contro questo rito diventa fattore di divisione: e la divisione, qualunque forma assuma, è pericolosa. Perché tutto ciò che divide non è cattolico, e non può costruire la comunione della Chiesa.

Così come da una parte c’è chi alimenta la divisione, anche dall’altra non mancano coloro che ne fanno la propria bandiera. Sempre più spesso, alcuni eventi si trasformano in teatri ideologici, dove si “marcia” per ottenere qualcosa, si “marcia” per protestare contro qualcuno, o si “celebra” per dimostrare qualcosa. Dietro la forma del pellegrinaggio, si cela talvolta un linguaggio politico, più che spirituale. E se in apparenza queste manifestazioni sembrano simili a quelle di tanti gruppi che, nel mondo, celebrano secondo il Messale del 1962 per sincera adesione a una certa sensibilità liturgica, in realtà la differenza è sostanziale: cambia l’atteggiamento, cambia il fine.

Da un lato ci sono comunità che vivono la liturgia antica come via di preghiera; dall’altro, gruppi che hanno trasformato quel rito in un vessillo “contro”, un segno identitario e polemico. È così che ciò che era nato come espressione di fede diventa strumento di contrapposizione, fino a generare un clima da “setta”, dove il collante non è più la spiritualità, ma l’affinità ideologica e politica. Mentre per i gruppi che vivono sinceramente la Santa Messa e la Liturgia delle Ore, nello spirito che animò il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, la liturgia è un luogo di pace, di silenzio e di preghiera, per altri - che si muovono ormai come sette - essa è diventata un’arma di contrapposizione. Per costoro, la “Messa di Paolo VI” non sarebbe “vera”, né “bella come la nostra”.

Chi non appartiene al loro mondo viene facilmente etichettato come “eretico”, “modernista”, “fuori dalla vera Chiesa”. Sono spesso gli stessi che, con parole e atteggiamenti, alimentano la divisione, arrivando spesso a ricorrere a calunnie e diffamazioni verso chi non rientra nei loro schemi - soprattutto sacerdoti e vescovi. E con l’elezione di Francesco, nel mirino è finito anche il Papa stesso, divenuto bersaglio di un dissenso che aveva ormai poco di critica costruttiva e molto di ideologico.

Cosa si nasconde dietro?

Dietro questa apparente coerenza liturgica, tuttavia, si nasconde un fenomeno più complesso, psicologico e sociologico, che interroga la Chiesa stessa. Perché queste comunità, che predicano la purezza morale, sono spesso attraversate da contraddizioni profondissime? Perché vi troviamo persone che condannano l’omosessualità ma la vivono, che giudicano i divorziati ma portano in sé ferite familiari, che parlano di “vera dottrina cattolica” e però sono coinvolte in procedimenti giudiziari o battaglie politiche tutt’altro che evangeliche? E soprattutto: perché, tra loro, ci sono tanti giovani - anche omosessuali e risposati - attratti da un mondo che li respinge?

Il bisogno di purezza come reazione alla crisi del senso

René Girard, in La violenza e il sacro, spiega che ogni comunità nasce dalla paura della violenza che la abita. Per evitare che la violenza divori il gruppo, essa viene canalizzata su una vittima, una figura su cui proiettare colpe e impurità.

“Là dove qualche momento prima c’erano mille conflitti particolari, c’è nuovamente una comunità una nell’odio che le ispira uno soltanto dei suoi membri.” Girard, La violenza e il sacro

Nelle “comunità tradizionaliste” – ma anche in quelle moderniste come alcune associazioni laicali - questa dinamica si ripete in forma simbolica: l’“altro” - il parroco che celebra diversamente, il Papa che non indossa i paramenti “giusti”, il monsignore che non cura le cerimonie come si vorrebbe, il vescovo che non si veste “come si deve”, l’omosessuale, il laico che non appartiene al gruppo o se ne discosta apertamente, o il sacerdote che celebra il Novus Ordo (da loro ribattezzato Novus Horror Missae) - diventa il nuovo capro espiatorio.

La purezza liturgica e morale si trasforma così in una barriera identitaria, un argine eretto contro il disordine percepito, contro la dissoluzione e il relativismo che si teme possano invadere la Chiesa e, più ancora, il proprio io. Il mondo moderno è percepito come caos, e il rito antico come ordine salvifico. Ma, come insegna Girard, il sacro qui, nasce proprio da quella violenza che pretende di estirpare.

La tecnica, l’anonimato e il desiderio di differenza

Umberto Galimberti, in Psiche e techne, descrive un’epoca dominata dalla tecnica, dove tutto è funzionale e intercambiabile, dove “la libertà si riduce alla libertà di funzionare”.

“La tecnica, che non riconosce come suo limite né la natura, né Dio, né l’uomo, ma solo lo stato dei risultati raggiunti, sposta all’infinito la sua soglia senza altro scopo se non l’autopotenziamento di sé.” Galimberti, Psiche e techne

In questo mondo impersonale, molti giovani cercano un altrove, un luogo dove la vita riacquisti spessore simbolico. Il rito antico, o nelle sette più moderne la “celebrazione esclusivamente della comunità” - offre proprio questo: un linguaggio separato dal quotidiano, un tempo lento, un gesto che non serve a nulla ma significa tutto. È la promessa di una differenza. Il latino, l’incenso, il silenzio, la distanza diventano il segno che lì, finalmente, qualcosa è sacro.

Ma il paradosso, come osserva Galimberti, è che questa ricerca di libertà diventa una nuova forma di schiavitù: “La sollecitazione della nostra attività serve solo ad abbassare la soglia percettiva della nostra passività.” Molti di questi giovani - spesso fragili, confusi, desiderosi di appartenenza - finiscono per adattarsi a un sistema che li rassicura ma li domina, che li libera dal mondo ma li consegna a una struttura ancora più rigida, dove ogni gesto, abito o parola deve coincidere con il modello.

La repressione come specchio del desiderio

Girard direbbe che “ogni rivalità mimetica è rivalità d’identità”. Il desiderio, negato, torna sotto forma di ossessione. Ecco perché in questi ambienti la sessualità è spesso terreno di lotta: più la si condanna, più la si teme, più si proietta fuori da sé. Molte persone - uomini e donne - che vivono un’omosessualità non accettata trovano nel tradizionalismo una via simbolica per addomesticarla: il rigore morale diventa la forma sublima del desiderio represso. Il nemico è sempre ciò che ci somiglia troppo. In questa luce, la violenza verbale e morale verso i “diversi” non è che una guerra interna - un tentativo di mantenere coesione espellendo la propria ambiguità. Come scrive Girard: “La comunità è attratta e respinta dalla sua stessa origine; il rito placa e inganna le forze malefiche perché non cessa di sfiorarle.” Il rito, dunque, non libera dalla violenza: la controlla, la mantiene viva, la istituzionalizza.

Il fascino dei giovani: appartenenza contro il vuoto

Si sente spesso ripetere un mantra: Qui ci sono tanti giovani. Nelle Messe normali no”. Eppure, basta un minimo di lucidità per accorgersi che i conti non tornano. Dal punto di vista statistico, riempire - a malapena - una chiesa romana durante un pellegrinaggio legato a un singolo rito non può essere segno di una “richiesta dei giovani del Rito Antico”. Basterebbe guardare alle Giornate Mondiali della Gioventù, dove migliaia di giovani, da tutto il mondo, partecipano ad una Santa Messa celebrata nel Rito di San Paolo VI.

Certo, qualcuno obietterà: “Sì, ma quelli erano distratti, con i cellulari in mano, venivano per altri motivi”. Eppure, anche in questa “marcia – pellegrinaggio” popolato da coloro che si proclamano più “puri”, le scene non erano poi diverse: uomini e donne intenti a riprendere con lo smartphone il cardinale che li benediceva con le chiroteche. La vera domanda, allora, è un’altra: perché tanti giovani, compresi coloro che si sono sposati per compiacere il parroco o che sono omosessuali, si avvicinano a queste realtà? Forse perché, in un tempo in cui tutto è liquido, i legami provvisori e le identità reversibili, queste comunità offrono qualcosa che appare come assoluto. Non una possibilità, ma una totalità. In un mondo che non chiede più nulla, lì tutto è chiaro: cosa pensare, come vestire, chi amare e - soprattutto - chi condannare. Girard lo spiegherebbe come bisogno di differenziazione, Galimberti come reazione alla neutralità tecnica. In fondo, è lo stesso movimento: la fuga dal nulla verso un ordine che promette senso, anche a costo della libertà. E in questo, il rito antico non è tanto un ritorno a Dio, quanto una forma estetica del bisogno di sicurezza.

La Chiesa di fronte a sé stessa

Il fenomeno tradizionalista, allora, non è un’anomalia: è uno specchio. Riflette le paure, le ferite e i vuoti della Chiesa contemporanea. Ma, nella sua radice più profonda, non è così diverso da altri atteggiamenti che oggi percorrono l’ambiente ecclesiale. Cambiano i linguaggi, ma la logica è la stessa: quella di chi si scaglia contro tutto e tutti - chi in nome di un rito, chi in nome di una sinodalità non meglio precisata, chi invocando l’ordinazione delle donne o altre battaglie di segno opposto. Sono espressioni diverse di una medesima inquietudine, che cerca identità non nella comunione, ma nella contrapposizione.

Quando la fede si indebolisce, l’ideologia diventa rifugio. Quando la parola non basta più a convincere, il gesto si trasforma in dogma. E quando la misericordia appare troppo rischiosa, si torna a parlare il linguaggio della norma. Ma il Vangelo, nel suo cuore, non è mai un recinto: è sempre un orizzonte aperto. E se la liturgia, antica o nuova, il sinodo, la dottrina o la morale diventano strumenti di contrapposizione, allora non è il rito a essere tradito, ma il senso stesso del sacro. Perché qui, come ricorda Girard, “è la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro.”

E allora la domanda, oggi, è inevitabile: le comunità che si proclamano custodi della Tradizione stanno davvero difendendo la fede, o stanno solo cercando di proteggersi dalla paura del mondo - e da sé stesse?

d.P.V. e p.L.A.
Silere non possum